|
A
Rossella,
Dino e Pierluigi Pascali
Conclusasi
definitivamente l'era napoleonica con la sconfitta di Waterloo (giugno
1815), i rappresentanti dei principali stati europei, in un'atmosfera
sfarzosa come non mai, si riunirono a Vienna per dare una sistemazione
politico-territoriale all'Europa e decidere le sorti dei popoli.
Il Congresso già iniziato nel novembre del 1814 e poi interrotto per i
Cento giorni dell'Imperatore riportò in solio i legittimi sovrani
spodestati da Napoleone e creò quell'equilibrio perché non si
ripetessero egemonie di Stati a danno di altri. Non fu preso in
considerazione il principio di nazionalità.
Iniziava quindi l'epoca della Restaurazione e il completo ritorno al
passato per ridare l'ordine sconvolto dalle idee rivoluzionarie. La
penisola italiana tornò ad essere frammentata e s'intensificò il potere
austriaco attraverso legami di dinastie e di alleanze con i vari
monarchi.
Nel regno di Napoli ricomparve la casata borbonica nella persona di
Ferdinando IV che assunse il titolo di Ferdinando I, re delle due
Sicilie. Favorevoli alla restaurazione, quindi ai modi di governo
dell'ancien regime furono i ricchi aristocratici e borghesi e l'alto
clero conservatore che di prepotenza rafforzavano i loro privilegi,
contrari innanzitutto gli intellettuali e i professionisti nutriti di
ideali di libertà e di giustizia e ancora tutti coloro che col codice
napoleonico avevano approvato l'abolizione del feudalesimo,
l'introduzione equa delle imposte fondiarie e una riforma scolastica
meno elitaria.
La Calabria, come tutto il Meridione, era in un intreccio di
contraddizioni. La legge del 2 agosto 1806 relativa all'eversione della
feudalità sebbene avesse eliminato abusi e soprusi legalizzati
riconoscendo la sovranità dello Stato, aveva fatto sì che i proprietari pleno iure amministrassero le loro terre in autonomia lasciando così la
situazione socio-economica preesistente. Alla Mongiana le ferriere regie
rappresentavano il prototipo di una vera fabbrica, i Barracco e i
Compagna erano tra i più ricchi del regno con migliaia di capi di
bestiame e i De Nobili, baroni di Simeri, con Emmanuele, gran
ciambellano del Murat, avendo comprato il 40% degli immobili della
Chiesa tra cui la grangia di Sant'Anna (1363 tomolate di terra) 60 fondi
e 25 predi urbani avevano ampliato il latifondo.
Il popolo minuto, o meglio popolazzo, viveva nella piena miseria: i
contadini e ancor di più i braccianti erano esclusi di fatto da tutti i
diritti umani e giuridici.
La scarsezza di mano d'opera spingeva a flussi la migrazione interna;
agli inizi dell'estate schiere di "metituri" dai paesi della Presila
cosentina, dell'Aspromonte e dell'entroterra soveratese, si versavano
nei granai del Marchesato. La pendolarità si stabilizzò in seguito alla
diffusione della malaria: i mandriani per la transumanza per non
scendere sul litorale paludoso sostavano in bassa collina in villaggi di
pagliai. In città a molti mancava l'essenziale e si sopravviveva di
sottoccupazione in una realtà igienico-sanitaria priva di norme, tanto
per fare un esempio lo spiazzo della Vallotta a Catanzaro era un
ricettacolo di acque torbide che davano origine a stagni putridi abitati
da serpi e rane e la condizione era così continua che si tramandò
scorresse un ruscello dovuto, forse, anche all'affiorare di acque
sotterranee.
La viabilità della regione si limitava alla strada Napoli-Reggio
Calabria che impiegava dodici giorni di viaggio, da Catanzaro dieci e si
partiva da Tiriolo (Settembrini), da Cosenza otto.
Il riassetto borbonico mirò principalmente a consolidare una politica di
assolutismo sotto gli occhi indifferenti e rassegnati delle masse che si
adattavano all'alternarsi delle dominazioni. Furono apportate modifiche
amministrative: le circoscrizioni passarono da due a tre: Calabria Citra
con capitale Cosenza; Calabria Ultra I con Reggio e Calabria Ultra II
con Catanzaro. Monteleone (Vibo), già la prima città della Calabria fu
depauperata degli uffici più importanti. Ai Conciliatori, ai giudici di
circondario e ai tribunali fu affidata la giustizia civile. Per la legge
organica del 29 maggio 1817 le Corti d'Appello furono definite Grandi
Corti Civili e nel regno furono fissate ad Aquila, Trani e Catanzaro,
città quest'ultima già scelta da Murat il 29 maggio 1809 per accogliere
l'Appello dei Tribunali delle altre province della regione. Una Gran
Corte Criminale fu istituita in ogni città.
Nonostante la disapprovazione di alcuni ministri, furono fatte
concessioni importanti alla Chiesa col concordato del 16 febbraio 1818 e
alla Corte e ai Circoli finanziari ad essa legati nel campo fiscale e
doganale. Si aprirono conventi a Taverna, Pizzo, Altomonte, Polistena,
Filadelfia, Tropea, Sambiase. Il Codice civile del marzo 1819 appoggiò
il potere della Chiesa con l'abolizione del divorzio, la non validità
del matrimonio non consacrato secondo le normative ecclesiastiche.
In questo clima stantìo non pochi giovani avvertivano il malcontento:
alcuni perché arruolati nell'esercito regio, altri per motivi di studio
presso l'Università di Napoli, fucina di nuove idee, si facevano
divulgatori della loro fede politica. Si formavano così le prime società
segrete. Furono proprio alcuni calabresi come Michele Morelli di Monteleone e i fratelli Pepe di Squillace a promuovere la prima
insurrezione (1821) di un reparto di cavalleria che indusse il sovrano,
figura ambigua a concedere la costituzione sul modello di quella
spagnola del 1812 che pur lasciando il potere esecutivo nelle mani del
re, ribadiva che la sovranità spettasse alla nazione per mezzo del
Parlamento. L'esperienza fu di breve durata e, per trenta rivoltosi, tra
cui lo stesso Morelli fu allestita la forca in piazza Mercato a Napoli.
Le divisioni all'interno delle forze rivoluzionarie ne avevano
affrettato la fine. La Sicilia, su insistenza dei nobili si rifaceva
alla Carta del Commissario Bentink che le garantiva carattere
oligarchico e conservatore.
Alle crudeli pene inflitte dal re e alimentate dall'allora Ministro
della Polizia Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa, fatto
esiliare su pressioni dell'Austria e della Russia e, nel corso degli
anni di matrimonio dall'influenza della regina consorte Maria Carolina,
già morta nel 1814, si aggiungeva l'enciclica pontificia che esonerava i
sacerdoti dal segreto di confessione qualora si fosse trattato di
riferire alla Polizia nomi e luoghi d'appartenenza ad associazioni
clandestine. Un modo ignobile di portare avanti le indagini che delusero
molti cattolici passati poi ad altre congreghe cristiane.
La Carboneria, secondo lo studioso inglese Billington, era stata
importata nell'Italia meridionale dagli ex militari napoleonici che si
rifacevano alla società dei Charbonniers. Gli adepti si incontravano nei
boschi all'aperto e ognuno portava con sè una scheggia di legno da
trasformarsi in carbone. Era simbolico l'albero dalle lunghe radici e i
rami (le sette) ricchi di foglie (la fratellanza) e ancora la scala di
legno (ascesa dell'uomo a Dio) e i fasci dell'antica Roma (l'unione).
In Italia la setta si basò su valori e sentimenti che caratterizzarono
il Risorgimento: combatté per la Costituzione e la cacciata dello
straniero senza auspicare ad un'unità nazionale. La sua peculiarità nel
sud fu quella di avere iscritti provenienti da ogni ceto sociale, dai
nobili ai proprietari, agli intellettuali, ai sacerdoti, ai ceti medi,
ai contadini, ai servi.
La prima società segreta in Calabria era sorta ad Altilia (CS) nel 1811
per opera del medico condotto Gabriele De Gotti, le altre si erano via
via diffondendo a San Mango, a Conflenti con i Folino, Villella, a
Dipignano, a Cortale con i Cefaly (il padre del pittore Domenico era
stato consigliere distrettuale di Murat), a Mesoraca con i Carelli e La
Rosa, a Maida con il circolo dei Filadelfi, a Squillace, a Stalettì con
Aracri, Riga e Piccinnè, a Girifalco con un ramo della famiglia
Migliaccio, a Borgia con i Cospiratori, a Cropani con il titolo Campo
Europeo.
A Catanzaro si delineavano le varie tendenze di parte. Si dichiaravano
filo borbonici i nobili agrari tra i quali a Marincola Cattaneo, i
Mottola d'Amato, i De Cumis, i Le Piane, gli Scoglio, ad essi si
contrapponevano liberali come i De Nobili, Marincola Politi, Marincola
San Floro, Schipani, De Riso (insigniti prima baroni e poi marchesi
dalla stessa casa regnante), i Bianchi, gli Opipari, i Pascali, i
Veraldi, i Manfredi e molti della maestranza cittadina. Legittimisti e
quindi fautori dello stretto legame tra assolutismo monarchico e il
potere religioso si dichiaravano i Felicetti, i Pugliatti, i Pugliese, i
Ferragina. In alcuni paesi della provincia si respirava aria di
sommossa, a Stalettì si piantava l'albero della libertà (1° luglio
1821), a Gimigliano si metteva a fuoco la casa del Giudice Regio (6
luglio 1821), nel capoluogo, nel convento della Stella erano stati
rinvenuti dagli operai durante i lavori di restauro (1818) i simboli
della Carboneria i cui proseliti erano soliti riunirsi al buio nel rione
delle Case Arse presso la casa di Luigi Varano (custode del Catechismo e
dei simboli della setta) coadiuvato da un monaco sfratato, un certo
Baldini. Nei pressi in un frantoio, di notte, si riuniva la vendita di
Giovanni Scalfaro che spesso travestito da monaco di cerca diffondeva il
suo credo politico tra Feroleto e Sambiase.
L'8 giugno 1822 il G.I. del distretto di Nicastro informava il Regio
procuratore generale presso la Corte Criminale di Calabria Ultra II di
voci di un'imminente sommossa. Il 18 dello stesso mese il R.G. di Martirano comunicava al Sotto Intendente di Nicastro che la volontà
della rivolta gli era stata confidata da Giovambattista De Gattis di
Martirano. È da precisare che il De Gattis mirava a colpire
ingiustamente gli abitanti di San Mango che esercitavano diritti civici
sui territori limitrofi a fondi di sua proprietà estorti al legittimo
intestatario, il duca di Laurito. Infatti il malvagio in data 12 luglio
1822 confessava che da una persona degna di fede aveva sentito che nelle
città di Catanzaro e Cosenza e in altri luoghi della regione sarebbe
seguita una rivolta finalizzata ad assassinare le persone attaccate al
sovrano, a liberare i detenuti dalle prigioni e a proclamare un nuovo
governo. La cospirazione sarebbe stata formata da uomini facinorosi
abbandonati ad ogni forma di vizio lusingati di costruirsi una nuova
vita. Così menzionava Raimondo La Rosa di Mesoraca e Michele Orlando i
quali fuggiti su due muli erano stati visti dirigersi per diffondere il
programma rivoluzionario.
Il 13 luglio il Sotto Intendente di Calabria Ultra II G. De Maio
informava di aver ricevuto l'ordine dall'Intendente di arrestare Michele
Orlando, Francesco Monaco di Dipignano e Pasquale Rossi di Tessano
(frazione di Dipignano). Si voleva incastrare Francesco Monaco
considerato l'intermediario fra le due province.
Il 26 settembre 1822 a Giuseppe Ventromilo, cancelliere della Regia
Giustizia del Circondario di Nicastro, il detenuto Michele Orlando
dichiarava che da Francesco Monaco era stato informato che in casa
Angotti si era fondata una setta intitolata I Cavallieri Europei
Riformati. Orlando aggiungeva di essere stato iscritto alla Carboneria
nell'anno 1820 nel tempo in cui vigeva la Costituzione davanti al Gran
Maestro Raffaele Poerio; al primo assistente Ignazio Pericciuoli, al
tesoriere Gennaro Paone, al segretario Antonio Pollenzi.
Circa la fine di febbraio dell'anno successivo si era ritrovato ancora a
Catanzaro in casa di Giovanni Scalfaro alla presenza di Daniele Manfredini, Raffaele Elia, Antonio Tucci. In quella circostanza il
padrone di casa lesse il programma della nuova società segreta dei
Cavallieri Riformati. L'atto del giuramento venne declamato con grande
ardore da Raffaele Bilotti che invitò lo stesso Orlando quale iniziato a
seguire il rito cacciandosi sangue dalla mammella sinistra, atto non
compiuto perché disapprovato dagli astanti. Non furono pronunciati
giuramenti se non le parole: Filo , Mene , Tebe. Giuseppe Veraldi di
Taverna, già maggiore della Legione ai tempi della Costituzione ne era
il Gran Maestro.
E così Michele Orlando, ferraro, prima settaro col grado di Gran
Maestro aveva ceduto, allettato da 200 ducati, alle lusinghe del De
Gattis sulle cui terre lavorava il proprio padre Tommaso.
Il 23 maggio 1822 ricevevano mandati d'arresto Antonio Angotti, Antonio
Maria, Giuseppe Muraca, Gaetano Talotta, Francesco Monaco, Pasquale
Rossi, Giuseppe Salsano, Antonio Tucci, Raimondo La Rosa col suo garzone
Lorenzo Spinelli, Daniele Lanfreducci, Raffaele Bilotti. (Archivio di
Stato. Processi Politici Busta 2 fascicoli 3 , 4).
Si creavano così le prove dei rapporti tra le due province.
Venivano rimpiazzati gli Intendenti. A Catanzaro giungeva il Conte
Ferdinando Cito di Torrecurso al posto del marchese Arena Caracciolo, a
Reggio il principe Ruffo della Motta, a Cosenza Francesco Nicola De
Mattheis il quale fece di tutto per avere le redini dell'istruttoria su
tutto il territorio in riferimento alle cospirazioni contro il governo.
Raffaele Poerio rientrato da Napoli, nella casa di Giovanni Scalfaro
alla presenza dei più arditi carbonari aveva parlato di una prossima
sommossa allargata dai patrioti della Lucania e del Salernitano. Dalle
voci che si diffondevano il Governo ordinò un'inchiesta dando pieni
poteri al Generale Gaetano Pastore prima soldato napoleonico e poi
accanito borbonico, questi andò ad abitare a palazzo Salzano dove dodici
anni prima era stato il famigerato Manhes al servizio di Murat, i due
erano accomunati nella conduzione disumana e spietata delle indagini, in
data 16 marzo 1823 si riunì una Commissione Militare che operò fino al
giorno 24 dello stesso mese (9 giorni). Fu chiamato come uomo di legge
il procuratore generale del re presso la Corte Criminale Raffaele
d'Alessandro.
Gli imputati furono:
1. Francesco
Monaco di Dipignano (nato nel 1789) fu Bartolomeo e di Orsola Manfredi,
proprietario di anni 32;
2. Giacinto
de Iessi di Gaetano e di Irene Giordano (nato nel 1793) di Catanzaro,
patrocinatore di anni 30;
3. Alessio
Berardelli di San Mango di Francesco e Giovanna Spagnuolo, di anni 28,
proprietario;
4. Francesco
Berardelli di San Mango, di Alessio e Agnese Berardelli, falegname di
anni 60;
5. Domenico
Berardelli di San Mango, di Alessio e fu Agnese Berardelli, bracciante
di anni 40;
6. Rosario
Berardelli di San Mango, di Paolo e di Agata Sposato, massaro di anni
48;
7. Antonio
Berardelli di San Mango, fu Alessio e fu Agnese Sposato, falegname di
anni 26;
8. Gaspare
Sposato di San Mango, di Samuele e della fu Antonia Ferrara, di anni 63
sacerdote;
9.
Antonio Angotti di San Mango, (nato nel 1791), fu Francesco e Teresa,
proprietario di anni 32;
10. Giuseppe
Ferrara di San Mango, fu Pasquale e Carmina Fraiacopo, parroco di anni
56;
11. Francesco
Saverio Muraca di San Mango, fu Angelo e fu Teodora Manfredi, medico di
anni 61;
12. Carmine
Muraca di San Mango, fu Angelo e fu Giustina Guido, massaro di anni 60;
13. Raffaele
Renda di Catanzaro, fu Antonio e di Maria Giuseppa Cosentino, sarto di
anni 27;
14. Luigi
De Pasquale di Catanzaro, di Ignazio e di Maria Antonia Papaleo,
studente di legge di anni 24;
15. Odoardo
Marincola di Catanzaro, di Antonio e della fu Teresa Sanseverino, nato
nel 1792 proprietario di anni 31;
16. Cesare
Marincola di Catanzaro di Antonio e della fu Teresa Sanseverino nato nel
1789 proprietario di anni 34;
17.
Giovanni Marincola di
Catanzaro di Antonio e della fu Teresa Sanseverino nato nel 1801, legale
di anni 22.
Dei catanzaresi i fratelli Marincola del ramo Politi (discendenti di
Saverio e Gerolama Politi già vedova Rocca - XVII secolo) detti anche
Sant'Angelo per l'ubicazione del loro caseggiato nel rione omonimo erano
noti per le loro idee. Cesare aveva iniziato ad organizzare la Milizia
nazionale in Calabria nel 1821. Erano stati arrestati il 22 gennaio
1823.
Giacinto De Iessi abitava nel palazzotto di fronte a quello degli
Scalfaro (oggi di proprietà Vecchio - De Stefani) e con Giovanni aveva
modo di confrontarsi frequentemente. Il suo arresto avvenne all'improvviso in un momento di quiete assoluta: gli sbirri entrarono
dal giardino di casa e irruppero alla presenza del cognato, avvocato
Arcuri, che ne rimase fortemente traumatizzato tanto da abbandonare il
lavoro, rinchiudersi in casa e uscirne dopo nove anni in seguito a forti
scosse di terremoto. Luigi Pascali, bello come un eroe greco, giovane,
di famiglia facoltosa, sognava un futuro splendido con Teresina G.,
venne arrestato per caso, quando uscito dalla propria dimora di Via
Raffaelli, in compagnia dell'amico Giovanni Scalfaro, si avviava verso
Fuori le porte per vedere i prodotti esposti dalla Fiera di San Lorenzo
(8 agosto). I due avvistati da alcuni gendarmi se la diedero a gambe
levate lungo la discesa della Catena. Giovanni riuscì a seminare i
segugi, Luigi fu tradito dalla scarpa che si incastrò tra due pietre e
venne catturato.
Raffaele Renda nella sua semplicità intellettuale aveva abbracciato con
convinzione le idee carbonare, era stato arrestato il mercoledì delle
Ceneri travestito da penitente che dispensava cenere, era stato accusato
del fallito attentato al generale Pastore al rione Monacaro. Amato per
il suo carattere estroverso mastro Rafelino ispirò alcuni versi che il
popolino ripeteva con tenero affetto: Povero Rafelino/come sei
capitato/per darci la cenere/ti trovi in questo stato.
Il dibattimento del processo fu breve, si ascoltarono 61 testimoni su 88
e non fu necessario il giuramento, i testimoni furono trattenuti nelle
carceri perché non venissero influenzati a ritrattare e dire la verità.
Sono andati perduti gli interrogatori tranne due riportati da Cesare
Sinopoli: Salvatore C. cafettiere, asseriva di essere stato iscritto
alla società il cui capo sezione era Luigi Pascali mentre le altre
sezioni erano coordinate da Scalfaro, De Iessi e Veraldi. Gaetano C.
beccaio, allungava la lista degli iscritti con altri nomi: Filippo Pucci,
Giuseppe Caporale, Gennaro Scarfone, Domenico Ubriatico, Vitaliano
Critelli, Giuseppe Martino, Vincenzo Cimino, Antonio Pupo, Salvatore
Scorza, Giorgio Caloiero, Raffaele Elia.
Gli incontri si erano tenuti al casino Fiasco dei Marincola o tra gli
uliveti di Madonna dei Cieli o alle Baracche. Il giuramento oltre alle
parole Filo - Mene - Tebe era accompagnato da un colpo che si doveva
dare con la mano tesa sul proprio cappello e ancora da nove toccamenti
del dito medio sul polso, l'ultimo accompagnato col piede diritto sul
pavimento.
Ai cinque avvocati di difesa, tra i più stimati professionisti del tempo
non fu data la possibilità di esporre con dovizia di prove le loro tesi.
Giuseppe Marini Serra di Dipignano conosciuto anche a Napoli per la sua
persuasiva oratoria, pur considerato filo borbonico, cercò invano di
tirar fuori Monaco e i sammanghesi rei di atti non commessi, l'avvocato
Gaspare Arcuri apprezzato docente di Diritto criminale nelle scuole
universitarie cittadine, animosamente tentò di salvare dalla morte il
proprio cognato Giacinto De Iessi, suo patrocinatore nello studio legale
al quale era legato da profondo affetto. I fratelli Marincola e Pascali
furono seguiti da Giuseppe Manfredi, penalista, spesso associato a
Giuseppe Poerio nel foro partenopeo e già commilitone di Cesare ed
Odoardo nella campagna di Russia al seguito di Napoleone e poi con Murat.
I Marincola in quel periodo vivevano il dolore per la tragica morte del
giovane zio paterno Saverio ucciso in un agguato dai fratelli De Nobili.
Gli imputati erano ancora difesi da Gaetano Franco, uomo serio e probo
di idee liberali parente del già citato Varano militante carbonaro e da
Pasquale Calcaterra di Dasà dalla ragguardevole carriera. Tutti i
difensori miravano a rendere infondato il processo perché basato sulla
menzogna. Veraldi e Scalfaro, avvisati in tempo, dati alla latitanza non
furono mai processati nonostante apparissero i loro nomi.
La sentenza pronunziata giorno 24 marzo lunedì Santo fu dura e iniqua.
Monaco, Pascali, De Iessi, considerati accaniti propagandatori
dell'attentato al Regno ebbero la pena capitale. Il primo col terzo
grado di pubblico esempio, gli altri due con l'aggiunta di una multa di
mille ducati. Renda e Ferrara ventiquattro anni al terzo grado dei
ferri, Sposato, Angotti, Carmine Muraca e i cinque Berardelli a
diciannove anni sempre al terzo grado dei ferri, con una multa di 500
ducati, il medico Francesco Saverio Muraca la libertà provvisoria.
Odoardo Marincola fu graziato con la clausola di risiedere sotto
sorveglianza a Napoli e così Cesare dietro una speciale garanzia di
5.000 ducati secondo quanto stabilito dall'Intendente di Catanzaro. Per
poter saldare il conto ottenne un prestito dal cugino Carlo che fece
un'ipoteca sul fondo Chiattini, nei pressi di Catanzaro Sala. Giovanni
fu sorvegliato speciale. Comunque fu discussa dall'opinione pubblica la
mitezza della loro pena. I condannati furono portati nelle nuove
carceri, quelle di San Giovanni e i padri liguorini furono vicino ai tre
che il giorno successivo avrebbero lasciato la vita terrena.
La città era in subbuglio, ovunque gendarmi armati e cannoni. Fu
allestita la forca a Porta di Mare per De Iessi e Pascali. Commovente la
figura dell'avvocato Pascali, stanco e ormai impotente davanti alle
sorti del figlio che pronunciava le ultime parole: Viva l'Italia, lasciò
cadere nelle mani del boia un gruzzolo di monete perché la morte fosse men dura, (sei carlini).
Per Monaco fu montata la "collettina" nello spazio dove sorge l'Istituto
Industriale. Gli erano stati imputati tutti i capi d'accusa, nel periodo
della latitanza era stato ospite della famiglia Angotti a San Mango.
Maria Antonia Barberio, la moglie, esempio di sublime amore coniugale,
afflitta, pur trattenuta in carcere per non aver depositato contro il
marito, aveva supplicato De Mattheis in persona perché rendesse meno
crudele la pena che aveva provocato al corpo piaghe e infezioni, ma
quello di risposta aveva replicato che avrebbe preferito parlare con la
figlia sedicenne.
I cadaveri di De Iessi e Pascali furono lasciati fino a sera, uno fu
seppellito nella fossa della Chiesa del Rosario in Via XX Settembre,
davanti a palazzo Masciari, oggi ricostruito Failla, l'altro nell'Oratorio della Congrega dell'Immacolata sotto l'altare, poi col
tempo trasferiti in un loculo del Cimitero cittadino.
Il capo mozzo di Monaco rimase esposto all'inferriata del carcere
secondo l'usanza per i ghigliottinati poi ricomposto, il corpo sepolto
nella chiesetta dell'ospedale Sant'Agostino (vecchio ospedale).
I catanzaresi vissero la settimana santa con sofferenza e dolore, certi
dell'innocenza degli eroi. Il clamore delle due Calabrie giunse fino a
Vienna ove si trovava il sovrano Ferdinando I il quale messo alle
strette dagli interlocutori inorriditi di quanto accaduto, diede ordine
che tutti gli atti fossero revisionati da una Commissione formata dal
Presidente Antonio De Blasio (calabrese di Castelvetere, oggi Caulonia)
e da due vice presidenti Paternò e Marrano. Il processo era stato retto
da calunnie e abusi. La Camera suprema di giustizia di Napoli a camere
riunite col numero di 16 votanti procedette a regolare giudizio su De
Mattheis, D'Alessandro, De Gattis a altri implicati. Emersero errori,
ingiustizie, sevizie, persecuzioni che avevano costretto intere famiglie
ad emigrare. Il De Mattheis con alterigia aveva abusato dell'ospitalità,
a Rogliano, della famiglia Morelli da dove erano partiti i suoi ordini
iniqui. La sua crudeltà nel modo di agire aveva provocato la morte della
padrona di casa, straziata dai lamenti dei torturati e la follia di
Fortunato, il figlio primogenito della donna. Il Tribunale lo accusò di
aver diffamato le popolazioni della Calabria, di avere prodotto e
istruito testimoni falsi e false carte, di aver abusato della propria
autorità, D'Alessandro fu incolpato di interesse privato nel favorire
private vendette e il De Gattis di complicità con De Mattheis.
Michele Orlando veniva assassinato dai mandanti del De Gattis perché si
temeva rivelasse l'intrigo. La parte civile veniva difesa da Serra
Marini e Badolisani le cui arringhe furono passionali. La sentenza fu
data con Francesco I. Il De Mattheis, difeso dall'avv. Romano,
condannato a 10 anni perché la Corte non era stata unanime, D'Alessandro all'ergastolo, De Gattis inviato ai Tribunali correzionali. Giuseppe
Celentani avvocato generale presso la Suprema Corte, aveva chiesto la
pena di morte per De Mattheis e D'Alessandro e ancora la prigione per
Pastore e i membri della Commissione militare che in realtà furono
avanzati di grado.
Intanto salito al trono Ferdinando II col decreto del 29 novembre 1830
condonava a tutti la pena non ancora espiata. De Mattheis si trasferì a
Salerno e morì durante un intervento chirurgico alla gola. Agli imputati
fu condonata la pena pur rimanendo nelle carceri.
Rimase l'indignazione. E così si "conchiudeva" uno dei momenti più
tristi della nostra città che i libri di storia omettono ma che è una
pagina elevata di nobili ideali, sofferenze, di morte, i cui
protagonisti, fra speranze e sconfitte, hanno inciso profondamente nella
formazione della coscienza civile della nazione: il Risorgimento.
Cesare Marincola parteciperà alla Rivoluzione del 1848 e poi sarà
latitante. Si presenterà alle carceri di Catanzaro nel 1852 e rimarrà
rinchiuso fino al 58. Morirà l'anno successivo.
Giovanni Marincola nel 1848 farà parte del Comitato rivoluzionario e di
Salute pubblica, nel 1852 sarà condannato a 25 anni ai ferri e ne
sconterà 5. Sarà presidente della Corte di Assise di Potenza.
Giovanni Scalfaro sempre latitante, morirà a Stalettì nel 1852, non gli
sarà consentito di essere seppellito nel camposanto, provvederanno col
tempo i figli.
Francesca Rizzari Gregorace |
|