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CALABRIAINARMI

 " PER LA PATRIA!"

 
IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO DI FERRAMONTI

  Come tutti gli anni, nel mese di gennaio, nella ricorrenza della liberazione del campo di Auschwitz, assurto a simbolo della Shoah, viene celebrata  la giornata della memoria, a ricordo perenne delle vittime dell’olocausto, quando milioni di persone, prevalentemente ebree, furono sterminate dalla follia razzista del nazismo. Ma in generale questa data, con gli anni, è diventata un momento per   commemorare tutte le vittime delle persecuzioni causate dalle dittature e dai regimi totalitari, indipendentemente dal loro colore politico. 

         Dopo la fine della Seconda guerra mondiale,  lo studio storico su quanto accaduto e l’esecrazione generale si sono focalizzati sui campi di sterminio gestiti dalle autorità naziste in varie nazioni europee e successivamente sui gulag sovietici, anche per capire la genesi e l’evoluzione di tale orrore determinato da motivi ideologici o per presunta superiorità di razza. Nei vari lager nazisti furono internati milioni di persone tra ebrei, oppositori politici,  ma anche zingari, omosessuali, schizofrenici, oltre che tantissimi prigionieri di guerra catturati nei vari fronti (soprattutto russi ma, dopo l’otto settembre 1943, anche soldati italiani che non avevano collaborato con i tedeschi).

   I sopravvissuti furono pochissimi, considerato che, per l’attuazione del piano di sterminio nei confronti degli ebrei, oppure a causa degli stenti, privazioni, maltrattamenti subiti durante la prigionia, milioni tra uomini, donne e bambini persero la vita all’interno dei vari campi di concentramento.

         A torto si pensa che in quei tristi anni l’Italia fu del tutto estranea a tali orrori.

         Con la fine della Seconda guerra mondiale e la nascita della Repubblica italiana, tutta una serie di vicende poco edificanti sono state rimosse dalla memoria collettiva, come ad esempio le vittime delle foibe (la cui commemorazione è avvenuta di recente con tanto di polemica con le autorità croate), le faide e vendette personali post guerra civile soprattutto nel Nord Italia, ma anche  le atrocità e crimini di guerra che furono commessi principalmente in Africa e nei Balcani, ove fu condotta una repressione durissima da parte delle truppe italiane, a volte in risposta a violenti atti terroristici, ma in  violazione comunque alle regole del diritto umanitario nei conflitti armati.  

   Solo da qualche tempo, a seguito di accurate ricerche , stanno venendo alla luce fatti e circostanze che serviranno, si spera, a ristabilire le verità storiche, a volte scomode, sulle quali per oltre mezzo secolo si è preferito non approfondire né parlare ma è sicuramente un dovere morale di ogni uomo libero non  dimenticare quanto accaduto proprio come  monito per le future generazioni, affinché  tutto ciò non possa verificarsi mai più, avversando con ogni mezzo anche chi, sfrontatamente, nega che tali episodi siano realmente avvenuti.

          Una delle vicende di cui si è preferito tacere per tantissimo tempo riguarda i campi di concentramento italiani; infatti poco si sa sul fatto che fossero presenti veri e propri luoghi di internamento sul territorio nazionale che si aggiunsero ai reclusori per prigionieri di guerra ubicati anche nei territori delle nazioni occupate. Si stima che solo in Italia furono centinaia i luoghi di detenzione e decine di migliaia gli imprigionati per vari motivi. Il numero maggiore dei campi fuori dai confini nazionali fu allocato soprattutto nei Balcani contro la popolazione slava (ed i prigionieri non furono solo partigiani, ma anche donne e bambini); come ad esempio il campo di Arbe presso Fiume, che a fine guerra fu definito un luogo di sterminio considerato che, a fronte di 7000 reclusi, quasi 1500 persone trovarono la morte al suo interno a causa della fame e degli stenti patiti, con un tasso di mortalità pari al 20% del totale degli internati.

         Mancò certamente l’attuazione di una politica di sterminio da parte del fascismo (quantomeno quello del periodo monarchico fino al luglio 1943), ma è anche vero che per combattere gli oppositori al regime,  e successivamente nei confronti degli ebrei e degli appartenenti alle nazioni in guerra contro l’Italia, fu attuata una attività repressiva molto severa.

          La nostra regione, che per motivi geografici è sempre stata piuttosto lontana dai grandi avvenimenti della storia contemporanea, in queste vicende invece è stata direttamente coinvolta, visto che in Calabria era esistente il più grande campo di concentramento italiano, con una superficie di ben 16 ettari, ubicato a Ferramonti nel comune di Tarsia, una località a 35 chilometri da Cosenza, ove furono internati durante la seconda guerra mondiale migliaia di ebrei, di apolidi, di stranieri, la cui sola colpa era l’appartenenza ad una razza o nazione nemica oppure il credo politico ritenuto sovversivo o antitaliano, tutte cose da reprimere attraverso la detenzione coattiva.

          Fortunatamente non si trattò di un campo di sterminio, come purtroppo la storia ci ha insegnato a conoscerli, ma di un campo di internamento e raccolta, che solo da un punto di vista architettonico somigliava realmente ad un lager e che, per assurdo, rappresentò una sorta di salvezza per coloro i quali vi furono imprigionati, essendo proprio Ferramonti il primo campo liberato dalle truppe alleate.

          Durante il regime fascista, nei vari anni, furono promulgate molte leggi aventi come finalità le misure preventive e repressive da attuare nei confronti sia di cittadini di paesi nemici che nei confronti di italiani pericolosi per la salvaguardia nazionale.

         Il "Testo unico delle leggi di guerra e neutralità" del luglio 1928 disponeva l’internamento dei sudditi di paesi nemici che potessero svolgere attività dannosa per l’Italia e, a decorrere dal 1929, era stato istituito il servizio di schedatura con i nomi delle persone da arrestare in determinate circostanze poiché sospettate di attività antinazionale oppure da internare in luoghi idonei o da confinare in alcune località estremamente periferiche, il cosiddetto confino di polizia che colpì per un ventennio soprattutto intellettuali antifascisti.

          La diabolica alleanza con Hitler, fece si che nell’autunno 1938 venne emanata in Italia la vituperata legislazione razziale finalizzata sia ad allontanare dai confini nazionali gli ebrei stranieri che a limitare i diritti e prerogative degli ebrei italiani, creando di fatto cittadini di livello inferiore, ma già a partire dal luglio dello stesso anno era stato pubblicato “Il manifesto della razza” ove, tra le altre cose, si specificava che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana.

          Con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940 si stabilì che gli ebrei appartenenti a paesi nemici, ancora presenti in Italia, anziché espulsi, venissero internati in appositi campi di raccolta, in attesa di deciderne la sorte, ed analogo trattamento fu riservato agli apolidi di età compresa tra i diciotto ed i sessanta anni.

          Gli arresti, da parte delle forze dell’ordine, furono effettuati soprattutto nelle grandi città e, dopo un periodo di detenzione in carcere di circa venti giorni  assieme a criminali comuni, si procedeva al trasferimento presso uno dei campi velocemente allestiti, soprattutto nelle regioni del centro sud e nelle piccole isole come Ustica, Lipari, Ponza; di norma in zone impervie e poco raggiungibili, ritenute militarmente poco importanti e con minore politicizzazione degli abitanti; scelta che col tempo si rivelò strategicamente sbagliata considerato che, con  l’avanzata delle truppe anglo-americane nel 1943, da sud a nord, questi campi furono man mano liberati.

          Quasi tutte le sedi, gestite dal Ministero degli Interni,  erano in realtà normali edifici requisiti ed adattati a fungere da luogo di detenzione per pochi reclusi come ville, fattorie, ex conventi, fabbriche in disuso. Il campo di Ferramonti invece fu il solo costruito ad hoc, con una struttura in baraccamenti e recinzioni in filo spinato  con una punta massima, raggiunta nel 1943, di oltre 2000 detenuti al giorno. In totale gli internati, negli oltre tre anni di suo funzionamento, furono quasi quattromila.

          La sua costruzione, in una zona malarica, acquitrinosa, mai bonificata ed opportunamente evitata dagli abitanti del luogo, iniziò a maggio 1940 (un mese prima dell’inizio della guerra) da parte della ditta Parrini di Roma che ne curò  la manutenzione ed a cui venne affidata anche la gestione dello spaccio alimentare.

          Il campo era formato da 92 baracche di colore bianco, costruite in carpilite (un materiale legnoso) su fondamenta di calcestruzzo, di tre diverse tipologie, quasi tutte affiancate tra loro e comunicanti attraverso un piccolo collegamento che conferiva alle costruzioni una forma ad U. Vi erano poi alcuni manufatti in cemento utilizzati come sede della direzione, degli uffici amministrativi e del personale di vigilanza.

Foto aerea del campo di Ferramonti

 

Foto esposta al Museo della memoria di Ferramonti (Tarsia)

 

         La direzione era demandata ad un commissario di Pubblica Sicurezza (il primo direttore fu Paolo Salvatore, cui successe nel gennaio 43 Mario Fraticelli), da cui dipendeva il maresciallo Marrari, molto umano e benevolo verso i detenuti, che a sua volta coordinava una decina di agenti di polizia. La sorveglianza esterna era assicurata da 75 uomini della milizia volontaria per la sicurezza nazionale comandati dal capo manipolo Talarico, i quali a turno montavano la guardia  su tutto il perimetro del campo.

 Dott. Paolo Salvatore (in abiti borghesi al centro) in una foto d'epoca; a destra mar. Marrari

 

Foto esposta al Museo della memoria del campo di Ferramonti

 

          Inizialmente gli internati furono solo ebrei di sesso maschile di varie nazionalità (tedeschi, austriaci, cechi, slovacchi, ungheresi, polacchi), nei mesi successivi arrivarono anche donne e bambini, uomini politici o cittadini di nazioni in guerra con l’Italia, come slavi, greci, francesi. Nel giugno 1943 giunse anche un piccolo gruppo di antifascisti italiani. Ad ogni modo i gruppi più numerosi furono ebrei stranieri. Molti i gruppi familiari, che non furono mai divisi, e tanti bambini (ben 21 nacquero all’interno del campo ove furono  celebrati 4 matrimoni).

          Il rigido regolamento prevedeva per gli internati la sottoposizione a tre appelli giornalieri. I reclusi, per i quali non sussisteva l’obbligo di lavorare né di indossare particolari divise, dovevano rimanere nelle baracche dalle 21,00 di sera fino alle 7,00 del mattino con tutta una serie di restrizioni. Non potevano occuparsi di politica, né leggere corrispondenza senza autorizzazione. Era vietato anche l’uso di macchine fotografiche ed apparecchiature radio.

          Però a parte queste limitazioni  non si ebbero altri particolari divieti, tant’è che successivamente tali proibizioni si attenuarono e, previa autorizzazione, gli internati poterono, occasionalmente, e scortati,  recarsi nei paesi vicini per piccole commissioni.

           Ma la cosa che caratterizzò questo luogo di detenzione e lo rese un unicum nel triste panorama di quegli anni fu che, col beneplacito dei direttori, i reclusi crearono un’ apposita organizzazione interna di autogoverno. Veniva  nominato, con un mandato a termine, un rappresentante di tutti gli internati come interfaccia verso la direzione per evidenziare le esigenze varie, e nei limiti del possibile, cercare di far risolvere i problemi legati alla prigionia. Tale figura, chiamata capo dei capi, il cui requisito fondamentale era la conoscenza della lingua italiana, veniva eletto dai capi baracca, a loro volta nominati da tutti gli internati maggiorenni (donne comprese). I capi baracca, i cui compiti erano quelli di vigilare sul buon funzionamento di ogni singola  camerata e di distribuire il sussidio governativo, si riunivano settimanalmente in una sorta di assemblea parlamentare. Come è stato sostenuto da alcuni storici, Ferramonti, per ironia della sorte, rappresentò l’unica isola di democrazia nell’Italia di quegli anni.

          Approfittando della presenza, tra gli internati, di uomini di cultura, intellettuali, professionisti, studenti universitari, rabbini, iniziarono a sorgere all’interno del campo tutta una serie di strutture autogestite, sempre ufficiosamente approvate dai commissari di polizia: una scuola con più classi, un asilo, circoli culturali e filatelici, una biblioteca con cento libri, laboratori vari, un ambulatorio medico funzionante 24 ore al giorno, un periodico il Tager (il foglio) ed addirittura una sinagoga con ben 400 posti a sedere, celata all’interno di una anonima baracca (immaginiamo nel resto dell’Europa occupata cosa invece  succedeva in quel periodo a chi professava la religione ebraica!).

           Nel 1941 fu creata la figura del giudice di pace col compito di dirimere eventuali piccole controversie tra i reclusi e venne costituito anche un comitato di assistenza per fornire aiuto ai più bisognosi  (alcuni sussidi i primi anni giunsero da parte di alcune organizzazioni umanitarie ebraiche come la Delasem – Delegazione Assistenza Emigrati, la Mensa dei bambini di Milano, da parte dell’educatore Israele Kalk, ma anche a cura della Croce Rossa internazionale; a seguito alle restrizioni governative  gli ebrei reclusi più facoltosi si autotassarono a favore di quelli più poveri).

          Per la presenza di numerosi artisti vennero anche organizzati spettacoli teatrali, concerti, mostre di pittura, ma anche partite di calcio e tornei di scacchi.

          I medici internati furono autorizzati a curare anche persone dei paesi vicini e, a fine guerra, alcuni di essi impiantarono studi nelle località circostanti. Altri professionisti si stabilirono definitivamente in Calabria, come avvenne per il padre dell’editore cosentino Walter Brenner, il libraio viennese Gustav che, recluso a Ferramonti, sposò una ragazza di Roggiano Gravina conosciuta occasionalmente.

          Difatti col tempo si instaurarono rapporti di solidarietà con i residenti, dapprincipio diffidenti nei confronti di coloro i quali  venivano dal regime definiti “pericolosi e nocivi per la società”, poi sempre più disposti ad aiutarli o a barattare beni di prima necessità come pane ed olio in cambio di piccoli favori oppure di oggetti artigianali appositamente realizzati, e ciò va ascritto a merito della popolazione calabrese per natura generosa e poco incline ad atteggiamenti razzisti o persecutori.

          L’eccezionalità di queste situazioni fu dovuta principalmente ai comportamenti tolleranti messi in campo dai direttori che, in linea di massima, pur nel rispetto dei rigidi regolamenti vigenti, attuarono forme di detenzione piuttosto umane e corrette, tant’è che non si verificò alcun caso di violenza gratuita o di rappresaglia contro i numerosi internati ed i 37 decessi che ci furono all’interno del campo furono dovuti a malattie e  cause naturali  od accidentali (4 morti ad esempio si ebbero a seguito di un bombardamento aereo); tutto ciò  in netta contraddizione con quanto invece avvenne negli altri luoghi di detenzione, anche in Italia. 

          In piena guerra civile ci furono due località, tra le altre, che si caratterizzarono invece  per le atrocità avvenute al loro interno a danno soprattutto di ebrei e detenuti politici, come Fossoli vicino Modena che era un campo  di polizia e di transito verso la Germania e la Risiera di San Sabba a Trieste, che fu l’unico luogo di sterminio presente nella nostra nazione,  direttamente gestito dalle SS, ove morirono tra le 3000 e 5000 persone e nel quale era funzionante anche un forno crematorio.

         Si deve elogiare il comportamento tenuto dai  comandanti del campo di Ferramonti, e particolarmente dal primo di essi il dottor  Salvatore, il quale antepose sempre l’umanità e la tolleranza all’antisemitismo ed agli assurdi ordini ricevuti, chiedendo ai reclusi, come unica condizione, di evitare qualsiasi forma di rivolta od insubordinazione, al fine di mantenere sempre una parvenza esteriore di ordine e disciplina, e che per questo pagò di persona con la rimozione ed il trasferimento a Sondrio; ma analoghi atteggiamenti bonari furono tenuti anche dal suo successore, Fraticelli, il quale si limitò, nei pochi mesi del suo mandato, solo a ridurre i permessi di libera uscita per i reclusi.

          Però Ferramonti fu tutt’altro che un luogo di villeggiatura, si trattò sempre di una detenzione coattiva originata da motivi razziali o politici. Le persone erano state strappate dai loro affetti, dalle loro case, avevano perso tutto, trattate come delinquenti comuni erano arrivate al campo ammanettate ed obbligate a vivere, sorvegliate da gente armata, in uno stato di limitazione della libertà, col rischio quotidiano di essere inviate in altre località o consegnate alle autorità naziste.

          I problemi principali di  cui soffrirono gli internati furono la malaria, le carenze igieniche, la fame e la sete, soprattutto ad iniziare dal 1943, quando ormai le sorti della guerra volgevano le spalle all’Italia ed era difficile attuare regolari operazioni di approvvigionamento. A causa delle restrizioni alimentari gli internati furono costretti a cedere gli ultimi beni posseduti per avere in cambio cibo, ma ci fu chi, soprattutto tra bambini e anziani,  morì letteralmente di fame.

         Le costruzioni realizzate in tutta fretta ed in modo approssimativo non aiutavano certo a vivere in condizioni decorose; le piogge creavano ammassi di fango e laddove l’acqua ristagnava negli spiazzi e cortili, diventava malaria.

       A fine luglio 43 giunse l’ordine di trasferire tutti gli internati in provincia di Bolzano con lo scopo di consegnarli ai tedeschi da cui sarebbe scaturito l’invio nei campi di concentramento, poi tristemente noti, e la morte certa. Tra gli ebrei scoppiò il panico ma, la caduta del  fascismo e gli atteggiamenti dilatori del comandante del campo, fecero si che il terribile ordine non venisse eseguito come invece avvenne in alcuni reclusori del centro nord Italia; tant’è che, essendo stato ripristinato il 30 novembre 1943, l’istituto dell’internamento dalle autorità di Salò, quasi 7000 ebrei rastrellati nelle città o nei vari campi ancora attivi, furono deportati ad Auschwitz, Dachau, Buchenwald, ed altri ancora e pochissimi sopravvissero a fine guerra, ma già il 16 ottobre era avvenuta l’occupazione del ghetto di Roma, a cura delle SS del  maggiore  Kappler, quando 1022 ebrei furono catturati per essere internati ad Auschwitz, e di questi  se ne salvarono solamente 16. Queste,  sicuramente,   sono pagine nere e vergognose della storia nazionale.     

Dopo l’otto settembre e la firma dell’armistizio con le nazioni alleate, un giorno alcuni reparti tedeschi in risalita verso il nord si recarono all’interno del campo di Ferramonti probabilmente per rendersi conto della situazione e prelevare qualche prigioniero come ostaggio, ma il maresciallo Marrari, simulando la presenza di numerosi lebbrosi e colerici tra di essi, convinse i nazisti a desistere dalla loro idea e ad allontanarsi portando via solo della nafta.

       Comunque già  dopo il 25 luglio, nel caos amministrativo che iniziava a delinearsi e che avrebbe portato alla fine dell’alleanza con la Germania ed all’inizio della guerra civile, il direttore aveva in un certo senso facilitato la fuga di molti reclusi lasciando di notte aperti i cancelli, riducendo la sorveglianza armata e consentendo loro di nascondersi nelle campagne  circostanti , aiutati in questo dalla popolazione civile.

        Il campo ufficialmente cessò di esistere il 14 settembre 1943, quando truppe dell’ottava armata britannica avanzando verso la penisola, liberarono i detenuti ancora presenti, i quali però essendo  quasi tutti stranieri e non sapendo ove recarsi, visto che nelle loro nazioni infuriava ancora il conflitto, rimasero volontariamente al suo interno fino alla fine della guerra, campo che nel frattempo era diventato una base per profughi e che fu definitivamente chiuso l’11 dicembre 1945.

         Di quel triste luogo quasi nulla è rimasto. Durante i lavori di costruzione dell’autostrada negli anni sessanta, il poco che era sopravvissuto al saccheggio degli uomini ed all’incuria delle istituzioni e di chi avrebbe dovuto preservare la struttura, fu  sventrato in più tronconi, tant’é che attualmente non rimane più nessuna delle 92 baracche, ma solo alcuni ruderi diroccati.

 

Ruderi del campo

 

Archivio Santoro

 

         Poi tutto è caduto nel dimenticatoio come se quei tragici fatti non fossero mai avvenuti, come se tutte quelle persone, che hanno sofferto e patito, non fossero mai esistite.

          Solo intorno agli anni ottanta si è deciso di attuare un’ opera di rivisitazione e recupero anche come testamento morale per le future generazioni, creando dapprima una Fondazione, con compiti di studio e ricerca e da qualche anno un Museo della memoria,  che ripercorre con documenti e fotografie la vita trascorsa in quei bui anni dagli internati.      

            Questa località dovrebbe essere visitata da tutti, ad iniziare dalle scolaresche,  a perenne monito, anche perché è certamente obbligo morale di tutti condannare senza appello ogni totalitarismo e persecuzione e, nello stesso tempo, mantenere viva la memoria come dovere e testimonianza verso chi ha sofferto indicibilmente, affinché non si attui una drammatica beffa consumata nel nome dell’ oblio e dall’indifferenza generale. 

 

                                                                                 Vincenzo Santoro

 

Bibliografia 

- Capogreco “I campi del Duce”.L’internamento civile nell’Italia fascista 1940-43 Einaudi

- Del Boca “Italiani brava gente?”  Neri –Pozza

- Ferro “La Seconda guerra mondiale. Problemi aperti”  Giunti

- Folino “Ferramonti? Un misfatto senza sconti” Brenner

- Fucci “Le polizie di Mussolini. La repressione dell’antifascismo nel ventennio” Mursia

- Pansa “Il sangue dei vinti” Sperling&Kupfer

 

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