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 "PER LA PATRIA!"

 

ANTONIO EPICENO: il racconto di una vita

     
   

 

 
     
 

 

   
 

 

 
 

 

   
 

 

 
 

 

   
         
 

La sua vita Antonio Epiceno l’ha raccontata a me, Domenico Chianesi ed Enzo Santoro la mattina di venerdì 21 Dicembre 2012. Avevamo fissato l’appuntamento nella sua casa di Rione Stella ad un’ora in cui sarebbe stata presente la figlia Signora Annamaria che lo “interrogato” affettuosamente  per tutta la durata della ripresa. 91 anni ben portati, un sorriso che non ha mai abbandonato il suo viso chiaro accompagnando i ricordi di poco meno di un secolo trascorsi interamente a Catanzaro con la sola parentesi della guerra, che non ha potuto evitare, così come è successo a quelli della sua generazione.

Era nato a Catanzaro l’1 Febbraio 1922 . Aveva perso presto la madre, Anna  Critelli, ed il papà, Evaristo, si era risposato con una vedova con figli. Non ha serbato un buon ricordo della matrigna: il suo disagio si manifestava fin da adolescente, preferendo  non vivere in casa ma andare in giro per la città con altri coetanei, per campi ed orti prendendo ciò che la natura offriva anche se coltivato da altri. Le feste rionali costituivano il passatempo preferito e le gare tipiche di quel tempo “A pigghiata”, “la cuccagna”, “ la gara coi sacchi” erano le manifestazioni che più divertivano i bambini catanzaresi come lui. Le feste di Pontegrande, di Siano, di Fondachello sono ancora vive nella memoria e le racconta rivivendone il sapore popolare. Accresciuta di qualche anno l’età iniziò a darsi da fare per avere  qualche guadagno. Raccoglieva ferro e metallo vecchio per portarlo ad un signore che lo comprava per poi inviarlo alle fonderie..

Per mangiare si recava spesso nella sede del Comando del 19° Fanteria (Brigata Brescia), sito nella Caserma Pepe, dove ogni giorno si aprivano le porte verso  le 13 per accogliere chi non aveva nulla per sostentarsi. La fame era grande ed un ragazzo della sua età ne aveva ancora di più tant’è, dice la figlia, che ne mangiava “un cato”, (un secchio nr) vocabolo dialettale, raffigura un appetito notevole che dura ancora oggi. Per entrare nel recinto militare qualche volta doveva scavalcare il muro, andare in cucina dove gli addetti  gli davano qualcosa da fare e in cambio il cibo necessario. Non mi era mai successo di avere queste informazioni da altri e il racconto ha svelato una funzione  umanitaria della struttura militare del tutto straordinaria.

Il papà di Antonio lavorava presso l’antico Albergo Bretia, piuttosto noto ai catanzaresi, e si trovava nei pressi della Questura, in una delle traverse di Corso Mazzini. A Santa Caterina, sede attuale del comando di Polizia, vi era una palestra sul lato della discesa che porta al Politeama.

Epiceno frequentò solo la prima classe delle elementari ma la vita gli fu maestra e l’esigenza di farvi fronte fin da bambino lo rese responsabile ed in grado di affrontarla a viso aperto. La sua generazione visse fra le due guerre mondiali e durante gli anni del fascismo. Di essi ricorda alcuni eventi importanti: l’istruzione pre-militare che aveva luogo il sabato di ciascuna settimana presso il “Bersaglio”. Per chi non lo ha conosciuto era un rialzo delle dimensioni di un campo di calcio che si trovava sulla destra della Fiumarella, in direzione Catanzaro Lido. Si raggiungeva scendendo da Fondachello, percorrendo un sentiero che attraversava la ferrovia Calabro-Lucana e il letto del torrente. Su quello spiazzo intere generazioni di catanzaresi hanno giocato a pallone e dopo ore di contesa ripercorrevano in senso inverso ed in salita non agevole la pista che li riportava nel popolare rione cittadino. Un particolare del “Bersaglio” era il camino: costituiva lo sfogo dei fumi delle locomotive a vapore che attraversavano la galleria del Sansinato. Oggi  quello spazio tanto noto ai ragazzi del tempo è stato spianata per fare posto a capannoni sede di case automobilistiche. Un pezzo di storia che anch’io ho conosciuto si può solo raccontare.

Anche i militari andavano in quel luogo per esercitarsi al tiro con i fucili. Epiceno fu così inquadrato come giovane fascista prima ed avanguardista poi. Come tutti i suoi coetanei sostiene che le istruzioni gli hanno consentito di sapersi destreggiare nei combattimenti ai quali ha partecipato negli anni ’40.

In quegli anni la Federazione del Fascio si trovava nei pressi del Distretto Militare. Non ricorda particolari episodi di scontro fra fascisti ed antifascisti. Ma un fatto è vivido nella sua memoria e lo ripete più di una volta, tanta deve essere stata l’impressione che gli causò. L’ultima condanna a morte in città avvenne nel Giugno 1935 e fu eseguita dietro il cimitero, dove si potevano notare i segni delle pallottole fino a qualche anno fa, allorchè fu scritto un lavoro teatrale nel quale si raccontava la vicenda del giustiziato, Gregorio Mercurio da Stalettì, reo di omicidio, accusa che l’imputato respinse gridando fino all’ultimo istante di vita. L’avvocato Giovanni Le Pera nel 1983,  ripropose l’evento con il libro “Una condanna a morte” dal quale ebbe origine il copione, recitato in Piazza Prefettura ed a Stalettì stesso  provocando diversi tipi di reazione fra  quanti a suo tempo si erano schierati per la colpevolezza o l’innocenza del condannato. Antonio Epiceno  si esprime per l’ innocenza del Mercurio, tradito dalla moglie  che avrebbe accusato ingiustamente il marito di omicidio compiuto, invece da una cameriera della signora Rosa Mantelli. Movente del delitto sarebbe stata l’appropriazione “del peculio da lei posseduto”.

Ma in questa sede ci interessa la valutazione del nostro intervistato che fece parte di una larga fetta dell’opinione pubblica di quel tempo. Le storie di una città, apparentemente sepolte, sono ancora vive in chi le visse.

Il sig Antonio a 18 anni si arruolò nelle Camice Nere. Ma era già il 1940 e la guerra alle porte. Nel giorno in cui fu dichiarata e resa nota da Mussolini con il celebre discorso di Piazza Venezia Epiceno  si trovava a Catanzaro dove era stato lasciato in congedo provvisorio fino la Febbraio 1941, dopo il periodo di leva trascorso a Firenze. Fu chiamato alle armi nel Gennaio del 1942 ed inquadrato inizialmente nel 41° e poi  nel 3° artiglieria, con sede nel capoluogo toscano. Vi rimase circa 8 mesi, durante i quali fu sottoposto alla necessaria istruzione. Nell’ agosto  fu trasferito all’Isola di Rodi con il corpo di spedizione italiano ed assegnato al 35° raggruppamento artiglieria da posizione 193.a brigata. A Rodi, con qualche puntata a Creta, fu impegnato fino al Dicembre 1942 allorchè per una ferita fu inviato in licenza a Catanzaro da dove rientrò al corpo solo l’1  agosto 1943. Ancora oggi sotto la pelle del petto vi è un frammento della pallottola che lo aveva colpito.

A quella data vi era già stato il 25 Luglio e la caduta di Mussolini. Dopo poco più di un mese, l’ 8 settembre giorno dell’armistizio, i tedeschi lo presero prigioniero e lo internarono nel campo di concentramento di Borisov sito nei pressi della Beresina, fiume che ricorda la sconfitta di Napoleone durante la campagna di Russia. Fu destinato ad una fabbrica di aerei. Lavorando si tagliò la falange di un dito “per scarsa abiltà nell’uso della macchina che adoperava”, ma forse per evitare quel lavoro massacrante. La vita in  prigionia emerge in rare immagini della memoria: gli italiani erano in pochi, il cibo consisteva in pasta, patate, pane ed il rapporto con le guardie tedesche non era proprio cattivo. Aveva imparato qualche parola nella loro lingua e riusciva a comunicare, inoltre i capelli chiari e gli occhi azzurri lo rendevano più simile agli ariani, caratteristica che probabilmente lo rendeva accettabile ai soldati teutonici. Tuttavia bisognava attenersi alle regole, la fuga era difficile, uno che la tentò fu ritrovato dai cani, ma non venne fucilato, cosa che risulta essere accaduta in altri campi. Il nostro Antonio una volta ci provò, non fu una vera evasione ma il bisogno di vincere la fame che lo aveva indotto a rivolgersi a delle persone  residenti vicino al campo per chiedere cibo, ottenendo perché i russi non erano gente cattiva. Le loro donne erano generose, belle e alte. Epiceno sorride e dice che se non fosse già sposato in Italia, è probabile che avrebbe scelto di rimanere in Russia. In quegli anni non aveva avuto notizie dai suoi familiari né poteva  comunicarne tramite organismi umanitari. Le sentinelle non si erano accorte della sua “uscita”. Al rientro fu perdonato. Aveva un buon rapporto con il comando del campo anche perché aveva donato un orologio d’oro, ritrovato per caso. Inoltre curava i militari tedeschi, cosa che facevano anche gli altri prigionieri. In quel luogo, infatti, era stato creato un piccolo ospedale da campo dove confluivano i soldati  ammalati o feriti in battaglia. Andò avanti così fino alla liberazione avvenuta per opera dell’esercito sovietico.  Dopo la sconfitta i tedeschi si ritirarono senza fare atti ostili contro i prigionieri, cercarono di andare via per evitare rappresaglie;  i russi liberarono i soldati ristretti a  Borisov. Non rientrò subito in Italia, ma si aggregò all’esercito. Come risulta dal foglio matricolare, fu inviato al campo di concentramento n°27 della 3.a zona. Da qui partì per rientrare in Italia il 3 Ottobre 1945. Giunse  a Verona  il 17 novembre 1945 dopo un lungo viaggio in una tradotta, sulla quale erano state imbarcati migliaia di prigionieri, che si fermava in ogni stazione. Durante il tragitto la fame e la sete erano tante e qualcuno scendeva per raccogliere cibo nei campi. Una volta, però, i proprietari reagirono uccidendo il malcapitato, il treno ripartì e il corpo della vittima fu lasciato sul terreno. 

Per Catanzaro ripartì dalla cittadina Veneta poco tempo dopo. Interruppe il viaggio a Roma e fu condotto in Vaticano insieme ai suoi compagni di prigionia. A tutti furono donati nuovi abiti civili, il cibo tanto agognato e 200 lire, il Papa in persona era andato a visitarli per confortarli anche con la sua parola. Finalmente partì per la città natale.  Il treno lo portò a  Catanzaro Sala il  20 novembre 1945, non c’era nessuno ad accoglierlo perché non aveva potuto  informare i familiari. Trovò invece i carabinieri che cercavano possibili spie e lo scambiarono come una di loro. Per tre giorni soggiornò nell’Ospedale Militare finchè, chiarito l’equivoco, non fu lasciato libero di tornare a casa sua. La moglie, originaria di Santa Caterina Jonio, non c’era, era andata a vender olio a Milano dove quello calabrese si pagava bene e consentiva di guadagnare il necessario per sopravvivere. Catanzaro aveva subito danni visibili dalle bombe alleate che avevano colpito anche la zona del cimitero. La signora Epifano rientrò dopo 2 giorni e visse la grande emozione di rivedere il marito vivo, del quale non aveva avuto notizie da quasi tre anni.

Così ricominciò la vita normale. Nel 1946 nacque la figlia Anna  Maria. Antonio Epiceno, per effetto della qualifica di combattente, fu avviato al lavoro presso il sanatorio di Madonna dei Cieli. Non rimase a lungo  perché la vista della morte, che aveva dovuto vivere in guerra, lo turbava profondamente. Presentò le dimissioni e scelse di fare lavori diversi, anche occasionali ma lontani dalla malinconia del male.

Tornò a raccogliere ferro per rivenderlo e fu assunto nella fabbrica di bevande (gassose) De Nardo, che si trovava su Corso Mazzini, di fronte alla “Tramvia”. In anni successivi, negli ultimi anni della sua vita lavorativa, prestò l’opera sua ad una ditta di pulizie. A modo suo partecipò alla ricostruzione con il solo capitale di cui disponeva: le sua braccia. Ma ebbe una vita dignitosa e la serenità che noto sul suo volto ne è testimonianza. Politica? Si, in una prima fase, forse perché influenzato dalla libertà che gli avevano dato i soldati sovietici, si orientò verso il PCI e si iscrisse al sindacato. Negli anni più recenti il suo impegno fu assorbito dalla famiglia e dalle buone amicizie.

Qui si concludeva l’intervista ad Antonio Epiceno. Dovevo portargli il video del suo racconto con Enzo e Domenico immaginando che sarebbe stato felice di rivederlo in TV assieme alla figlia ed ai suoi cari.

Ma sabato 23 Febbraio ho visto i manifesti che annunciavano la sua morte: un evento  reso ancora più triste dall’impossibilità di rendere l’omaggio dovuto alla sua nobile vita.

Addio Antonio! Ora la tua memoria appartiene alla storia  e ti rendiamo omaggio nell’unico modo che ci è possibile: facendola leggere a  tutti, anche a quelli che furono tuoi compagni di ventura. 

Mario Saccà

   
     
 

 

   
     
 

 

   
         
   

   
 

 intervista

 
 

 

   

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