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LA GIUSTIZIA MILITARE DURANTE LA PRIMA GUERRA MONDIALE
 

Quando si parla di Prima guerra mondiale il primo pensiero corre agli immani massacri che provocarono, solo in Italia, più di seicentomila morti e milioni tra feriti e mutilati. In realtà, oltre agli orrori tipici di una guerra di trincea e di cruenti assalti alla baionetta, è opportuno ricordare anche coloro i quali incapparono nelle maglie severissime del sistema disciplinare del Regio Esercito italiano che causò, oltre mille fucilati ed un elevatissimo numero di condannati a pesanti pene detentive. 

La Giustizia militare, finalizzata alla repressione dei reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate e da personale equiparato, durante la Grande Guerra, veniva applicata basandosi principalmente sulle norme del Codice Penale dell’Esercito, una vera e propria codificazione di tipo speciale   entrata in vigore il 15 febbraio 1870. La sua struttura era analoga al Codice militare del 1859, che addirittura si rifaceva al Codice militare sardo del 1840, antecedente quindi allo stesso Statuto Albertino del 1848. Tale legislazione penale non valeva per le forze navali, essendo contestualmente operativo un Codice Penale Militare Marittimo. 

 Il testo del codice era  suddiviso in due parti: quella prettamente sostanziale con “Le disposizioni in tempo di pace e quelle al tempo di guerra” dall’articolo 1 al 292, e la parte processuale con “La procedura penale in tempo di pace e quella in tempo di guerra” dall’articolo 293 al 579.

Si partecipò pertanto ad un conflitto che, per il numero di combattenti e le nazioni coinvolte fu la prima guerra contemporanea, con una legislazione arcaica che creava una netta separazione tra le garanzie costituzionali riservate al personale civile e quelle nei confronti del cittadino alle armi. Alle norme in vigore si aggiunsero poi molteplici bandi e circolari emanati dal Comando supremo dell’Esercito attraverso lo specifico reparto Disciplina, avanzamenti e giustizia militare, a titolo di integrazione del codice, nei casi di palese lacuna normativa. A tali atti fu dato valore di legge, come d’altronde previsto dall’art. 251 del Codice Penale dell’Esercito al quale, comunque, erano affiancate le “Norme per il combattimento” del 1913, che invece, e in maniera dettagliata, disciplinavano il modus operandi del militare in caso di guerra, attraverso le regole di comportamento da seguire e l’ elencazione delle infrazioni punibili con sanzioni. 

In base ai reati commessi le pene previste si suddividevano in due categorie: le infamanti e quelle senza indegnità. Ricadevano nel primo tipo: la fucilazione alla schiena, i lavori forzati a vita, la reclusione ordinaria, la degradazione militare e la destituzione. Appartenevano alle pene non infamanti la fucilazione al petto, la reclusione militare, la rimozione e la sospensione dal servizio. La pena capitale era prevista in ben 212 ipotesi delittuose pur essendo stata abrogata dal Codice penale comune del 1889 anche i per gravi reati come l’omicidio volontario.

Erano sottoposti alla giurisdizione militare, oltre che il personale in servizio, anche i chiamati alle armi ed i civili operanti in quelle aziende che erano state nazionalizzate o militarizzate (e tali aziende, per la necessità di garantire armi, equipaggiamenti, dotazioni varie ai militari al fronte,  furono sempre più numerose nel corso degli eventi bellici) ed i residenti in territori dichiarati zone di guerra.

In tempo di pace la Giustizia militare era amministrata da Tribunali militari territoriali, di norma istituiti presso ogni Corpo d’armata, ai quali si affiancavano commissioni d’inchiesta con compiti d’indagine e di istruzione e con lo scopo principale di rinviare o meno a giudizio un indagato.

In tempo di guerra invece erano previsti i Tribunali di guerra. Si trattava di organismi giurisdizionali ordinari e stabili, costituiti presso grandi unità (a livello di armate e corpi d’armata) che operavano e giudicavano secondo la procedura in vigore. Il collegio giudicante era composto da un presidente e 5 giudici esperti in materie giuridiche, tutti  facenti parte del Corpo di giustizia militare. Il codice prevedeva, per ragioni di speditezza, la soppressione della commissione d’inchiesta che rappresentava un filtro di garanzia per i denunciati, tant’è che la semplice denuncia fatta da un diretto superiore poteva essere già sufficiente a rinviare a giudizio il colpevole di qualche mancanza. 

I tribunali processarono durante tutto il conflitto 262.500 soldati, condannandone ben 170.000, con una percentuale pari al 62,2%. Le condanne a morte furono 4028 di cui 750 quelle effettivamente eseguite e furono comminati 15.345 ergastoli. Gli ufficiali processati furono 2658  con una percentuale di condannati pari al 35,4%, di gran lunga inferiore quindi alla percentuale dei soldati condannati.  In termini percentuali il 6% del totale mobilitati durante il periodo bellico comunque fu rinviato a giudizio ed il 4% di questi subì una condanna. 

In aggiunta a questa giurisdizione ordinaria, l’art. 559 del Codice Penale dell’Esercito stabiliva che, in caso di gravi reati sanzionabili con la morte, i cui responsabili venissero colti in flagranza o arrestati per fatti notori o a clamore di popolo, il comandante di un’unità militare (durante il conflitto anche di ridotte dimensioni, come un  reggimento ad esempio) potesse convocare un  Tribunale straordinario. Era questo un organismo a carattere eccezionale convocato di volta in volta secondo necessità. Il collegio era formato anche in questo caso da un presidente e 5 giudici, ma si trattava di ufficiali operanti nello stesso reparto dei militari processati. Non facendo parte del corpo di giustizia militare non era loro richiesta alcuna  specifica preparazione giuridica  ed erano tutti sottoposti a controllo da parte delle autorità militari convocanti da cui gerarchicamente dipendevano. Ciò ovviamente comportava una limitata autonomia decisionale che si traduceva in minime (o quasi nulle) garanzie per i militari processati. 

Reati giudicabili con severità da tali organi giudiziari erano quelli effettuati “in faccia al nemico” e cioè in  prima linea o durante il combattimento. Questa era un’aggravante punibile con la morte, mentre i reati effettuati “in presenza del nemico” e quindi commessi nella semplice attesa di un attacco nemico o  in zone non interessate alla battaglia, potevano ricevere una attenuazione della pena.

Nell’indeterminatezza di tali definizioni, volutamente nebulose, per il Comando supremo era necessario considerare le ipotesi delittuose, quasi sempre, come effettuate “in faccia al nemico”, tant’è che la circolare 10261 del 22 marzo 1916 invitava le corti marziali a non abusare delle attenuanti generiche per evitare di comminare le condanne a morte e  stabiliva che tutti i militari appartenenti ad un reparto impegnato in prima linea fossero considerati in faccia al nemico anche se, individualmente, si trovavano in retrovia a molti chilometri dalla trincea.

 Pur nella dubbia legittimità e rapidità nelle convocazioni, tali Tribunali straordinari agirono però con un minimo di legalità: un dibattimento, un avvocato difensore, un collegio giudicante, un codice, un rito cui riferirsi, una verbalizzazione degli atti. La cosa che invece caratterizzò negativamente l’applicazione della legge penale  militare durante il conflitto sul fronte italiano fu il ricorso frequente a giustizia sommaria.

         L’art. 40 del Codice Penale dell’Esercito, integrato dalle "Norme pel combattimento" del 1 settembre 1913, nonché dalle direttive del Comando supremo (come ad esempio la circolare del 28 settembre 1915), dava la possibilità  a qualunque comandante di qualsiasi reparto (anche sottufficiali o semplici graduati) di attuare esecuzioni sommarie, quindi senza processo, al fine di impedire (con ogni mezzo per l’appunto) reati militari punibili con la morte, quali sbandamento, codardia, rivolta, ammutinamento, vie di fatto, saccheggio, purchè ci fosse la flagranza e perseveranza nel crimine. In questi casi nessuna garanzia giudiziaria o tutela legale era prevista per i colpevoli, lasciando tutto al libero arbitrio dei superiori, ma eventualmente vi erano solo semplici verbalizzazioni dell’accaduto o relazioni sui fatti e circostanze, elementi formali questi ultimi non sempre rispettati.

In caso di reati collettivi o di incertezza sull’identità dei reali colpevoli, il Comando supremo introdusse la decimazione, cioè la fucilazione di un soldato ogni 10 militari. Le vittime potevano essere scelte tramite sorteggio o dalla estrazione, dopo la conta, del decimo uomo da un reparto schierato, a volte fucilando più persone di quanti fossero i presunti responsabili del reato. Numerosi i telegrammi in tal senso inviati dal generale Cadorna ai suoi diretti collaboratori (illuminante quello del 1° novembre 1916 che di fatto ordinava, e non solo consigliava  la decimazione, con le seguenti parole” …ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello dell’immediata fucilazione dei maggiori responsabili e allorché l’accertamento personale dei responsabili non è possibile rimane il dovere ed il diritto dei comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la morte…”). La sorte beffarda a quel punto decideva, condannando a volte soldati innocenti e graziando i veri responsabili.

La Brigata Catanzaro fu interessata a due casi di decimazione. Il primo episodio avvenne il 28 maggio 1916 sul Monte Mosciagh, presso Asiago, in concomitanza ad una operazione militare finalizzata alla riconquista del rilievo, poi perfettamente riuscita, ed interessò 12 militari appartenenti alla quarta compagnia del 141° reggimento accusata (ingiustamente e frettolosamente) di sbandamento in faccia al nemico. In realtà si era trattata di una momentanea confusione nel  reparto causata anche da fattori meteorologici. Otto fanti furono sorteggiati dalla compagnia formata da 82 uomini e fucilati assieme a quattro superiori (tra cui un sottotenente), accusati di non aver impedito il reato contestato. Un secondo episodio molto più drammatico avvenne nel luglio del 1917, a seguito della più grave rivolta avvenuta da truppe combattenti durante la grande guerra sul fronte italiano. L’eroica unità d’assalto era stata impiegata su più fronti, dal Carso all’Altopiano di Asiago,   citata nel bollettino di guerra per l’atteggiamento valoroso, ed un suo reggimento (il 141°) era stato anche decorato di medaglia d’oro. Nel luglio del 1917, i soldati erano stati inviati  a Santa Maria la Longa (Udine), dopo un lungo periodo passato in prima linea, con la promessa di un meritato e duraturo riposo finalizzato poi al trasferimento sul fronte trentino più tranquillo di quello dell’Isonzo. Ma dopo pochi giorni arrivò l’ordine di tornare in prima linea sul Carso. A questo punto molti reparti dell’unità, ma principalmente i soldati appartenenti alla 6° compagnia del 142° reggimento, reagirono violentemente impugnando le armi contro i loro stessi ufficiali. Dopo alcuni scontri, durati un’ intera notte, che causarono morti da ambo le parti, i rivoltosi si arresero, anche perché nel frattempo era giunto, per ristabilire l’ordine, un reparto di cento carabinieri ed uno squadrone di cavalleria con un autoblindo. Si procedette quindi al sorteggio di un soldato ogni dieci dell’intera sesta compagnia, in quel momento composta da 120 effettivi; furono pertanto individuati 12 fanti che vennero passati per le armi assieme ad altri commilitoni, anche di differenti reparti, arrestati con le armi in pugno ed immediatamente fucilati. La sommossa provocò altri effetti: 135 soldati furono difatti  deferiti a vario titolo al tribunale militare e 463 militari, la cui lealtà era ritenuta sospetta, furono dispersi in altre brigate.

 Di regola i plotoni d’esecuzione (comandati dall’aiutante maggiore in prima del reggimento) erano composti da militari appartenenti al reparto dei condannati ed alle esecuzioni assistevano, come monito, gli stessi  commilitoni, con quale stato d’animo c’è da immaginare; d’altronde lo stesso Stato Maggiore ad inizio guerra aveva indicato i criteri che dovevano caratterizzare l’applicazione della legge penale militare e cioè: la massima repressione e la salutare esemplarità!  

         Studi approfonditi in materia fanno propendere per oltre 300 le esecuzioni sommarie effettuate e varie decine le decimazioni. Purtroppo non si tratta di dati certi, e probabilmente questo numero è in difetto considerato che molte fucilazioni sfuggirono a qualsiasi forma di controllo; si pensi solamente a quanto successe a seguito della disordinata e precipitosa rotta in virtù del crollo del fronte di Caporetto, ove storici e memorialisti affermano che furono numerosissime le esecuzioni senza processo di cui naturalmente non è rimasta alcuna traccia.  

 D’altronde l’indeterminatezza dello stesso art. 40 del Codice penale dell’esercito (ed il punto 3 delle Norme pel combattimento del 1913) attribuivano per assurdo un diritto/dovere (anzi un sacro dovere, come definito dalla circolare 3515 del 28 settembre 1915) in capo ai superiori di effettuare vere e proprie soppressioni sul posto contro militari accusati di codardia o  rifiuto ad effettuare gli assalti dalle trincee. I carabinieri aggregati ad ogni reparto con compiti di polizia militare, ma anche ufficiali e sottufficiali, potevano sparare a vista sui riottosi, su chi si rifiutava di avanzare per codardia o su chi ripiegava disordinatamente perché ad esempio mitragliato dall’esercito nemico. E’ impossibile avere un esatto dato numerico, su quante persone furono giustiziate in questo modo, anche perché tali esecuzioni avvenivano nell’immediatezza di un attacco e quindi nel bel mezzo di confusione  e tumulto, per cui era impensabile procedere anche alla redazione del benché minimo processo verbale e distinguere le vittime a seguito di combattimento  da quelle giustiziate per mano italiana.

 Questi casi provocarono tra i soldati un odio verso i propri comandanti ed un senso di terrore ed ingiustizia che si aggiungeva alle già disperate situazioni cui versavano i nostri militari. Ma anche in assenza di pena capitale furono applicati a volte dei sistemi barbari ed incivili di punizione come il reticolo che consisteva nel legare ad un palo per ore, in prossimità della trincea, un soldato colpevole di qualche mancanza anche minimale.

 Nel corso del conflitto emerse però un'altra preoccupazione per i comandi; infatti i soldati condannati a pene detentive, dovendo scontare la pena presso strutture carcerarie militari, si allontanavano dalla  linea del fuoco, provocando in tal modo problemi logistici alle grandi unità schierate e di sottodimensionamento dei reparti. Per assurdo i soldati preferivano essere condannati alla reclusione anziché essere assolti e dover tornare immediatamente  in prima linea a combattere. Per evitare ciò si stabilì la sospensione dell’esecutorietà delle condanne fino a sette anni di reclusione (comprendendo pertanto quasi tutte le ipotesi criminali); per cui in caso di condanna non solo si ritornava subito a combattere, ma a fine guerra (per i sopravissuti) c’era la certezza di scontare l’intera pena in galera.

        Ma di quali reati si macchiarono i nostri militari e quanti di essi furono condannati? In ordine di grandezza il reato maggiormente commesso fu la  diserzione (162563 processati, di cui 101000 condannati) che investì anche i numerosissimi italiani all’estero; seguito da: indisciplina (24600 condanne); furto (16522 condanne); automutilazione (10000 condanne);  sbandamento o resa (5325 condanne); violenza o vie di fatto (3510 condanne); reati sessuali (532 condanne).Gli ufficiali furono processati soprattutto per abuso di potere, e quelli di complemento, per lettere denigratorie o disfattismo (altro incubo per il Comando supremo).

La diserzione raggiunse punte notevolissime soprattutto nel 1917. I soldati erano oramai stanchissimi e demotivati e le licenze, fino ad allora godute, pochissime; per cui quando si tornava a casa per una licenza, come quella agricola, si era molto più riottosi a tornare in prima linea, anche a causa delle condizioni inumane cui i nostri soldati erano costretti a vivere sia nelle trincee che nei baraccamenti in retrovia, oltre che naturalmente per il rischio elevatissimo di non tornare più vivi. Anche un semplice ritardo nel rientrare al proprio reparto comunque poteva far scattare l’accusa di diserzione.

Il reato di indisciplina comprendeva varie ipotesi: dalla insubordinazione e rifiuto d’obbedienza, considerate meno gravi  all’ammutinamento e rivolta che erano reati collettivi.

Ipotesi delittuose piuttosto frequenti riguardavano l’autolesionismo, cioè le ferite volontarie per sottrarsi ai combattimenti. Alcuni soldati arrivarono a gesti estremi come l’ amputazione di arti o  menomazioni gravissime, come la cecità, pur di evitare la prima linea e l’assalto alla baionetta. Quando si appurava, anche tramite rapide e superficiali perizie mediche, che le lesioni erano state volontarie, le pene per gli autolesionisti  erano severissime, compresa naturalmente quella capitale.

        Ovviamente i reati potevano avvenire anche contro civili, sia Italiani che residenti nelle zone occupate, ma in ogni caso i comandi furono inflessibili. Anche il furto di cose di nessun valore poteva costare la vita. Analogamente anche i civili residenti in zone di guerra furono sottoposti alla legge penale militare, tant’è che ci furono giudizi sommari che provocarono la fucilazione di civili accusati di reati militari come lo spionaggio o intelligenza col nemico.

        A conti fatti la legislazione penale castrense ed il sistema repressivo durante la prima guerra mondiale sul fronte italiano fu severissimo. Per assurdo, eserciti con tradizioni militari più dure e autoritarie di quelle italiane, come quello austriaco o tedesco, ricorsero alla pena di morte in numero inferiore che non in Italia e lo stesso discorso per gli anni di carcere comminati. In Francia si giustiziò moltissimo durante la crisi del 1917, così come l’esercito austro-ungarico fu inflessibile contro irredenti trentini o triestini o soldati dell’impero arruolatisi tra le nostre truppe, come i cecoslovacchi ad esempio; però non si trovarono quelle punte esasperate che ci furono in Italia. Anche l’uso indiscriminato della decimazione all’estero fu circoscritto a casi eccezionali, così come il ricorso ad esecuzioni sommarie che in ogni caso trovavano dettagliata regolamentazione nelle norme in vigore .

          Certo non può essere addotto a giustificazione il fatto che il soldato italiano fosse più indisciplinato e propenso a delinquere di quello degli altri eserciti. In termini quantitativi i reati commessi furono pressoché simili in tutte le nazioni proprio perché le condizioni di vita erano uguali su tutti i fronti e le denunce penali in altri eserciti furono anche più numerose, d’altronde tale guerra di trincea e di logoramento con spaventosi massacri ed utilizzo di armi di nuovissimo tipo: dalla mitragliatrice, all’aereo, ai gas asfissianti,  creò problemi analoghi in tutti gli eserciti contendenti (ad esempio l’esercito australiano ebbe il più alto tasso di diserzioni e casi di indisciplina ma non ci fu alcuna condanna a morte).  La differenza fondamentale con le altre nazioni in conflitto fu che in Italia si preferì addossare ai soldati gli insuccessi dei primi anni di guerra, stabilendo un rigore eccessivo ed illogico pur di dare l’esempio a tutti gli altri militari ed evitare disfattismo ed indisciplina tra i ranghi, anziché attribuire le giuste responsabilità ai comandi, colpevoli di applicare tattiche vecchie ed inefficaci per una guerra moderna, mandando a morte certa i propri uomini nel tentativo disperato di avanzare ad ogni costo di qualche metro. Mancava poi un retroterra politico e sociale forte e stabile in uno Stato, il Regno d’Italia, che all’epoca aveva poco più di 50 anni!

         Qualche miglioramento delle condizioni di vita dei nostri soldati si ebbe con la gestione   Diaz quale Comandante Supremo nel 1918, tant’è che molti  abusi disciplinari furono ridotti, come ad esempio la pena degradante del reticolo, ma non cessarono né le esecuzioni sommarie  né le sentenze  di morte comminate da parte dei Tribunali di guerra, visto che lo stesso generale ordinava ai sottoposti di reprimere “spietatamente” ogni mancanza o debolezza.

Un anno dopo la fine delle ostilità, nel settembre del 1919, intervenne un’amnistia generale che cancellò le pendenze penali per quasi tutti i condannati a pene  non gravi. Rimasero nei terribili reclusori militari dell’epoca, i soldati condannati all’ergastolo o a lunghe pene detentive, e furono forse ventimila, nei confronti dei quali, così come verso i giustiziati, cadde completamente l’oblio e si preferì per tanto tempo non farne menzione in quanto considerate persone disdicevoli e disonorevoli per la storia nazionale.  

Solo da qualche decennio, e grazie all’opera di studio e ricerca da parte di storici, stanno venendo alla luce fatti, episodi e circostanze che, si spera, possano ristabilire la verità  e ridare dignità storica a uomini  che, in molti casi in modo arbitrario o illegittimo, pagarono con la vita o con la detenzione per colpa dei torti e delle ingiustizie subite.

                                      

                                                                                                                                                          Vincenzo Santoro

 

  Bibliografia

      -         Cadeddu-De Clara “Uomini o colpevoli?” Gaspari

-         Forcella-Monticone “Plotone d’esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale” Laterza

-         Paloni “Storie giudiziarie nella Prima guerra mondiale” Bonanno

-         Pluviano-Guerrini “Le fucilazioni sommarie nella Prima guerra mondiale” Gaspari

-         Viazzi “Fucilazioni di guerra” Nord Press

 
 

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