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DECIMAZIONE E RAPPRESAGLIA

 

  

    Nel linguaggio comune, a volte, i concetti di decimazione e rappresaglia, utilizzati soprattutto in caso di guerra, vengono tra di loro confusi o gli viene attribuito un significato diverso da quello reale.

    Per decimazione, comunemente, si intende un massacro od una strage che coinvolge più persone; in realtà la decimazione era una punizione di carattere militare che veniva irrogata agli appartenenti di un reparto militare macchiatosi di un reato collettivo oppure in caso di indeterminatezza nel risalire all’identità dei veri colpevoli di qualche mancanza. Da ciò la necessità di giustiziare un soldato ogni dieci militari facenti parte di quel reparto (da cui il nome DECImazione), a titolo di esempio e come monito nei confronti degli altri commilitoni.

    Fortemente applicata durante il medioevo, la decimazione sorse all’interno della legione romana – fulcro dell’esercito romano – quando gli stessi legionari, a sorte, uccidevano un compagno d’arme ogni dieci appartenenti ad un reparto da punire perchè non aveva combattuto bene oppure si era dimostrato indisciplinato in battaglia.

    Nell’impero romano furono previste alcune varianti più benevole come la vicesimatio (un sorteggiato ogni 20 soldati) e la centesimatio (uno ogni 100 soldati).

    Un sistema così barbaro, che non distingueva il colpevole dall’innocente e non teneva conto del principio fondamentale della responsabilità soggettiva, fu per assurdo largamente usato dal Regio esercito italiano durante il primo conflitto mondiale.

    I testi scolastici di norma non ne parlano ma, meno di un secolo fa, cittadini italiani in armi potevano essere giustiziati in questo terribile modo!

    C’e da dire che il Codice Penale per l’Esercito del 1870, non prevedeva in alcuna sua parte questo tipo di pena, né la stessa era disciplinata dalle Norme pel combattimento del 1913. Entrambi sistemi normativi che invece autorizzavano i comandanti militari ad attuare esecuzioni sommarie, e quindi senza processo, in caso di flagranza di reato e combattimento in corso (o meglio: "in faccia al nemico").

    In realtà l’applicazione della decimazione fu ordinata direttamente dal Comandante Supremo, gen. Cadorna, il quale con specifiche circolari e direttive, non solo consigliava, ma addirittura ordinava di punire con tale sanzione i soldati appartenenti ad un reparto che sulla linea del fronte si era macchiato di un reato disonorevole come lo sbandamento, la codardia, l’indisciplina,la rivolta etc.

    "Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente maggiori colpevoli et allorché accertamento identità personale dei responsabili non è possibile, rimane ai comandanti il diritto et il dovere di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari et punirli con la pena di morte. A cotesto dovere nessuno che sia conscio della necessità di una ferrea disciplina si può sottrarre ed io ne faccio obbligo assoluto et indeclinabile a tutti i comandanti". Così scriveva Cadorna ai comandanti di armata, suoi diretti sottoposti, nel novembre del 1916.

    La circostanza che circolari (che pur assunsero forza di legge in zona di guerra) ordinassero tale terribile sanzione, non serve a giustificare o legittimare il suo ricorso durante il conflitto. Il principio giuridico fondamentale del diritto penale per cui "Nullum crimen, nulla poena, sine lege", così come gli altri principi su cui si basava la civiltà giuridica italiana (responsabilità soggettiva, legittimità, difesa, etc.), in realtà furono del tutto arbitrariamente disapplicati e lesi durante il primo conflitto, e soprattutto nei suoi anni più tragici: 1916 e 1917; lasciando alla discrezione dei singoli comandanti di reparto se fosse il caso di attuare esecuzioni senza processo e tale tipo di pena o meno, per reprimere reati considerati disonorevoli per l’Esercito. Per ironia della sorte addirittura, oltre all’esemplarità, da taluno la decimazione era ritenuta anche umanitaria, considerato che anziché giustiziare tutti gli appartenenti ad un plotone o compagnia (rispettivamente da 50 a 250 componenti), veniva soppresso, in caso di reato collettivo, un decimo degli stessi, lasciando sopravvivere gli altri.

    Materialmente come avveniva la decimazione? Il reparto colpevole di una grave mancanza veniva schierato e, tramite conta o attraverso sorteggio dei nominativi, venivano individuati i soldati da fucilare. Il plotone d’esecuzione era formato da appartenenti allo stesso reparto (e quindi non solo concittadini, visto l’arruolamento generalmente su base regionale, ma anche parenti e amici dei condannati) e di norma alle esecuzioni assistevano gli altri commilitoni a mò di monito. Molte volte i decimati negli atti di morte venivano considerati "caduti in combattimento", e quindi i parenti potevano godere di pensione di guerra. D’altronde lo scopo principale di passare per le armi i soldati in questo modo, era soprattutto di dare l’esempio a tutti gli altri militari, per evitare il ripetersi di fatti simili e far vivere i soldati nell’angoscia e nel terrore di essere analogamente sottoposti a tale punizione, e quindi non necessariamente aveva un valore infamante e, men che meno, poteva considerarsi un atto di giustizia.

    A fronte di centinaia di casi di esecuzioni senza processo (quantomeno quelle conosciute), i casi di decimazione furono parecchie decine. La sola Brigata Catanzaro fu coinvolta in due episodi: nel 1916 nella zona degli Altopiani (8 decimati), e nel 1917 sul fronte carsico (12 decimati), di cui è stato trattato più compiutamente nello studio sulla giustizia militare durante la Grande guerra. Ma anche altre unità militari furono interessate a tale tipo di sanzione.

    Terminata la guerra e, a fronte dei primi clamori suscitati dalle notizie provenienti dai reduci e di chi aveva assistito in prima persona a tali tremendi fatti, la decimazione e le esecuzioni sommarie scomparvero dal sistema punitivo italiano e non si hanno notizie di loro applicazioni, a danno di militari italiani, né durante le guerre coloniali e di Spagna, né durante il secondo conflitto mondiale, ove ci furono limitati casi di fucilazioni collettive di soldati, ma sempre a seguito di formale sentenza e dopo un procedimento giudiziario, anche se di tipo straordinario, da parte di tribunali militari.

 

    Per rappresaglia si intende generalmente un’azione di ritorsione e risposta ad atti illeciti compiuti da uno Stato straniero. Essa è contemplata e ammessa nelle norme del diritto internazionale che riconoscono alle Nazioni di ricorrere all’autotutela, a condizione che lo Stato che ha commesso una violazione contro un altro Stato, non voglia riparare il danno arrecato o non accetti il giudizio di un arbitro.

    Nel diritto bellico è stata, ed è, invece una forma non solo di autotutela ma di risposta militare violenta, a volte esagerata ed illegittima, anche contro civili innocenti a seguito di torti subiti. Una forma quasi di vendetta legalizzata che è stata usata, soprattutto durante la Seconda guerra mondiale sui vari fronti, senza regole e senza pietà.

    In Italia, durante la guerra civile 43-45, si è fatto spesso ricorso sia alla rappresaglia che all’uccisione di ostaggi, trincerandosi a volte dietro la legittimità di tali azioni, in quanto precedentemente erano stati emanati specifici bandi che preannunciavano forme di rappresaglia in caso di atti ostili. L’esempio più emblematico è quello relativo alle Fosse Ardeatine a Roma nel marzo del 1944, quando furono soppressi 335 italiani (già detenuti a Regina Coeli per motivazioni varie) dopo l’attentato di Via Rasella, nel corso del quale, a seguito di un’azione partigiana erano stati uccisi 33 soldati appartenenti ad un reparto di milizia altoatesina inquadrato nelle SS. In questo caso, durante i processi svoltisi a conflitto ultimato, più che difendersi dall’aver ucciso tanti innocenti, i comandanti nazisti (nella fattispecie il comandante della piazza di Roma, Colonnello SS Kappler), hanno ritenuto legittima la rappresaglia, considerato che i bandi precedentemente emessi, prevedevano la morte di 10 italiani ogni soldato tedesco ucciso e che le 5 vittime in più erano state causate da un mero errore di calcolo (anche se, per questo episodio, Hitler in persona aveva ordinato di uccidere 50 italiani ogni soldato tedesco ammazzato; ordine poi rientrato sia per l’impossibilità di reperire tanti prigionieri da sopprimere nelle carceri romane che per ragioni d’opportunità).

    Certo la morte di ostaggi o di civili innocenti era la forma più crudele di rappresaglia, ma non mancarono altre azioni analogamente tragiche, come la distruzione di case ed interi paesi, le deportazioni di massa, i bombardamenti indiscriminati, etc.; tutte forme di autotutela esagerata, finalizzata a fiaccare gli animi della popolazione occupata o in guerra, che tutti i contendenti applicarono.

    La rappresaglia però, per essere legittima, doveva anche rispettare criteri di proporzionalità tra il danno subito e quello che si intendeva arrecare e che la cerchia degli obiettivi da colpire fosse circoscritta o quantomeno in relazione col reato commesso a danno delle truppe occupanti. Condizioni quest’ultime, previste sia dalla Convenzione dell’Aja del 1907 che da quella di Ginevra del 1929, quasi mai rispettate da nessuno dei contendenti e che causarono, in molte circostanze, veri e propri abusi e abomini, a danno della popolazione civile, donne e bambini compresi.

    A guerra finita, lo Statuto delle Nazioni Unite all’art. 2 comma 4, stabilendo il divieto per gli Stati membri di impegnare la forza per risolvere le controversie internazionali, ha escluso la liceità del suo ricorso in tempo di pace; così come nel diritto umanitario bellico, le convenzioni di Ginevra del 1949 ed i protocolli del 1977, vietano la rappresaglia qualora diretta contro la popolazione civile. Tali convenzioni prevedono la sostituzione della rappresaglia con commissioni d’inchiesta, conciliazioni, negoziati, affidate a stati neutrali.

    L’unica eccezione all’uso della rappresaglia è lo stato di guerra e la risposta ad un attacco armato, nel rispetto però, fondamentalmente dei principi umanitari e della proporzionalità.

    Pertanto, anche in guerra, mai la rappresaglia può, oggi, effettuarsi in maniera spropositata ed a danno di civili innocenti, ravvisandosi in questo caso veri e propri omicidi o crimini di guerra giudicabili poi dai tribunali internazionali, anche se le sanzioni a volte sono blande o inadeguate a punire orrende violazioni dei principi umanitari.

    La legislazione castrense italiana, che ovviamente ha recepito le norme internazionali, prevede l’istituto della rappresaglia, e più precisamente l’ art. 176 Cod. Penale Militare di Guerra, e l’art. 8 del Regio decreto 8 luglio 1938, n° 1415, la cosiddetta Legge di guerra.

    Nel primo caso, nel prevedere la punizione del comandante di una forza militare che ordini la rappresaglia fuori dei casi consentiti dalla legge o dalle convenzioni internazionali, o non ne ordini la cessazione, di fatto riconosce un diritto all’utilizzo alla rappresaglia; nel secondo caso, in maniera più esplicita, si riconosce all’Italia il diritto di non osservare gli obblighi internazionali nei confronti del belligerante nemico che non adempie agli obblighi del diritto internazionale stesso, e si specifica che la rappresaglia ha il fine di indurre il belligerante nemico ad osservare gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, e può effettuarsi sia con atti analoghi a quelli da esso compiuti, sia con atti di natura diversa.

    Di recente le leggi n° 6 e 15 del 2002, che hanno prodotto innovazioni nel diritto penale militare, hanno introdotto l’art. 185 bis del cod. penale militare di guerra che prevede la punizione di condotte illegali compiute da un militare a danno di persone protette da norme internazionali, di fatto attribuendo tutela a vittime innocenti anche di rappresaglie.

                                                                                                                                           Vincenzo Santoro

 

 

 
     

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