I problemi maggiori si ebbero non solo in Italia ma
anche all’estero per le truppe dislocate fuori dai confini
nazionali, che dovettero fronteggiare, in solitudine e
nell’incertezza, tale momento critico, cercando di
bilanciare la necessità della sopravvivenza alla dignità ed
all’onore militare.
L’on. Mario Casalinuovo qualche anno addietro, per i
tipi dell’edizioni Rubbettino, ha scritto un libro dal
titolo "8 settembre 1943. Un episodio poco conosciuto
della Marina italiana", nel quale descrive ciò
che capitò a lui e ad altri commilitoni all’indomani della
ufficializzazione dell’armistizio.
In quella data egli infatti si trovava presso l’isola di
Brioni (Pola) in veste di partecipante al 9° corso per
allievi ufficiali di Stato Maggiore della Marina militare,
svoltosi in quella località individuata dal luglio del 1943
in sostituzione di Livorno, sede storica dell’Accademia
navale, ove fino a quel momento si tenevano anche i corsi
per gli ufficiali di complemento.
Quanto avvenuto a Brioni è una pagina poco nota ma,
comunque, significativa di quanto accaduto in quei tristi
giorni. Infatti, appena ricevuta la notizia della cessazione
delle ostilità verso le truppe anglo-americane, i comandi
cercarono di avere maggiori ragguagli dalla madrepatria e
riuscirono in poco tempo ad organizzare un rimpatrio via
mare dei militari. Ma a seguito di varie vicissitudini ed
anche a causa di incertezze e titubanze sulle modalità
operative (più di mille marinai rimasero 24 ore imbarcati su
una nave ospedale, "il Vulcania", ancorata al porto in
attesa di prendere il largo verso il sud Italia, e
successivamente fatta arenare), gli italiani non riuscirono
a mettere in atto il piano di evacuazione, finendo tutti
prigionieri delle truppe tedesche, nel frattempo sbarcate in
massa sull’isola e nell’intera zona di Pola.
Dopo un viaggio interminabile, prima via mare verso
Venezia e poi in treno, si avviarono verso il triste destino
dei campi di concentramento, dapprima a Markt Pongau e poi
ad Imst, entrambi ubicati in Austria, ove furono costretti a
lavorare, avendo in cambio un trattamento molto duro,
motivato da non avere la qualifica di prigionieri di guerra
bensì di internati militari. Status non riconosciuto dalle
convenzioni internazionali che pertanto lasciava spazi di
manovra molto ampi ad angherie e sistemi punitivi severi.
L’autore non si dilunga molto sul tipo di vita durante
la prigionia, anche per una forma di rispetto e sensibilità
verso chi subì persecuzioni e atrocità molto più gravi. Egli
però evidenzia come i militari italiani, nella quasi
totalità, non cedettero alle lusinghe provenienti dai
nazisti e dalle autorità di Salò, di combattere al loro
fianco. Decisione questa che avrebbe rappresentato la fine
della prigionia ed il cui rifiuto invece causò un
trattamento loro riservato ancora più rigido che durò fino
al termine della Seconda guerra mondiale.
Il libro si chiude con due brevi storie aventi per
protagonisti alcuni prigionieri di nazionalità russa, che
Casalinuovo ebbe modo di conoscere durante l’internamento,
tratteggiandone gli aspetti umani.
Va dato atto all’autore di aver divulgato una pagina
poco conosciuta dell’8 settembre che, pur non essendo stata
cruenta, rappresentò per i giovani allievi dell’epoca un
trauma esistenziale di non poco conto e che trovò, a
distanza di trent’anni dalla fine della guerra, il giusto
riconoscimento, a seguito di specifico intervento
legislativo, con l’attribuzione del grado di guardiamarina
(equivalente a sottotenente) a quei ragazzi (e vengono
ricordati anche altri concittadini e calabresi) che per
colpe a loro non imputabili non poterono terminare il corso
ufficiali e nello stesso tempo mantennero in prigionia un
atteggiamento dignitoso ed onorevole.
Su questo solco, nella ricorrenza della giornata della
memoria il Comando Militare Esercito "Calabria" ha
organizzato un incontro (con annessa mostra, fruibile da
tutti, nei locali della Caserma Pepe-Bettoja) ove si è
discusso, non solo della persecuzione del popolo ebraico, ma
anche dei tantissimi militari italiani che furono presi
prigionieri ed internati in vari campi di concentramento,
dai quali molti non fecero più ritorno alle loro case,
attuando quella che, poco generosamente, viene definita
"resistenza passiva" al nazifascismo.
Infatti, a seguito di ricerche effettuate
dall’Associazione "Calabria in Armi" nella persona del suo
Presidente, Mario Saccà, coadiuvato da personale civile del
Comando Esercito, presso l’Ufficio di stato civile del
Comune di Catanzaro, sono stati individuati 9 nominativi di
catanzaresi deceduti in prigionia (e sono solo una parte),
che si uniscono alle centinaia di calabresi che subirono
analoga triste sorte, a dimostrazione in ogni caso
dell’elevato tributo di sangue che in ogni circostanza la
nostra regione ed il meridione hanno dato ai grandi eventi
bellici.
A cura di Vincenzo Santoro