IL SISTEMA DIFENSIVO
UMBERTINO
SULLA COSTA CALABRESE
Non tutti sanno della presenza lungo le
rive dello stretto di Messina di un sistema difensivo costituito
da una serie di fortini militari costieri costruiti alla fine
del XIX secolo dal neo nato Stato Italiano a controllo e
salvaguardia della navigazione dello stretto.
Tale sistema difensivo era composto da
24 fortini di cui 14 piazzati sulla sponda siciliana e dieci su
quella calabrese, alcuni di essi sono ancora visibili e
nonostante i segni del tempo e degli avvenimenti bellici
vissuti, in discrete condizioni di conservazione.
Sulla sponda calabrese rileviamo, nel
circondario di Reggio Calabria, le fortificazioni di Beleno,
Catona, Gullì, Mateniti Inferiore e Superiore, Modena,
Pellizzeri, Pentimele, Pignatelli, San Leonardo e Spirito Santo.
Quella di Mateniti Superiore, poco
sopra Campo Calabro, identificata come Batteria Siacci è
certamente la più imponente di tutte con le sue dieci postazioni
per obici e forse la meglio conservata, sul portone d’accesso è
ancora possibile leggere l’anno di costruzione, era il 1888.
Questi fortini possono considerarsi i
moderni successori delle tante fortificazioni e torri costiere
erette, nel corso dei secoli, a difesa delle nostre città
costiere dalle incursioni nemiche.
La loro vera forza, oltre la potenza di
fuoco, era costituita dalla perfetta mimetizzazione sul terreno,
essendo quasi per intero interrate e per questo, difficilmente
raggiungibili sia dal tiro di cannoni navali, sia da incursioni
aeree nemiche, possiamo certamente descriverle come una linea
Maginot calabrese.
Più di fortini possiamo parlare di
batterie d’artiglieria anti nave sorte, a mezza costa,
sfruttando la particolare orografia del terreno, a difesa dello
stretto; loro compito principale era quello di colpire, dalle
due sponde opposte, con tiro di obici e cannoni, obiettivi in
mare provenienti dai due ingressi dello Stretto e difendere,
parimenti, i due porti di Reggio e Messina da incursioni o
sbarchi navali nemici.
Per capire meglio i motivi per cui si
rese necessaria la loro costruzione dobbiamo necessariamente
fare riferimento al contesto storico-politico in cui esse
sorsero.
Dopo l’unità d’Italia, il neo Stato si
trovò a gestire nuovi scenari politici e nuove controversie
sorte con gli altri stati europei, il nuovo Stato doveva darsi
una organizzazione militare, dotarsi di un esercito più
moderno, gestire, al meglio, la difesa dei nuovi confini alpini
e costieri.
I Comandi generali dell’esercito si
convinsero della necessità di costruire tutta una serie di forti
o sistemi fortificati principalmente sui confini alpini, a
nordest con l’Austria ed a nordovest con la Francia, potenziali
avversari del giovane Stato.
In questo contesto furono costruite
numerose fortificazioni secondo un piano strategico militare
atto a dare idonea risposta alle nuove strategie di difesa del
neo stato italiano.
Il Governo privilegiò, nel nuovo
contesto, la salvaguardia della difesa dei confini alpini,
limitando la difesa costiera ai porti più importanti e
strategici delle coste italiane.
Solo nel 1882, dopo l’inizio
dell’avventura italiana in Africa, con lo sbarco dei primi
bersaglieri a Massaua e la nascita della prima colonia italiana
in Eritrea, si rese necessario rafforzare anche le coste
italiane meridionali.
Tra le città di mare che furono
ritenute strategicamente importanti per la costruzione delle
nuove piazzeforti militari, vi furono La Spezia e Genova a
nord-ovest e Messina a Sud, quest’ultima, con il suo porto,
ritenuta estremamente importante per la sua posizione strategica
nel mediterraneo meridionale, si pensava al pericolo di
eventuali invasioni ottomane, previsioni che risultarono
veritiere con lo scoppio della guerra italo-turca, 1911/1912.
Mentre per le piazzeforti di Genova e
La Spezia si trattava di potenziare le strutture militari già
esistenti, per Messina e l’omonimo stretto, si rese necessario
costruire ex novo tutto il sistema difensivo costiero.
Fu costruito, pertanto, un imponente
apparato difensivo, dislocato sulle due sponde dello stretto,
idoneo a vigilare sull’intero territorio messinese, nei suoi due
versanti ionico e tirrenico, l’intero apparato prese il nome da
Umberto Primo di Savoia, Re d’Italia in quel periodo.
Lo scopo principale era quello di
scoraggiare, con la sua massiccia forza di fuoco, qualsiasi
forza navale nemica che volesse violare lo stretto o fare
sbarchi sulle rive dello stretto.
Il sistema costruttivo usato nella
costruzione delle fortificazioni dello stretto tenne,
naturalmente, conto delle nuove tecniche costruttive delle
fortificazioni che dovettero adeguarsi, rapidamente, allo
sviluppo, soprattutto, delle artiglierie del tempo, basti
pensare all’avvento della retrocarica, alla rigatura e
cerchiatura della canna e alla scoperta dei proiettili
dirompenti, tutte innovazioni che rendevano il fuoco
dell’artiglieria più potente e preciso e nello stesso tempo si
riscontrava una maggiore potenza di penetrazione dei proiettili,
di conseguenza si rendeva necessario un ripensamento
nell’assetto delle fortificazioni e dei campi trincerati
difensivi dell’epoca.
L’avvento delle nuove artiglierie con
maggiore gittata e precisione di tiro rendeva, infatti, inutili
i vecchi sistemi di difesa, nessuna costruzione in muratura
poteva resistere alla violenza delle nuove artiglierie che
riuscivano a sventrare anche rivestimenti in acciaio.
Il sistema fortificato dello stretto,
nonostante tutto, poteva, complessivamente, considerarsi
moderno anche se lo stesso era privo di calcestruzzo e travi in
ferro, materiali che vennero usati, in abbondanza sul fronte
alpino, negli anni immediatamente antecedenti alla prima guerra
mondiale.
Al pericoloso aumento della gittata e
potenza delle nuove armi, si rispose riadattando le vecchie
fortificazioni e costruendo le nuove con accorgimenti diversi
rispetto al passato.
Furono eliminati gli ormai inutili muri
di cinta, all’altezza delle costruzioni fu preferita la loro
distribuzione su uno spazio maggiore, i campi trincerati
destinati alle truppe furono allontanati sia dal nucleo centrale
di fortificazione sia dal nucleo da difendere, si rafforzarono
gli spessori delle mura, dove possibile, fu interrato tutto ciò
che era possibile interrare, diventando il tutto un sistema di
fortificazioni cosiddetto a barbetta, ossia quasi rasoterra
rispetto all’orografia del terreno.
I nuovi accorgimenti difensivi
rendevano i fortini, a mezza costa dello stretto, difficilmente
individuabili dal mare e, quasi completamente, al riparo dal
tiro diritto di cannoni navali di forze nemiche presenti nello
stretto, mentre, al contrario, il tiro curvo degli obici ed il
dritto dei cannoni presenti nelle varie batterie costituivano un
grosso deterrente per il naviglio nemico che intendesse forzare
lo stretto sottostante.
Il sistema difensivo dello stretto, nel
suo complesso, tra le due sponde dello stretto, occupava una
linea difensiva di parecchi chilometri formando una corona di
batterie costiere lunga circa 40 chilometri, la collocazione
delle varie batterie su rilievi ed altitudini diversi e ad una
distanza di sicurezza dalla costa, era stata appositamente
studiata per facilitare l’avvistamento e la neutralizzazione di
naviglio nemico, restando, nello stesso tempo occultati e
protetti dal rilievo collinare che ne rendeva difficile
l’individuazione ed il tiro da parte del nemico.
Nello stesso tempo, fu realizzata un
articolato sistema viario che, attraversando zone di particolare
bellezza naturalistica, rendeva possibile l’accesso alle singole
strutture altrimenti irraggiungibili per l’asperità dei terreni
interessati.
Per la difesa da terra, le singole
batterie, riprendendo le architetture militari rinascimentali,
furono dotate di fossati di gola e di muri di cinta dotati di un
sistema di feritoie che riusciva a coprire l’intero perimetro
della struttura.
Tutte le strutture hanno in comune la
tipologia di costruzione che si identificava con un fronte
d’attacco ed un fronte posteriore.
Il fronte d’attacco detto anche fronte
di fuoco adibito all’istallazione dei pezzi d’artiglieria, era
quasi completamente interrato ed invisibile dal mare, era,
inoltre, capace di assorbire o limitare eventuali colpi
d’artiglieria nemica.
I singoli pezzi poggiavano su delle
rotaie circolari che consentivano un rapido orientamento del
tiro.
Nei piani sottostanti alle postazioni
di artiglieria, in maggiore riparo, v’erano riservette di
munizioni cui si accedeva con appositi montacarichi che
consentivano un rapido rifornimento ai pezzi, tutte le
riservette erano dotate di appositi tavolati per evitare il
rischio di pericolose scintille.
Ai lati della linea di fuoco, erano
posizionate, tuttora visibili in alcune batterie, le torrette
telemetriche che servivano ad individuare gli obiettivi e dare
le coordinate ai pezzi.
Il fronte posteriore, estrema difesa
della batteria ricordava, nella sua articolazione, le fortezze
rinascimentali. Era difeso da un corpo di guardia che
controllava l’ingresso, dotato di un portone corazzato e
preceduto da un ponte levatoio anch’esso in metallo.
Le mura esterne erano dotate di
cannoniere e caponiere poste alle estremità laterali della gola,
allo scopo di difendere con tiro d’infilata aggressioni e
assalti ravvicinati.
Tutt’intorno c’era un ingegnoso sistema
di raccolta delle acque piovane che garantiva una certa
autosufficienza idrica.
Su tutta la struttura era presente un
sistema di parafulmini costituito da una griglia metallica
funzionante secondo il sistema della gabbia di Faraday, esso
permetteva la protezione dalle scariche elettriche, scongiurando
il pericolo di esplosioni.
I due fronti anteriore e posteriore
della struttura erano collegati da un cortile interno scoperto
su cui si affacciavano tutti i locali per la truppa e gli
ufficiali, dal cortile salivano le rampe di accesso ai livelli
superiori, il sistema di trasporti tra i diversi livelli erano
costituito dalla forza animale e dalla forza umana.
Oltre all’armamento leggero, i fortini,
all’origine, erano dotati di obici da 280 millimetri con una
portata di 7.000 metri e cannoni da 149 millimetri, mentre nei
decenni successivi e nel corso dell’ultima guerra, si arrivò ad
avere gittate anche di 15.000 metri.
Tali sistemi difensivi, benché
possenti, erano destinati ad essere superati con l’avvento dei
primi aeroplani da guerra utilizzati sin dal 1911 e il cui
utilizzo si ampliò durante la prima guerra mondiale e divenne
predominante nel corso dell’ultimo conflitto.
L’aviazione stravolse le strategie e le
tattiche militari, portando ad una ulteriore rivisitazione delle
tecniche costruttive delle fortificazioni che dovettero
attrezzarsi con idonee postazioni contraeree e con ulteriori
sistemi di mimetizzazione.
A tutto ciò si aggiunsero i cambiamenti
dovuti all’evoluzione delle tecniche militari che resero
superate le guerre di posizione per passare a tattiche di guerra
di movimento che resero il combattimento statico,
definitivamente superato.
Alla vigilia della seconda guerra, in
previsione di attacchi aero navali, il territorio dello stretto
fu munito da tutta una rete di stazioni di vedetta e
segnalazioni radiotelegrafiche, punti di avvistamento, ascolto,
intercettazione ed identificazione aeronavale collegati ad un
sistema centrale di difesa antiaereo e navale.
L’intero sistema difensivo dello
stretto, sebbene alquanto vetusto, complessivamente si poteva
ritenere abbastanza valido a sostenere l’urto aeronavale nemico
del nuovo conflitto.
Con lo scoppio della guerra, era
scontato che Messina, con il suo traffico marittimo da e per i
territori d’oltremare, rappresentasse l’obiettivo principale
dell’aviazione inglese e americana.
Nonostante la superiorità navale, le
forze alleate commisero l’errore di non procedere ad un attacco
navale, in grande stile, allo stretto per intrappolare le forze
dell’asse in Sicilia, per cui cercarono, quando, nel 1943, fu
necessario passare lo stretto, compensare lo svantaggio iniziale
con massicci bombardamenti aerei su Messina e sulle coste
calabresi, subendo, nonostante il loro predominio aereo, pesanti
perdite. Nel solo spazio aereo di Messina persero, infatti, ben
50 aeromobili tra bombardieri e caccia.
Probabilmente si era consapevoli
dell’imponenza delle difese costiere dello stretto che
impedivano di fatto qualsiasi sbarco alleato o qualsiasi
attività navale.
L’attività della flotta inglese si
dovette limitare a pesantissimi bombardamenti navali dalla lunga
distanza, al di fuori del tiro dell’artiglieria costiera e ad
incursioni di piccolo naviglio per disturbare la navigazione, da
una sponda all’altra, delle zattere adibite al passaggio di
materiali e truppe dell’asse.
Tali trasporti non subirono mai alcuna
interruzione, neanche durante i violenti bombardamenti aerei.
Anche l’attività dei sommergibili
inglesi era preclusa nelle acque dello stretto per l’intensa
vigilanza della marina italiana e dei punti di avvistamento
dalle due coste.
La forma ad imbuto dello stretto
dissuadeva qualsiasi piano d’attacco navale, era molto difficile
penetrare nello stretto senza essere individuati e colpiti dalle
artiglierie italiane.
Le batterie costiere dello stretto, al
contrario di altri sistemi difensivi statici, furono in grado,
infatti, di resistere, per la protezione fornita dal terrapieno
mimetico frontale, anche ai bombardamenti navali del 1943 in
quanto i colpi di artiglieria navale, con le traiettorie tese
dei grossi calibri dei cannoni in dotazione e con l’alzo
limitato che essi avevano sulle navi, si dimostrarono inefficaci
a colpire il sistema difensivo costiero.
Il 15 agosto 1943, le batterie costiere
dello stretto, il cui personale aveva combattuto, senza sosta e
senza abbandonare mai i posti di combattimento, spararono gli
ultimi colpi contro le navi nemiche prima di far saltare i pezzi
così come ordinato dal Comando militare, stava per iniziare
l’operazione Baytown, lo sbarco alleato sulle coste calabresi
con il conseguente ritiro delle truppe dell’asse lungo la
penisola.
A distanza di tanti anni, rimangono
silenziose, con tutto il loro fascino immutato nel tempo, quelle
“sentinelle dello stretto” che resistettero, alcune intatte,
oltre che agli eventi bellici anche al devastante terremoto del
1908, pari al 12° ed ultimo grado della scala Mercalli, che rase
al suolo le due città dello stretto.
Nando CASTAGNA
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