CALABRIAINARMI

 " PER LA PATRIA!"

 

L'ONORE DI MORIRE PER LA PATRIA

 

 

 Patrioti italiani, erano figli del conte Francesco, ufficiale del Regno Italico e, dopo la restaurazione, ammiraglio della flotta austriaca, noto per aver catturato nel 1831 nelle acque di Ancona un bastimento carico di profughi.
Il Barone EMILIO BANDIERA (alfiere di fregata, 34 enne) e il barone ATTILIO BANDIERA (alfiere di vascello 25 enne) anch’essi ufficiali della Marina austriaca, dopo alcuni contatti a Londra con Mazzini avevano fondato autonomamente nel 1840-41 una loro società segreta, la Esperia, svolgendo un intensa attività patriottica nella marina imperiale per far proseliti alla rivoluzione. La polizia austriaca, tra l’altro,  teneva sotto controllo i due fratelli dopo che un traditore,Tito Vespasiano Micciarelli, aveva riferito quel che Attilio stesso gli aveva confidato circa un suo viaggio in Sicilia per sollevare quelle popolazioni.  Furono queste le ragioni che costrinsero i due fratelli a disertare  e a  rifugiarsi, Attilio, nella città turca di Smirne, ed Emilio, insieme a Domenico Moro, anch'egli ufficiale della marina austriaca, a Malta. Trovandosi a Smirne, Attilio si proponeva d'impadronirsi della fregata "Bellona”, in cui era imbarcato e di condurla in Sicilia per mettere in moto la rivoluzione, ma tradito da un Masciurelli, riuscì a fuggire, nel febbraio del 1844, a Corfù dove da Venezia lo raggiunsero il fratello Emilio e l'amico Domenico Moro.
Affinché li persuadessi in queste azioni,
l'arciduca Rainieri mandò la madre dei Bandiera, Anna Maria Marsich a Corfù, assicurandoli col perdono imperiale se ritornavano in patria; ma i due ribelli non si lasciarono commuovere dalle preghiere della madre. Irritato dal rifiuto del perdono, il governo austriaco, con editto pubblicato il 4 maggio nella "Gazzetta Ufficiale" intimò ai fratelli Bandiera di presentarsi entro tre mesi all' I. R. Comando di piazza di Venezia. Ridendo di tale intimazione i due fratelli in data 19 maggio scrissero al Comando Superiore della Marina Austriaca una lettera in cui “spiegavano” il loro concetto di tradimento: ”La nostra scelta è determinata tra il tradire la patria e l'umanità, o l'abbandonare lo straniero e l'oppressore. Le leggi alle quali ci si vorrebbe ancora soggetti sono leggi di sangue, che noi, con ognuno che sia giusto e umano, sconosciamo e aborriamo.” Da Corfù, successivamente, ritenendo  fosse giunto il momento di agire in favore della Patria, organizzarono un audace spedizione in Calabria. Dal proposito cercarono di dissuaderli il Ricciardi da Parigi e il Mazzini da Londra. I compagni che si unirono ai Bandiera furono: Nicola Ricciotti da Frosinone, Domenico Moro da Venezia, l'avvocato Anacardi Nardi, modenese, che abbiamo visto dittatore nel 1831, Giovanni Vanucci da Rimini, Giacomo Rocchi e Francesco Berti da Lugo, Domenico Lupatelli da Perugia, Giovanni Manesci da Venezia, Carlo Osmani da Ancona, Giuseppe Pacchioni da Bologna, Luigi Nanni, Pietro Piazzoli e Luigi Miller forlivesi, Francesco e Giuseppe Tesei da Pesaro, Paolo Mariani milanese e Tommaso Mazzoli bolognese. La guida calabrese era Battistino Meluso, detto il Nivaro. Vi era inoltre un corso di Oletta, chiamato Pietro Boccheciampe. Nella notte dal 12 al 13 giugno,sopra un trabiccolo, il “San Spiridione” capitanato dal pugliese Caputo, i giovani ardimentosi partirono da Corfù, sbarcando in Calabria il 16  giugno del 1844. Toccata la terra italiana i fratelli Bandiera  ed  il  Moro  si  inginocchiarono  e dopo averla baciata esclamarono: “Tu ci hai dato la vita e noi per te la spenderemo”.  Scelsero questa regione come punto di partenza delle loro azioni sia perché qui si era diffusa,  in forma  molto esagerata,  la  notizia di qualche principio di ribellione, sia perché qui da tempo operavano affiliati alla  “Giovane  Italia”.  La piccola truppa, guidata dal Nivaro, un ex bandito,s’inoltrò nelle montagne, verso Cosenza, dove nel mese di marzo era scoppiata una sommossa  e  dove,  però, i  gendarmi prontamente l’avevano repressa. Durante il tragitto, i diciassette uomini , si accorsero che mancava uno di loro: il corso Boccheciampe. Lo credevano smarrito e invece, visto il paese tranquillo e non disposto a insorgere, tradendoli, si era recato a Crotone ed aveva denunciato a quelle autorità i suoi compagni. Improvvisamente assaliti da una settantina di guardie civiche lungo il tragitto per San Severino, i patrioti combatterono valorosamente respingendo  militari e lasciando morto sul campo il loro comandante. La mattina del 19, vicino San Giovanni in Fiore, gli insorti furono attaccati da circa duecento guardie, mentre alle loro spalle manovrava un battaglione di Cacciatori per coglierli di sorpresa.
Con una così enorme disparità, lo scontro, durò meno di un quarto d'ora. Accerchiati e sopraffatti, i fratelli Bandiera, il Moro, il Ricciotti, il Nardi, il Venerucci, il Rocchi, il Lupatelli, il Berti, il Pacchioni, il Manesci e l'Osmani furono fatti prigionieri; Francesco Tesei e Miller rimasero uccisi; l’altro Tesei, il Piazzoli, il Nanni, il Mazzoli, il Mariani e il Melluso riuscirono invece a fuggire ed errarono il giorno e la notte seguente sui monti, ma la mattina del 20 furono catturati pure loro dalle guardie civiche, eccetto il Nivaro che rimase fuggitivo alcune settimane e che, costituitosi, fu poi condannato a quattordici anni di prigionia.
Maltrattati e spogliati, i rivoluzionari, furono condotti a San Giovanni in Fiore, la cui popolazione, credendoli turchi o briganti, li accolse ostilmente; poi, scortati da un centinaio tra guardie civiche, gendarmi e soldati di linea, furono condotti a Cosenza, dove invece qui la popolazione li accolse con segni di simpatia e nel tempo della loro prigionia diede loro prove di benevolenza. Va ricordato il contegno affettuoso di Gioacchino Gaudio, un fornitore delle carceri, che trattò i detenuti come fratelli sventurati.
Avendo il procuratore cercato d'infondere nell'animo dei prigionieri la speranza, Emilio ed Attilio gli risposero con due nobili lettere in data dell'11 luglio del 1844, accompagnandole con i ritratti dei carcerati, eseguiti dal Pacchioni, che era scultore. Quel giorno stesso, nel Vallone del Rovito venivano fucilati cinque patrioti imputati della sommossa del 15 marzo: Villani, Pranzese, Corigliano, Cesareo e il Carnodeca, che morirono gridando: "Questo è il più bel giorno della mia vita: viva l'Italia!".

I fratelli Bandiera, il 25 luglio del 1844, Domenico Moro, Anacardi Nardi, Domenico Lupatelli, Giovanni Venerucci, Giacomo Rocchi, Francesco Berti e Nicola Ricciotti,  furono condotti al Vallone di Rovito, a poca distanza da Cosenza; durante il tragitto, che fu fatto compiere a piedi nudi, secondo il terzo grado di pubblico esempio, essi cantarono un coro dell’opera di Mercadante "Donna Caritea": "Chi per la patria, muor vissuto è assai ,la fronda dell’allor non langue mai. Piuttosto che languir sotto i tiranni, è meglio di morir sul fior degli anni"; la gente, che dalle circostanti colline assisteva alla fucilazione, era molto commossa. Il tenente Salvatore Maniscalco, ufficiale borbonico, due giorni dopo la fucilazione in un rapporto inviato al Del Carretto descriveva come anche i soldati erano commossi e quasi come se volessero farsi perdonare mirano male, peggiorando però, la fine degli eroi, infatti dovettero sparare una seconda volta per poter far terminare i lamenti dei poveri sventurati.

La compagnia della Buona morte, composta dei nobili del paese, raccolse le salme e le sotterrò nella chiesa di Sant'Agostino, accanto ai sei calabresi uccisi dodici giorni prima. I cadaveri dei fratelli Bandiera, trasportati nel 1848 nella cattedrale di Cosenza, furono trasportate a Venezia, insieme con la salma di Domenico Moro,  e sepolte nella chiesa di S. Giovanni e Paolo.
Il sacrificio dei fratelli Bandiera e dei loro compagni commosse l'Europa; molte donne si associarono al lutto della vedova di Attilio e della madre dei due fratelli; gli esuli fecero coniare a Parigi una medaglia in cui era rappresentata l'Italia coronata di spine, che appoggia la sinistra su un fascio littorio privo di scure e accende con la destra una fiaccola alla fiamma uscente da un'urna su cui sta scritto "Nostris ex ossibus ultor"; sul piedistallo c'è la leggenda "Immolati a Cosenza il 25 luglio 1844. Ferdinando re"; in basso: "A memoria ed esempio": intorno i nomi dei nove martiri; nell'esergo, tra una corona di palme e di lauro il motto della "Giovine Italia": "Ora e sempre" con le parole pronunziate da Attilio Bandiera: "E' fede nostra giovare l'Italica libertà meglio morti che vivi".

Il Mazzini, accusato dai suoi nemici di aver spinto a morte certa il drappello dei Bandiera, scrisse in memoria dei martiri alcune pagine:”…I sacrificati a Cosenza hanno insegnato a noi tutti che l'uomo deve vivere e morire per le proprie credenze: hanno provato al mondo che gl'Italiani sanno morire: hanno convalidato per tutta l'Europa l'opinione che una Italia sarà .... Confortatevi, o giovani, la nostra causa è destinata al trionfo….. Voi potete uccidere pochi uomini, ma non l'Idea. L'Idea è immortale…….”

La tragica impresa nel resto d'Italia fece scatenare violenti polemiche dentro le società segrete e nei vari movimenti liberali; tornarono nuovamente alla ribalta i progetti moderati, e quell'armonizzazione di italianità e fede cattolica che offriva la   prospettiva  di una riconciliazione nazionale. Il sentimento patriottico che albergava nei fratelli Bandiera era presente in moltissimi altri giovani contrari alla divisione della loro patria in tanti stati e staterelli; si aspirava ad un’Italia libera ed unita sotto un’unica bandiera .  

     di  Gabriele PERSICO

 

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