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MURAT: un documento racconta.. |
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Un documento sulla cattura di Gioacchino Murat nell’archivio della Provincia di Catanzaro. Un foglio di carta azzurrina ripiegato e posto all’interno di un computo metrico riguardante la Scuola Agraria di Catanzaro è stata un’ inattesa scoperta fatta nel corso della ricerca sul quartiere S. Leonardo di Catanzaro. Come mai era stato nascosto fra quei documenti che, in termini temporali e spaziali, riguardavano un edifico dedicato all’Istruzione Pubblica del XX secolo? La risposta non è difficile: l’angolo sinistro inferiore era stato strappato per sottrarre il sigillo della lettera. Era stata l’opera di un ignoto collezionista, il cui senso civico non era poi molto sviluppato, che aveva fatto ciò che è constatabile in qualsiasi archivio della Pubblica Amministrazione. Al gusto della storia aveva anteposto la ricerca di guadagno! Quanti sono i collezionisti che hanno privato i nostri comuni e le altre istituzioni di testimonianze importanti? Molti senza ombra di dubbio e farebbero bene a restituire il mal tolto se sono ancora vivi. Ma torniamo al foglio ignoto. Era una lettera, su carta intestata e numero di protocollo 3733- 2° Uffizio, spedita da Monteleone (oggi Vibo Valentia) il 16 Settembre 1835 dal sottointendente (G. Cini?) di quella città all’Intendente, che aveva sede in Catanzaro. Il contenuto della missiva comunicava che la sottointendenza di Monteleone aveva inoltrato al Sovrano Ferdinando IV di Borbone un esposto di tal Erasmo Caridà, di Pizzo. teso ad “ottenere dalla Clemenza del Re un’assegnamento mensile per servizi resi nell’arresto di Murat” Ma le informazioni assunte dagli uffici rilevavano “che Carida’ nell’arresto del rivoluzionario non prese altra parte che inseguire taluni soldati del seguito del Murat, i quali in quel frangente si erano dispersi in quelle campagne, e gli riuscì, col concorso di altri paesani, di arrestarne uno e condurlo in quelle prigioni”. Il tono della lettera non lascia dubbi sul parere degli uffici del tempo sulla richiesta di sussidio di Caridà e mostra, inoltre, che altri avevano forse ricevuto compensi in danaro per la cattura di Gioacchino Murat mettendo in moto un meccanismo di emulazione. Non so se il sussidio venne concesso ma è un buon argomento per chi studia quel tragico evento che non fu un segno nobile della volontà di riscatto dei calabresi. Chi nascose questo documento non ebbe un’adeguata sensibilità; badò unicamente al valore del sigillo sul mercato filatelico: un comportamento che non si smentisce neppure oggi.
I CONTADINI DI PANDORE I contadini di Pandore, un paese immaginario della Calabria nel quale si svolge il romanzo “Emigranti” di Francesco Perri, avevano deciso di occupare le terre demaniali usurpate dai galantuomini “ in altri tempi, con l’inganno, la violenza e valendosi delle magistrature e delle influenze politiche”.
Non era gente del posto ma “grossi proprietari di Plati’, di S. Ilario e di Siderno” che si servivano di braccia forestiere per coltivare quelle proprieta’, un tempo municipali “ tutta terra …sangue dei poveri”. Per far legna, per pascolare, per coltivare un po d’ortaglia, per seminare un pugno di grano bisognava passare il lustrissimo ai signori, i quali si davano l’aria di proteggere e beneficare il Comune, mentre si nutrivano del suo sangue“.
Il nuovo sindaco, un giovane avvocato, e il maestro elementare Don Michelino Fazzolari “avevano scovato nell’archivio civico dei documenti veramente definitivi” che venivano letti a tutti perche’ “s’incoraggiassero ad agire” , altrimenti i pandurioti per procacciarsi di che vivere erano costretti ad abbandonare il paese per emigrare in America.
Le duemila tomolate di terre demaniali avrebbero, al contrario, garantito la possibilità di lavorare e vivere nel posto dove si era nati e, magari, sposare qualche bella compaesana. Ma i magistrati avrebbero reso giustizia ai contadini? “ Li stava il busillis”. “ Ne ho viste troppe - diceva Rocco…tutte le volte che i signori si beccavano tra loro, o che cambiava Governo…veniva da Reggio uno di quei succhia inchiostro che stanno negli uffici, chiamava gli esperti, gli uomini più vecchi del paese, e si recava nei demanii per eseguire le misurazioni. ..Poi i galantuomini lo prendevano, se lo portavano a casa, lo gonfiavano di polli e di pezzi di dodici carlini e l’operazione finiva cosi’”.
“La Giustizia, dunque, è una bottega, e quando c’è la bottega per lo mezzo, cari amici miei, i poveri hanno sempre torto” sentenziò Rocco.
Tuttavia l’ opera del maestro Fazzolari, che contrastava con la prudenza del Sindaco, indusse i contadini all’occupazione ma decisero di portare alla testa del corteo i ritratti del Re Vittorio E. III e della Regina d’Italia, la montenegrina voluta dalle donne di Pandore: la presenza, sia pure in immagine, delle loro Maestà avrebbe testimoniato che si voleva fare tutto nel rispetto della legalita’. “ Viva il Re, viva la regina : vogliamo le terre” gridavano i contadini speranzosi.
Il sindaco non era un capo popolo, forse in virtu’ della sua veste istituzionale ma anche per esercitare la professione di avvocato per cui il movimento venne venne guidato da Don Michelino Fazzolari: “Pandurioti, mi dispiace, ma il sindaco ha paura. Noi andiamo a prendere possesso delle terre del Comune, le terre che le benefiche leggi eversive delle proprietà feudali ci hanno concesso fin dal tempo di Re Gioacchino buonanima, salute a voi tutti”, concluse Don Michelino
- Salute e vita, viva Re Gioacchino
- Chi era cotesto Re Gioacchino? Domandò Rocco Blefari al Galeoto che gli stava vicino;
- Re Gioacchino è quello che ammazzarono a Pizzo.
- L’ ammazzarono? E perchè l’ ammazzarono?
- Perchè? perchè aveva distribuito le terre ai poveri.
I pandurioti occuparono le terre ma l’intervento dei carabinieri bloccò l’iniziativa ed alcuni subirono carcere e processi. La delusione fu grande e la storia tutelò ancora una volta i galantuomini che mossero le pedine necessarie per averla vinta contro i documenti comunali, le leggi murattiane ed i contadini che ne chiedevano il rispetto.
Le scene ed i dialoghi di “Emigranti” descrivono con efficacia il contesto entro il quale avvennero la cattura e l’esecuzione di Re Gioacchino Murat, la cui azione innovativa aveva posto le premesse per riprendere ai notabili meridionali i latifondi sottratti alla pubblica demanialità.
C’era il necessario per far muovere la “giustizia” borbonica contro il rivoluzionario francese che non con la violenza ma con le leggi avrebbe voluto realizzare una società più giusta da costruire garantendo lavoro e libertà economica al mondo contadino.
In un articolo precedente è stato già reso noto un documento dal quale risultava che erano stati in molti a partecipare alla cattura di Murat, ricevendone anche dei vantaggi, graduati a seconda del rango e del ruolo. In quel foglio, rinvenuto nell’ archivio della Provincia di Catanzaro, si faceva solo il nome di un personaggio marginale che, anche nelle intenzioni del vice intendente di Monteleone, non meritava compensi.
Adesso possiamo disporre di nuovi elementi che disegnano la mappa della cospirazione anti murattiana mettendo in evidenza i molti galantuomini che ne ebbero parte ed i compensi che ricevettero dal Re Borbone, grato per i servigi resi.
La lettura del testo è sufficiente per capire ogni aspetto e la pubblichiamo senza ulteriori commenti:
Mario Sacca’ |
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