In realtà l’applicazione della decimazione
fu ordinata direttamente dal Comandante Supremo, gen. Cadorna, il quale con
specifiche circolari e direttive, non solo consigliava, ma addirittura ordinava
di punire con tale sanzione i soldati appartenenti ad un reparto che sulla linea
del fronte si era macchiato di un reato disonorevole come lo sbandamento, la
codardia, l’indisciplina,la rivolta etc.
"Ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a
reprimere reati collettivi che quello di fucilare immediatamente maggiori
colpevoli et allorché accertamento identità personale dei responsabili non è
possibile, rimane ai comandanti il diritto et il dovere di estrarre a sorte tra
gli indiziati alcuni militari et punirli con la pena di morte. A cotesto dovere
nessuno che sia conscio della necessità di una ferrea disciplina si può
sottrarre ed io ne faccio obbligo assoluto et indeclinabile a tutti i
comandanti". Così scriveva Cadorna ai comandanti di armata, suoi diretti
sottoposti, nel novembre del 1916.
La circostanza che circolari (che pur
assunsero forza di legge in zona di guerra) ordinassero tale terribile sanzione,
non serve a giustificare o legittimare il suo ricorso durante il conflitto. Il
principio giuridico fondamentale del diritto penale per cui "Nullum crimen,
nulla poena, sine lege", così come gli altri principi su cui si basava la
civiltà giuridica italiana (responsabilità soggettiva, legittimità, difesa, etc.),
in realtà furono del tutto arbitrariamente disapplicati e lesi durante il primo
conflitto, e soprattutto nei suoi anni più tragici: 1916 e 1917; lasciando alla
discrezione dei singoli comandanti di reparto se fosse il caso di attuare
esecuzioni senza processo e tale tipo di pena o meno, per reprimere reati
considerati disonorevoli per l’Esercito. Per ironia della sorte addirittura,
oltre all’esemplarità, da taluno la decimazione era ritenuta anche umanitaria,
considerato che anziché giustiziare tutti gli appartenenti ad un plotone o
compagnia (rispettivamente da 50 a 250 componenti), veniva soppresso, in caso di
reato collettivo, un decimo degli stessi, lasciando sopravvivere gli altri.
Materialmente come avveniva la
decimazione? Il reparto colpevole di una grave mancanza veniva schierato e,
tramite conta o attraverso sorteggio dei nominativi, venivano individuati i
soldati da fucilare. Il plotone d’esecuzione era formato da appartenenti allo
stesso reparto (e quindi non solo concittadini, visto l’arruolamento
generalmente su base regionale, ma anche parenti e amici dei condannati) e di
norma alle esecuzioni assistevano gli altri commilitoni a mò di monito. Molte
volte i decimati negli atti di morte venivano considerati "caduti in
combattimento", e quindi i parenti potevano godere di pensione di guerra.
D’altronde lo scopo principale di passare per le armi i soldati in questo modo,
era soprattutto di dare l’esempio a tutti gli altri militari, per evitare il
ripetersi di fatti simili e far vivere i soldati nell’angoscia e nel terrore di
essere analogamente sottoposti a tale punizione, e quindi non necessariamente
aveva un valore infamante e, men che meno, poteva considerarsi un atto di
giustizia.
A fronte di centinaia di casi di
esecuzioni senza processo (quantomeno quelle conosciute), i casi di decimazione
furono parecchie decine. La sola Brigata Catanzaro fu coinvolta in due episodi:
nel 1916 nella zona degli Altopiani (8 decimati), e nel 1917 sul fronte carsico
(12 decimati), di cui è stato trattato più compiutamente nello studio sulla
giustizia militare durante la Grande guerra. Ma anche altre unità militari
furono interessate a tale tipo di sanzione.
Terminata la guerra e, a fronte dei primi
clamori suscitati dalle notizie provenienti dai reduci e di chi aveva assistito
in prima persona a tali tremendi fatti, la decimazione e le esecuzioni sommarie
scomparvero dal sistema punitivo italiano e non si hanno notizie di loro
applicazioni, a danno di militari italiani, né durante le guerre coloniali e di
Spagna, né durante il secondo conflitto mondiale, ove ci furono limitati casi di
fucilazioni collettive di soldati, ma sempre a seguito di formale sentenza e
dopo un procedimento giudiziario, anche se di tipo straordinario, da parte di
tribunali militari.
Per rappresaglia si intende
generalmente un’azione di ritorsione e risposta ad atti illeciti compiuti da uno
Stato straniero. Essa è contemplata e ammessa nelle norme del diritto
internazionale che riconoscono alle Nazioni di ricorrere all’autotutela, a
condizione che lo Stato che ha commesso una violazione contro un altro Stato,
non voglia riparare il danno arrecato o non accetti il giudizio di un arbitro.
Nel diritto bellico è stata, ed è, invece
una forma non solo di autotutela ma di risposta militare violenta, a volte
esagerata ed illegittima, anche contro civili innocenti a seguito di torti
subiti. Una forma quasi di vendetta legalizzata che è stata usata, soprattutto
durante la Seconda guerra mondiale sui vari fronti, senza regole e senza pietà.
In Italia, durante la guerra civile 43-45,
si è fatto spesso ricorso sia alla rappresaglia che all’uccisione di ostaggi,
trincerandosi a volte dietro la legittimità di tali azioni, in quanto
precedentemente erano stati emanati specifici bandi che preannunciavano forme di
rappresaglia in caso di atti ostili. L’esempio più emblematico è quello relativo
alle Fosse Ardeatine a Roma nel marzo del 1944, quando furono soppressi 335
italiani (già detenuti a Regina Coeli per motivazioni varie) dopo l’attentato di
Via Rasella, nel corso del quale, a seguito di un’azione partigiana erano stati
uccisi 33 soldati appartenenti ad un reparto di milizia altoatesina inquadrato
nelle SS. In questo caso, durante i processi svoltisi a conflitto ultimato, più
che difendersi dall’aver ucciso tanti innocenti, i comandanti nazisti (nella
fattispecie il comandante della piazza di Roma, Colonnello SS Kappler), hanno
ritenuto legittima la rappresaglia, considerato che i bandi precedentemente
emessi, prevedevano la morte di 10 italiani ogni soldato tedesco ucciso e che le
5 vittime in più erano state causate da un mero errore di calcolo (anche se, per
questo episodio, Hitler in persona aveva ordinato di uccidere 50 italiani ogni
soldato tedesco ammazzato; ordine poi rientrato sia per l’impossibilità di
reperire tanti prigionieri da sopprimere nelle carceri romane che per ragioni
d’opportunità).
Certo la morte di ostaggi o di civili
innocenti era la forma più crudele di rappresaglia, ma non mancarono altre
azioni analogamente tragiche, come la distruzione di case ed interi paesi, le
deportazioni di massa, i bombardamenti indiscriminati, etc.; tutte forme di
autotutela esagerata, finalizzata a fiaccare gli animi della popolazione
occupata o in guerra, che tutti i contendenti applicarono.
La rappresaglia però, per essere
legittima, doveva anche rispettare criteri di proporzionalità tra il danno
subito e quello che si intendeva arrecare e che la cerchia degli obiettivi da
colpire fosse circoscritta o quantomeno in relazione col reato commesso a danno
delle truppe occupanti. Condizioni quest’ultime, previste sia dalla Convenzione
dell’Aja del 1907 che da quella di Ginevra del 1929, quasi mai rispettate da
nessuno dei contendenti e che causarono, in molte circostanze, veri e propri
abusi e abomini, a danno della popolazione civile, donne e bambini compresi.
A guerra finita, lo Statuto delle Nazioni
Unite all’art. 2 comma 4, stabilendo il divieto per gli Stati membri di
impegnare la forza per risolvere le controversie internazionali, ha escluso la
liceità del suo ricorso in tempo di pace; così come nel diritto umanitario
bellico, le convenzioni di Ginevra del 1949 ed i protocolli del 1977, vietano la
rappresaglia qualora diretta contro la popolazione civile. Tali convenzioni
prevedono la sostituzione della rappresaglia con commissioni d’inchiesta,
conciliazioni, negoziati, affidate a stati neutrali.
L’unica eccezione all’uso della
rappresaglia è lo stato di guerra e la risposta ad un attacco armato, nel
rispetto però, fondamentalmente dei principi umanitari e della proporzionalità.
Pertanto, anche in guerra, mai la
rappresaglia può, oggi, effettuarsi in maniera spropositata ed a danno di civili
innocenti, ravvisandosi in questo caso veri e propri omicidi o crimini di guerra
giudicabili poi dai tribunali internazionali, anche se le sanzioni a volte sono
blande o inadeguate a punire orrende violazioni dei principi umanitari.
La legislazione castrense italiana, che
ovviamente ha recepito le norme internazionali, prevede l’istituto della
rappresaglia, e più precisamente l’ art. 176 Cod. Penale Militare di Guerra, e
l’art. 8 del Regio decreto 8 luglio 1938, n° 1415, la cosiddetta Legge di
guerra.
Nel primo caso, nel prevedere la punizione
del comandante di una forza militare che ordini la rappresaglia fuori dei casi
consentiti dalla legge o dalle convenzioni internazionali, o non ne ordini la
cessazione, di fatto riconosce un diritto all’utilizzo alla rappresaglia; nel
secondo caso, in maniera più esplicita, si riconosce all’Italia il diritto di
non osservare gli obblighi internazionali nei confronti del belligerante nemico
che non adempie agli obblighi del diritto internazionale stesso, e si specifica
che la rappresaglia ha il fine di indurre il belligerante nemico ad osservare
gli obblighi derivanti dal diritto internazionale, e può effettuarsi sia con
atti analoghi a quelli da esso compiuti, sia con atti di natura diversa.
Di recente le leggi n° 6 e 15 del 2002,
che hanno prodotto innovazioni nel diritto penale militare, hanno introdotto
l’art. 185 bis del cod. penale militare di guerra che prevede la punizione di
condotte illegali compiute da un militare a danno di persone protette da norme
internazionali, di fatto attribuendo tutela a vittime innocenti anche di
rappresaglie.