L’applicazione
della Giustizia militare, durante la Prima guerra
mondiale, provocò, a conflitto finito, una serie di
polemiche sorte sugli ordini draconiani e sull’uso
abnorme che si fece del sistema disciplinare e
giudiziario (soprattutto di tipo sommario) e, anche se
per lungo tempo calò una specie di oblio su tali
vicende, poiché considerate disdicevoli e disonorevoli
per le Forze armate in particolare e l’Italia in
generale, la saggistica degli ultimi decenni è
abbastanza ricca di studi e ricerche storiche su tali
accadimenti.
Per quanto
riguarda la Seconda guerra mondiale, molto invece
bisogna fare per appurare fatti e circostanze ancora
poco note. D’altronde è doveroso scindere questo momento
storico in due distinte fasi: un primo periodo che va
dall’entrata in guerra dell’Italia alla firma
dell’armistizio ed un secondo periodo relativo alla
guerra civile. Quest’ultima fase ovviamente, per la
natura stessa del conflitto che rimane fuori da regole
giuridiche prestabilite per l’assenza di eserciti
regolari contrapposti e simmetrici, non è oggetto di
questo studio che riguarda invece il periodo storico che
va dal 10 giugno 1940 all’ 8 settembre 1943 data in cui,
con la firma dell’armistizio, finirono le ostilità verso
le truppe alleate ed iniziò la fase tragica della storia
italiana con il territorio nazionale diviso in due e con
l’avvio della guerra di liberazione.
Una
premessa è doverosa, anche se sono assenti forme
cruente, come quelle viste nel periodo 15-18, la
Giustizia militare operò con analoga severità, al punto
tale che le denunce assommarono ad oltre 200.000 casi;
comunque la differenza fondamentale del modo di
combattere tra le due guerre fu determinante
nell’applicazione dei rigori della legge penale. Ad una
guerra di trincea, di posizione, di logoramento, di
assalto suicida, di abbrutimento fisico e psichico del
soldato, si contrappose una guerra di manovra rapida con
pochi scontri frontali e ravvicinati con l’esercito
nemico e di conseguenza con inferiori propensioni a
commettere reati tipici della prima linea del fuoco
(codardia, indisciplina, sbandamento, etc.).
Con
l’entrata in guerra nel giugno 1940 era ancora in vigore
il Codice Penale per l’Esercito del 1870, utilizzato
oltre che per l’intero primo conflitto mondiale anche
per le guerre d’Africa e di Spagna. Tale codice fu
definitivamente abrogato il 10 ottobre 1941, data in cui
entrò in vigore un nuovo Codice penale militare di pace
e di guerra, cui si affiancarono una serie di bandi e
circolari finalizzate ad armonizzare le necessità
giuridiche e militari a quelle prettamente politiche. In
data 8 luglio 1938 era entrato in vigore il Regio
Decreto n° 1415 inerente la “Legge di guerra e di
neutralità” e cioè le regole da seguire in caso di
conflitto armato e la disciplina dei rapporti con stati
nemici, belligeranti o neutrali.
Le caratteristiche
fondamentali del nuovo codice militare erano le
seguenti: si trattava di una legislazione unica per
tutte le Forze armate nazionali, comprensiva anche della
procedura da adottare in tempo di pace distinta dallo
stato di guerra (di fatto erano due codici in uno, con
numerazioni degli articoli separate: a valere per la
pace dall’articolo 1 a 433, e per la guerra dall’art. 1
a 300); era una legislazione complementare rispetto alla
legge penale comune, competente quest’ultima comunque a
giudicare i reati comuni commessi dai militari; era
previsto un giudizio snello e rapido; esisteva
l’armonizzazione e comparazione delle norme ai fini
della creazione di un Diritto penale militare
internazionale.
Le pene
previste si suddividevano in principali (pena di morte e
reclusione militare) ed accessorie (degradazione,
rimozione, sospensione, pubblicazione della sentenza).
In tempo
di pace i reati militari si suddividevano in quelli
contro la fedeltà e la difesa militare; contro il
servizio militare; contro la disciplina militare; contro
l’amministrazione militare, la fede pubblica le persone
ed il patrimonio.
In tempo
di guerra la suddivisione era tra reati contro la
fedeltà e la difesa militare; contro il servizio di
guerra e contro la legge e gli usi di guerra. Qualora un
reato non era espressamente previsto dal Codice Penale
Militare di Guerra, si applicavano le disposizioni del
tempo di pace con l’aumento delle pene detentive da un
sesto ad un terzo.
La
Giustizia militare in tempo di pace, così come stabilito
dal Regio Decreto 9-9-1941 n° 1022, recante le norme
sull’ordinamento giudiziario, era gestita da
Tribunali militari territoriali, cui si aggiunsero
nel corso del conflitto i Tribunali militari di
guerra ordinari creati presso le grandi unità (a
livello di armata e corpo d’armata), con competenza su
tutti i reati commessi dai militari e dai civili
sottoposti alla giurisdizione militare di guerra,
nonché, come previsto anche dall’art. 283 Codice Penale
Militare di Guerra, i Tribunali militari di guerra
straordinari in caso di reati punibili con la morte,
a condizione di flagrante delicto ed a scopo di
esemplarità verso la truppa, convocabili però solo nelle
località prive di Tribunali ordinari.
Il
collegio giudicante (anche per i tribunali straordinari)
era composto dal Presidente, da 3 giudici militari e dal
relatore, solo quest’ultimo appartenente al Corpo della
giustizia militare, cui facevano parte anche il
Procuratore militare, il giudice istruttore ed il
cancelliere. Gli altri componenti della corte marziale
erano invece ufficiali delle varie armi, non
necessariamente in possesso di specifica preparazione
giuridica. Analogamente il difensore che, nella maggior
parte dei casi, era un giovane ufficiale scelto
d’ufficio e pertanto facilmente condizionabile dai
vertici militari. D’altronde l’intera Giustizia militare
nel periodo presentava una limitata autonomia ed era
fortemente dipendente dai comandi militari nonché dal
potere politico.
Le
sentenze emesse erano inappellabili ed inoppugnabili.
Con bando 20 giugno 1940, si stabilì il differimento
delle pene detentive di durata inferiore a 10 anni di
reclusione al fine di inviare sui vari fronti il maggior
numero di militari, anche se condannati, e nello stesso
tempo si previde la possibilità di ottenere forme di
indulto e riabilitazione, qualora i condannati avessero
tenuto una condotta valorosa in zona di guerra.
Con legge
28 novembre 1940 furono inasprite le pene per una serie
di reati commessi anche a danno delle popolazioni civili
come stupro, rapina, saccheggio e devastazioni, crimini
questi punibili con la morte dei colpevoli.
Ben
presto, in virtù della gran mole di lavoro e dei
processi pendenti, emerse la necessità di arrivare a
giudizi rapidi e sbrigativi. Da qui il bando che dava
ai procuratori la facoltà di procedere con istruttorie
sommarie e, in caso di reati semplici, senza
dibattimento, e si sopperì alla cronica mancanza di
giudici militari istituendo un Corpo ausiliario di
ufficiali in congedo della giustizia militare,
costituito da giudici e cancellieri civili nonché da
professori ed esperti in materie giuridiche, col compito
di affiancare i ruoli ordinari della giustizia militare.
Dall’inizio delle operazioni fino al luglio del 1943 i
procedimenti furono ben 113.000 con 85.000 condanne
(pari al 76%) a carico di militari italiani e mobilitati
civili sottoposti alla legge penale militare. Nei
confronti di questi ultimi furono perseguiti i reati
commessi contro l’amministrazione militare (anche nelle
zone occupate) di natura cd “comune” come furto,
truffa, contrabbando etc. ; di natura “militare” come
favoreggiamento, infrazione ai bandi, atti ostili, etc.;
ma soprattutto di natura “politica” come associazione
sovversiva,vilipendio, disfattismo, etc.
Una
riflessione a se stante merita la situazione giudiziaria
nel territorio dei Balcani. Qui si operò con maggiore
durezza, anche a causa della strenua e violenta
resistenza armata condotta dai partigiani slavi durante
tutta la fase di occupazione italiana. A titolo di
esempio solo il Tribunale di guerra di Lubiana comminò
83 condanne a morte, di cui 53 eseguite, cui si
aggiunsero le esecuzioni senza processo (e in molti casi
per rappresaglia), pari a quasi 1800 giustiziati,
escludendo naturalmente i numerosi caduti in
combattimento ed in azioni di contro-guerriglia.
Vennero
effettuate comunque, a danno della popolazione civile,
anche deportazioni in massa e internamenti presso campi
di concentramento all’uopo costituiti come quello molto
duro di Arbe presso Fiume.
Per quanto riguarda
i militari italiani condannati (circa 45.000), i reati
comprendevano soprattutto le ipotesi di furto e
ricettazione (30% dei casi), diserzione (26%) e
insubordinazione (13%). Pochi invece i casi di
automutilazione.
Le pene più gravi
irrogate andavano dalla fucilazione (92 casi),
all’ergastolo (48 casi), e 30 anni di reclusione (per 64
casi).
La pena di
morte fu comminata per punire soprattutto la diserzione
in presenza del nemico, l’insubordinazione accompagnata
a vie di fatto ed il tradimento, 13 condanne furono
invece legate a casi di omicidio e rapina.
Ad ogni modo le
esecuzioni capitali realmente eseguite nei confronti dei
militari italiani furono all’incirca 50, poiché negli
altri casi la pena fu commutata in ergastolo. Basta solo
questo dato per evidenziare le differenze sostanziali in
termini repressivi e disciplinari tra le due guerre
mondiali. D’altronde nel secondo conflitto non ci sono
notizie di decimazioni ed esecuzioni sommarie a danno
degli stessi militari italiani. Un solo episodio fu
particolarmente cruento, e più precisamente la condanna
a morte di 28 militari italiani accusati di resa al
nemico e sbandamento, nella zona balcanica (isola di
Brazza, zona di Spalato) nell’estate del 1943. Si trattò
di una repressione collettiva attuata, comunque, da una
regolare Corte marziale (il Tribunale militare di
Sebenico) che operò molto rapidamente e con
superficialità, tant’è che a guerra finita tutti i
fucilati vennero riabilitati, in quanto da indagini
suppletive si appurò che non era stato commesso alcun
reato loro addebitato.
Nei
confronti degli ufficiali i procedimenti aperti furono
pochi, e le condanne furono meno di trecento. I reati
più diffusi erano quelli contro il patrimonio
(appropriazione indebita, concussione, truffa) ed omessa
esecuzione di ordini. Tra i reati più gravi puniti con
la morte ci fu un caso di resa in campo aperto (episodio
di Brazza di cui si è appena parlato) e uno di
sbandamento in faccia al nemico, con un totale di 3
ufficiali condannati a morte.
Diverso fu
invece il trattamento riservato alle truppe coloniali
(ascari e albanesi) nei cui confronti furono comminate
circa 200 condanne a morte, per vari reati (addirittura
tra le pene per gli indigeni era prevista ancora la
fustigazione), ed un discorso a parte naturalmente
riguarda la popolazione civile abitante nelle zone di
occupazione (Grecia, Albania, Balcani, Africa, etc.),
verso cui furono attuate misure repressive pesanti, non
solo nei confronti di partigiani combattenti ma
purtroppo anche a danno di civili.
Le Forze armate
italiane, in linea di massima sempre benevole ed umane
nei confronti delle popolazioni occupate, probabilmente,
in particolari e limitate circostanze si macchiarono di
reati, forse a causa della eccessiva politicizzazione
del conflitto o per ragioni di presunta supremazia
razziale.
Nell’estate
del 1943 col precipitare della situazione militare e
politica (sconfitte su tutti i fronti: Africa, Russia,
Albania, e caduta del fascismo) i Tribunali militari
furono utilizzati a difesa dell’ordine pubblico
esautorando i giudici ordinari nella repressione di
reati quali sedizione, abbandono del servizio o del
lavoro, violazione di ordinanze, etc., anche se tali
corti marziali furono accusate dai vertici militari e
politici (ormai in completa rotta) di giudicare
complessivamente con mitezza. D’altronde il vuoto di
potere ed il caos amministrativo che si determinò in
Italia da fine luglio 1943 in poi, e soprattutto dopo
l’8 settembre, ebbe ripercussioni su tutta la macchina
giudiziaria militare.
I soldati stanchi,
dopo tre anni di dura lotta, su tutti i fronti,
iniziavano a riscontrare la presenza di ordini assurdi e
contraddittori: da qui l’aumento dei casi di
insubordinazione e diserzione. Lo stesso avvenne per la
popolazione civile, anch’ essa provata e stanca di
subire indirettamente gli effetti della guerra; tant’é
che nei cinque giorni a ridosso del 25 luglio, a seguito
di manifestazioni di piazza, si registrarono 93 morti,
536 feriti e 2276 arresti in virtù di un uso, forse
eccessivo, della forza chiamata a reprimere ogni forma
di contestazione e a ristabilire l’ordine pubblico.
I tragici
avvenimenti accaduti dopo l’armistizio, che causarono lo
sfacelo dello Stato, l’inizio della terribile guerra
civile ed il conseguente collasso di tutto l’apparato
burocratico della nazione, provocarono ovviamente la
paralisi dell’amministrazione giudiziaria militare. Si
dovrà aspettare la fine della guerra, la nascita della
Repubblica e l’entrata in vigore della Costituzione per
avviare una nuova fase di emancipazione democratica.
Proprio la Carta
Costituzionale, all’ art. 103, stabilisce che i
Tribunali militari in tempo di pace hanno competenza
soltanto per i reati militari commessi da appartenenti
alle Forze armate, di fatto mantenendo una giurisdizione
speciale che trova nel Codice del 1941 il suo principale
riferimento.
Tale testo
ovviamente, col tempo, è stato rinnovellato alla luce
dei principi costituzionali e delle trasformazioni che
hanno interessato la società civile ed il mondo
militare. Ad esempio con legge 589 del 1994 è stata
definitivamente abrogata la pena di morte, che ancora
era prevista in varie ipotesi delittuose contemplate
dallo stesso codice e dalle leggi di guerra; sono state
abrogate le disposizioni che prevedevano la possibilità
per il Comandante Supremo delle Forze armate di emanare
bandi aventi forza di legge ed abrogati alcuni reati
come il disfattismo e la denigrazione della guerra.
Ma anche le
modifiche sul servizio militare, ad iniziare dalla legge
230/98 sull’obiezione di coscienza e la sospensione del
servizio di leva obbligatorio a favore di forze armate
su base volontaria (legge 331/00), hanno di fatto
derubricato ipotesi delittuose abbastanza frequenti tra
i coscritti, come la renitenza alla leva o la
diserzione; così come la smilitarizzazione di alcuni
corpi di polizia (Polizia di Stato e Polizia
penitenziaria), ha ridotto il numero degli assoggettati
alla legge penale militare. Tali modifiche sono però
interventi di tipo parziale e non organico.
La legge 7 maggio
1981 n° 180 ha poi apportato una serie di modifiche
all’ordinamento giudiziario militare cercando di
equipararlo all’organizzazione giudiziaria ordinaria,
estendendo ai magistrati militari le medesime garanzie
previste per i giudici ordinari.
Gli uffici
giudiziari sono stati suddivisi tra organi requirenti
(procure militari) e giudicanti (Tribunali militari ,
Corte militare d’appello e Tribunale di sorveglianza).
Presso ogni
tribunale è stato istituito un ufficio del giudice per
le indagini preliminari e del giudice per l’udienza
preliminare
I Tribunali
Militari su tutto il territorio nazionale sono nove
ed è stata istituita la Corte Militare d’Appello
con sedi a Roma, Verona e Napoli.
Il collegio
giudicante dei Tribunali militari è composto da tre
membri (di cui due magistrati militari ed un ufficiale)
e da cinque membri (tre magistrati militari e due
ufficiali d’arma) per la Corte militare d’appello. In
entrambi i casi la presidenza del collegio giudicante è
affidata ad un magistrato militare. Con la riforma si è
voluto dare maggiore peso al magistrato militare,
provvisto di particolare preparazione giuridica, anziché
al militare d’arma.
Il Tribunale di
sorveglianza, competente a vigilare sull’esecuzione
delle pene, si compone di tutti i magistrati militari di
sorveglianza e di esperti nel campo della psicologia,
psichiatria, sociologia e criminologia.
E’ stata prevista
la possibilità di ricorrere in Cassazione, avverso le
sentenze degli organi giudiziari militari, ed è stata
istituita la Procura generale militare presso la Corte
di Cassazione.
Con legge 561/88 è
stato istituito il Consiglio della Magistratura Militare
come organo di autogoverno e di amministrazione di tale
particolare branca giudiziaria, composto da due membri
laici, dal Procuratore generale presso la Corte di
Cassazione e da cinque magistrati militari.
Se per la
parte processuale molto è stato fatto nel tentativo di
amalgamare ed uniformare la giurisdizione e le procedure
ordinarie con quelle militari, estendendo alle persone
incriminate garanzie prima inesistenti, molto rimane da
fare per la parte criminale. Mantenere ancora in vigore
un codice nato per esigenze belliche e fortemente
permeato da ideologie politiche, cozza con quello che
oggi è lo spirito che investe le Forze armate italiane,
sempre più professionalizzate, su base volontaria, ed
utilizzate in missioni internazionali di mantenimento
della pace, nella ricostruzione post conflitti oppure in
risposta alle situazioni mondiali di crisi. Si dovrebbe
arrivare pertanto all’elaborazione di un codice moderno
che, oltre a tener conto dell’evoluzione della società
italiana e riavvicinare sempre più il contesto militare
– pur nella sua specificità - a quello civile, per
evitare fratture, steccati e disparità di trattamento,
recepisca i principi e le convenzioni internazionali in
atto, per creare un diritto umanitario nei conflitti
armati e cioè un complesso di norme finalizzate a
perseguire anche i crimini di guerra e le violazioni del
diritto internazionale bellico, purtroppo ancora
numerose nei vari angoli del mondo e da contrastare
senza indugio alcuno.
Vincenzo Santoro
Bibliografia:
- Oliva:
“Si ammazza troppo poco”. I crimini di guerra italiani
1940-43 Mondadori
- Petacco: “La
Seconda guerra mondiale” Curcio
- Rochat:
“Duecento sentenze nel bene e nel male.I tribunali
militari nella guerra 1940-
43” Gaspari |