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Artese Giuseppe, classe 1923, nato
a Catanzaro Marina, entusiasta della vita e felicissimo
di servire la Patria, allo scoppio della 2ª Guerra
Mondiale, venne imbarcato come motorista navale sul
sommergibile “Pietro Micca”.
Il giovane Merolla Alfonso,
anch’egli di Catanzaro Marina, nonché compagno di scuola
del marinaio Artese, venne destinato su di un altro
sommergibile. Durante il corso, entrambi si accordarono
e riuscirono a farsi assegnare sullo stesso
sommergibile, il “Pietro Micca”.
In un’operazione nel Mediterraneo,
a causa di una avaria, il sommergibile subì seri danni,
per cui, prima si diresse per le opportune riparazioni
verso lo Stretto di Messina, ma poi dato che in quel
sito imperversavano continuamente pesanti bombardamenti,
il Comando Navale diede l’ordine di rientrare
direttamente alla base di Taranto.
Il “Pietro Micca”, per i
danni ricevuti, non poteva immergersi, per cui, il 29
luglio del 1943, al promontorio di S. Maria di Leuca fu
facilmente silurato da un siluro inglese nemico lanciato
dal sommergibile “Trooper”, il cui comandante era
un certo Clarabutt.
Il sommergibile colpito, affondò
repentinamente e si adagiò su un fondale di 72 metri, a
quasi tre miglia dalla costa, dove per due giorni i
componenti dell’equipaggio riuscirono con gli strumenti
di bordo, a farsi sentire con l’esterno nella speranza
di poter ricevere qualche intervento straordinario per
la salvezza di tutti.
A 72 metri di profondità lentamente
morirono 54 giovani, ad eccezione, del Comandante, del
vicecomandante e di 16 marinai, complessivamente 18,
probabilmente perché all’atto del siluramento si
trovavano sulla torretta in osservazione o in prossimità
di essa. Qualcuno, come il marinaio Tommaso De Marco,
era fuori per fumarsi tranquillamente una sigaretta.
I superstiti furono salvati dai
pescatori di Leuca, i quali, dopo aver assistito da un
pontile al disastro, con grande abnegazione e coraggio
ed a rischio della loro vita, accorsero subito con le
loro barche, salvandoli da sicura morte. Uno dei
pescatori si chiamava Michele Petracca.
La nave “Bormio”, che
avrebbe dovuto scortare il sommergibile sin dentro il
porto, arrivò all’appuntamento concordato con un
notevole ritardo, comunque, dopo l’immediato intervento
dei pescatori di Leuca, si adoperò subito per
trasbordare i feriti più gravi presso l’ospedale
militare di Leuca, mentre gli altri furono dirottati
presso il centro di accoglienza militare di Grottaglie.
Nulla si potè fare per salvare i 54
marinai rimasti intrappolati, nonostante si sentissero
rumori che documentavano all’esterno la loro esistenza
in vita; qualche testimone sostenne pure che al terzo
giorno dall’affondamento erano stati sentiti venire
dallo scafo dei colpi d’arma da fuoco. Molto
probabilmente qualcuno, piuttosto che soffrire per la
mancanza d’aria una lunga agonia o perché ferito,
pienamente consapevole dell’impossibilità di essere
salvato, preferì togliersi la vita.
E così i due amici Artese Giuseppe
ed Alfonso Merolla, felici di vivere insieme quelle
entusiasmanti avventure di guerra, a vent’anni,
lasciarono la loro esuberanza giovanile ed i loro
ricordi in fondo al mare, innanzi al promontorio di S.
Maria di Leuca, sopportando eroicamente sino all’ultimo
minuto questa terribile fatale esperienza.
Altro particolare drammatico fu che
il padre Artese ebbe la notizia della morte del figlio
la sera del 12 Agosto 1943, notizia che tenne
segretamente per sé per qualche giorno, perché il dì
successivo aveva una figlia che, felicemente ed ignara,
a Catanzaro Marina contraeva matrimonio.
Il sommergibile “Pietro Micca”
con tutti i suoi eroici caduti, ad appena 72 metri di
profondità, è ancora là, senza che nessuno, nell’età
moderna abbia mai pensato di recuperarlo o di
raccogliere qualche resto umano, unitamente a
particolari oggetti, muti testimoni, per essere più
degnamente custoditi con i simboli di Libertà, di Patria
e di Sacrificio.
Durante la Seconda Guerra Mondiale
furono 128 i sommergibili che la Flotta Italiana perse e
con essi chissà quanti lutti, quante tragedie umane e
quante giovani vite spezzate. Quando si è in guerra, la
morte non rispetta nessuna nazione e così si muore
tristemente sia da una parte che dall’altra.
Invero un altro sommergibile “Pietro
Micca“ era stato già progettato il 20 settembre 1915
e che doveva andare in funzione durante la prima Guerra
Mondiale, ma, per il fatto che non era stato completato
in tempo, fu utilizzato in un momento successivo, per
addestramento, finchè il 2 giugno 1930 fu radiato
definitivamente.
Pietro Micca era un giovane
minatore piemontese (1677-1706), il quale, la notte del
29/30 agosto del 1706, come si accorse, durante
l’assedio di Torino da parte dei francesi, che alcuni
granatieri nemici stavano per entrare nella Cittadella
da un sottopassaggio, fece brillare con una miccia corta
una mina, morendo insieme ai suoi assalitori e salvando
così, col suo sacrificio, la città. Pietro Micca era
l’eroe che si studiava sui libri di scuola, quando,
molti decenni fa, frequentavo la terza elementare.
La storia dei sommergibili iniziò
nel 1889, allorchè l’Ing. Giacinto Pullino, Ispettore
del Genio Navale, costruì per la prima volta
nell’Arsenale di La Spezia un’unità subacquea che si
chiamerà “Delfino”.
Il sommergile in genere, all’atto
della sua realizzazione, era stato considerato un’ arma
potente e che dava grande sorpresa; fornito di un
motorino elettrico che produceva una limitata velocità
ed una silenziosa autonomia, inizialmente venne
utilizzato per mettere piccole cariche esplosive sotto
le navi alla fonda. Ma questo tipo di operazione si
presentava particolarmente pericoloso e rischioso, per
cui successivamente venne utilizzato come lancia siluro
perché poteva colpire da lontano. In tal modo si
ridussero i rischi e potè essere utilizzato anche in
superficie e durante la navigazione.
L’Italia, all’inizio della 1ª
Guerra Mondiale aveva 20 sommergibili, per arrivare a
sessanta durante il conflitto. Di solito operavano
nell’Adriatico e davano la caccia alle navi da guerra
nemiche.
L’eroico Nazario Sauro, che era
imbarcato sul “Pullino”, era tenente di vascello,
quando, a seguito dell’incagliamento del suo
sommergibile nei pressi di Fiume, il 31 luglio 1916 fu
catturato presso Fiume dagli Austriaci ed immediatamente
impiccato a Pola dieci giorni dopo.
Il sommergibile era munito di tubi
lanciasiluri, quattro a prora e due a poppa, e del
periscopio che gli consentiva in immersione, senza
essere avvistato, di controllare guardingamente il
naviglio del nemico in navigazione. Inoltre, poteva
caricare le batterie dei motori elettrici solo quando
era in navigazione in superficie.
Quando ai sommergibili venne
applicato il motore a scoppio, si ebbe un mezzo navale
più potente, veloce ed in grado di competere sia in
immersione che in emersione. Innanzi al pericolo e per
sfuggire agli attacchi nemici, il comandante, senza far
correre al sottomarino il rischio di essere colpito o di
essere individuato dalla schiuma che in immersione si
sarebbe creata in superficie, a tutta velocità
posizionava i timoni per la discesa e nello stesso tempo
dava l’ordine di riempire immediatamente di acqua le
casse galleggianti.
Durante questa fase, poi,
bisognava far chiudere tutte i portelli e le diverse
prese d’aria, dando altresì la spinta verso il basso sia
con i motori termici che con quelli elettrici.
Nell’emersione, invece, si metteva
in atto il processo inverso, sia riposizionando i
timoni per la salita e sia svuotando con l’aria
compressa le casse piene di acqua. Erano operazioni che
dovevano essere realizzate da marinai esperti e che
avevano un buon grado di professionalità e di
addestramento.
Il sommergibile faceva paura anche
all’avversario più potente, perché, con i suoi siluri,
operava a sorpresa, ma quando si attuò anche un’azione
di difesa contro gli attacchi dei sommergibili, dovette
vivere in una condizione di inferiorità più sott’acqua
che sopra. E quando veniva individuato erano le bombe di
profondità che cercavano di distruggerlo in immersione.
Gli attacchi aerei, poi, mettevano
notevolmente in difficoltà il sommergibile, perché in
questi casi diventava facilmente più vulnerabile, in
quanto non era in grado di avere un’ampia visibilità
dell’aereo nemico.
Una nave che andava a caccia di un
sommergibile nemico cercava di individuarlo con i
rilevatori sonori, per cui il sommergibile, per non
farsi rilevare, doveva subito immergersi, per poi
tentare di appiattirsi sul fondale senza fare alcun
rumore, facendo così perdere il segnale di
posizionamento. Lo strumento rilevatore fu chiamato “Sonar”,
che compendiava le parole inglesi “Sonar NAvigation
and Ranging”; era insomma uno strumento
capace di localizzare oggetti subacquei, mediante
emissione di onde ultrasonore e successiva ricezione
delle onde riflesse. La profondità era anche importante,
perché nelle acque trasparenti vi era il rischio che la
sagoma del sommergibile potesse essere molto più
facilmente individuata, soprattutto dagli aerei
nemici.
Quando dopo un’attesa estenuante
sul fondale, l’equipaggio aveva difficoltà di
respirare per la mancanza di ossigeno nello scafo, a
questo punto, al comandante non restava altra soluzione
che dare l’ordine di avviare al massimo i motori verso
una rapida emersione ed attaccare in coperta, a
sorpresa, il nemico a colpi di cannone o con una
mitragliera antiaereo.
Nel giugno 2005, in un’area dove vi
sono forti correnti ed insufficiente visibilità, dei sub
in immersione hanno posizionato una targa in onore dei
54 marinai che vi erano morti. Tempo fa, posizionato su
di un fianco, il sommergibile era stato scoperto per
caso da un pescatore di crostacei ad 85 metri di
profondità.
I sub che l’hanno fotografato,
completamente coperto da licheni, pur avendo notato che
la torretta era ancora aperta, non sono entrati, sia
per le dimensioni delle bombole e sia per le lamiere
taglienti esistenti. Lo squarcio prodotto dal siluro non
era visibile a causa della fanghiglia che copriva la
parte interna ed esterna, ed anche, perché col
passaggio, la fanghiglia si alzava al punto di offrire
una visibilità quasi zero. Si vede ancora il cannone
posizionato, coperto da incrostazioni. Molte sono le
reti dei pescherecci che sono rimaste impigliate e che
lo avvolgono.
Il Pietro Micca, impostato il 15
ottobre 1931, era stato costruito con tecniche di
avanguardia nei cantieri Tosi di Taranto ed aveva avuto
la cerimonia del varo il 31 marzo del 1935. Aveva a
poppa ed a prua sei camere lanciasiluri, due cannoni da
120 mm. E 4 mitragliere. All’epoca era stato
considerato il fiore all’occhiello della Regia Marina
italiana ed in navigazione era bello da vedere,
soprattutto perché aveva un tagliamare maestoso. Venne
assegnato prima al 4° gruppo sommergibili di Taranto ed
addestrato nel posizionamento di campi minati, e poi,
all’entrata della 2ª Guerra Mondiale, fu inserito nella
16ª Squadriglia del 1° Gruppo Sommergibili di base a La
Spezia.
Aveva una lunghezza di 90 metri e
31 ed una velocità di 14 nodi in superficie e di 4 nodi
in immersione. L’equipaggio era costituito da 72 uomini
comprensivo di 8 ufficiali. Poteva scendere sino ad una
profondità massima di cento metri, con una potenza di
motori di 3000 HP in superficie e della metà in
immersione.
La prima operazione di guerra che
fece, senza incontrare nessuno, fu quando, tra il
gennaio ed il febbraio 1937 venne segretamente adoperato
per la guerra di Spagna, in appoggio alle forze
franchiste al comando del Capitano di Corvetta Ernesto
Terza. L’Italia dovette poi sospendere le operazioni di
appoggio, perché non poteva più sostenere una guerra di
appoggio a Franco in modo clandestino.
Durante una parata in onore del
Führer a Napoli, avvenuta il 5 maggio 1938, il Pietro
Micca alzò l’insegna di unità ammiraglia dei
sommergibili italiani.
Era un sommergibile che veniva
utilizzato anche nelle operazioni sporche, perché era in
grado non solo di lanciare siluri, ma anche di
depositare mine. Infatti, nella seconda Guerra Mondiale
entrò in guerra la notte del 12 giugno 1940, con
l’incarico di porre 40 mine innanzi al porto di
Alessandria d’Egitto, che era una base britannica,
operazione che fu ripetuta nella notte del 12 agosto con
altre 40 mine. A Sud di Creta silurò anche un
cacciatorpediniere inglese.
Prima che venisse affondato al 207°
dal Semaforo di S. Maria di Leuca, a tre miglia di Punta
Ristola, aveva compiuto 23 mila miglia, (19.574 in
superficie e 3566 in immersione), aveva messo in atto
quattro agguati, 24 missioni di guerra, 13 missioni
segrete trasportando armamenti vari, viveri e benzina
per un totale di 2200 tonnellate, tutto materiale
scaricato nei porti di Bengasi, Tripoli e Lero. Per il
continuo e difficile via vai tra l’Italia e l’Africa,
verrà chiamata la “battaglia dei convogli”.
In effetti il nemico temeva che i
nostri sommergibili trasportassero materiale bellico che
potesse arrivare in Giappone, in quanto credevano che
Hitler, in quel momento, tenesse intenzione di costruire
lì la bomba atomica.
Il 18 gennaio 1942 fu attaccato da
tre aerei nemici, ma riuscirà a sfuggire immergendosi
immediatamente. A Lero, un siluro uscirà casualmente dai
tubi poppieri ed esploderà a breve distanza dal
battello, danneggiandolo.
Il 17 ottobre 1942, a seguito di
una violentissima burrasca, perse una vedetta che era di
guardia, trascinata fuori bordo dalla furia del mare.
Era il sottocapo Giuseppe Canta. Ed anche in questa
circostanza, per la burrasca incontrata, era stato
costretto a rientrare per urgenti riparazioni allo
scafo.
Il 27 marzo 1943 era partito da
Taranto per arrivare a Napoli circumnavigando la
Sicilia, in quanto attraversare lo Stretto di Messina
era particolarmente pericoloso per la forte presenza
nemica e per i continui bombardamenti che vi erano.
Infatti gli aerei inglesi dominavano il cielo siciliano
per contrastare la ritirata dei tedeschi dall’isola
verso la terraferma.
Dopo quattro giorni di navigazione,
per seri guasti meccanici, quasi al largo del Capo
Spartivento, il comandante decise di rientrare a
Taranto, perché il sommergibile non era più nelle
condizioni di immergersi. Il rischio di essere
intercettato in superficie era altissimo, però soltanto
al largo di S. Maria di Leuca avrebbe potuto trovare una
nave scorta antisommergibile e che avrebbe dovuto
accompagnarlo sin dentro il porto di Taranto.
Sfortunatamente, proprio in prossimità del Capo, trovò
un sommergibile inglese.
Alle ore 6.05 del 29 luglio 1943,
in piena emersione e con la luminosità di una giornata
estiva, il Pietro Micca fu colpito da sei siluri.
All’atto del siluramento il comandante era il Tenente di
Vascello Paolo Scrobogna. Il primo della coppia di
siluri lanciati andò a vuoto, mentre il secondo, dopo un
tentativo di virata da parte del capitano italiano,
anche perché il comandante inglese aveva intuito la
manovra, colpì subito nel mezzo a morte, a proravia, il
Pietro Micca, il quale affondò immediatamente, “…fin
che ‘l mar fu sopra noi richiuso”.(Inferno: Canto
XXVI). |
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