Il
processo di Catanzaro del 1823
Conclusasi definitivamente l’era
napoleonica con la sconfitta di Waterloo (giugno 1815),
i rappresentanti dei principali stati europei, in
un’atmosfera sfarzosa come non mai, si riunirono a
Vienna per dare una sistemazione politico-territoriale
all’Europa e decidere le sorti dei popoli.
Il Congresso già iniziato nel novembre
del 1814 e poi interrotto per i Cento giorni
dell’Imperatore riportò in solio i legittimi sovrani
spodestati da Napoleone e creò quell’equilibrio perché
non si ripetessero egemonie di Stati a danno di altri.
Non fu preso in considerazione il principio di
nazionalità.
Iniziava quindi l’epoca della
Restaurazione e il completo ritorno al passato per
ridare l’ordine sconvolto dalle idee rivoluzionarie. La
penisola italiana tornò ad essere frammentata e
s’intensificò il potere austriaco attraverso legami di
dinastie e di alleanze con i vari monarchi.
Nel regno di Napoli ricomparve la casata
borbonica nella persona di Ferdinando IV che assunse il
titolo di Ferdinando I, re delle due Sicilie. Favorevoli
alla restaurazione, quindi ai modi di governo
dell’ancien regime furono i ricchi aristocratici e
borghesi e l’alto clero conservatore che di prepotenza
rafforzavano i loro privilegi, contrari innanzitutto gli
intellettuali e i professionisti nutriti di ideali di
libertà e di giustizia e ancora tutti coloro che col
codice napoleonico avevano approvato l’abolizione del
feudalesimo, l’introduzione equa delle imposte fondiarie
e una riforma scolastica meno elitaria.
La Calabria, come tutto il Meridione, era
in un intreccio di contraddizioni. La legge del 2 agosto
1806 relativa all’eversione della feudalità sebbene
avesse eliminato abusi e soprusi legalizzati
riconoscendo la sovranità dello Stato, aveva fatto sì
che i proprietari pleno iure amministrassero le loro
terre in autonomia lasciando così la situazione
socio-economica preesistente. Alla Mongiana le ferriere
regie rappresentavano il prototipo di una vera fabbrica,
i Barracco e i Compagna erano tra i più ricchi del regno
con migliaia di capi di bestiame e i De Nobili, baroni
di Simeri, con Emmanuele, gran ciambellano del Murat,
avendo comprato il 40% degli immobili della Chiesa tra
cui la grangia di Sant’Anna (1363 tomolate di terra) 60
fondi e 25 predi urbani avevano ampliato il latifondo.
Il popolo minuto, o meglio popolazzo,
viveva nella piena miseria: i contadini e ancor di più i
braccianti erano esclusi di fatto da tutti i diritti
umani e giuridici.
La scarsezza di mano d’opera spingeva a
flussi la migrazione interna; agli inizi dell’estate
schiere di “metituri” dai paesi della Presila cosentina,
dell’Aspromonte e dell’entroterra soveratese, si
versavano nei granai del Marchesato. La pendolarità si
stabilizzò in seguito alla diffusione della malaria: i
mandriani per la transumanza per non scendere sul
litorale paludoso sostavano in bassa collina in villaggi
di pagliai. In città a molti mancava l’essenziale e si
sopravviveva di sottoccupazione in una realtà
igienico-sanitaria priva di norme, tanto per fare un
esempio lo spiazzo della Vallotta a Catanzaro era un
ricettacolo di acque torbide che davano origine a stagni
putridi abitati da serpi e rane e la condizione era così
continua che si tramandò scorresse un ruscello dovuto,
forse, anche all’affiorare di acque sotterranee.
La viabilità della regione si limitava
alla strada Napoli-Reggio Calabria che comportava dodici
giorni di viaggio, da Catanzaro dieci e si partiva da
Tiriolo (cfr. Settembrini), da Cosenza otto.
Il riassetto borbonico mirò
principalmente a consolidare una politica di assolutismo
sotto gli occhi indifferenti e rassegnati delle masse
che si adattavano all’alternarsi delle dominazioni.
Furono apportate modifiche amministrative: le
circoscrizioni passarono da due a tre: Calabria Citra
con capitale Cosenza; Calabria Ultra I con Reggio e
Calabria Ultra II con Catanzaro. Monteleone (Vibo), già
la prima città della Calabria fu depauperata degli
uffici più importanti. Ai Conciliatori, ai giudici di
circondario e ai tribunali fu affidata la giustizia
civile. Per la legge organica del 29 maggio 1817 le
Corti d’Appello furono definite Grandi Corti Civili e
nel regno furono fissate ad Aquila, Trani e Catanzaro,
città quest’ultima già scelta da Murat il 29 maggio 1809
per accogliere l’Appello dei Tribunali delle altre
province della regione. Una Gran Corte Criminale fu
istituita in ogni città.
Nonostante la disapprovazione di alcuni
ministri, furono fatte concessioni importanti alla
Chiesa col concordato del 16 febbraio 1818 e alla Corte
e ai Circoli finanziari ad essa legati nel campo fiscale
e doganale. Si aprirono conventi a Taverna, Pizzo,
Altomonte, Polistena, Filadelfia, Tropea, Sambiase. Il
Codice civile del marzo 1819 appoggiò il potere della
Chiesa con l’abolizione del divorzio, la non validità
del matrimonio non consacrato secondo le normative
ecclesiastiche.
In questo clima stantìo non pochi giovani
avvertivano il malcontento: alcuni perché arruolati
nell’esercito regio, altri per motivi di studio presso
l’Università di Napoli, fucina di nuove idee, si
facevano divulgatori della loro fede politica. Si
formavano così le prime società segrete. Furono proprio
alcuni calabresi come Michele Morelli di Monteleone e i
fratelli Pepe di Squillace a promuovere la prima
insurrezione (1821) di un reparto di cavalleria che
indusse il sovrano, figura ambigua a concedere la
costituzione sul modello di quella spagnola del 1812 che
pur lasciando il potere esecutivo nelle mani del re,
ribadiva che la sovranità spettasse alla nazione per
mezzo del Parlamento. L’esperienza fu di breve durata e
per trenta rivoltosi, tra cui lo stesso Morelli,fu
allestita la forca in piazza Mercato a Napoli. Le
divisioni all’interno delle forze rivoluzionarie ne
avevano affrettato la fine. La Sicilia, su insistenza
dei nobili si rifaceva alla Carta del Commissario
Bentink che le garantiva carattere oligarchico e
conservatore.
Alle crudeli pene inflitte dal re e
alimentate dall’allora Ministro della Polizia Antonio
Capece Minutolo, principe di Canosa, fatto esiliare su
pressioni dell’Austria e della Russia e, nel corso degli
anni di matrimonio dall’influenza della regina consorte
Maria Carolina, già morta nel 1814, si aggiungeva
l’enciclica pontificia che esonerava i sacerdoti dal
segreto di confessione qualora si fosse trattato di
riferire alla Polizia nomi e luoghi d’appartenenza ad
associazioni clandestine. Un modo ignobile di portare
avanti le indagini che delusero molti cattolici passati
poi ad altre congreghe cristiane.
La Carboneria, secondo lo studioso
inglese Billington, era stata importata nell’Italia
meridionale dagli ex militari napoleonici che si
rifacevano alla società dei Charbonniers. Gli adepti si
incontravano nei boschi all’aperto e ognuno portava con
sè una scheggia di legno da trasformarsi in carbone. Era
simbolico l’albero dalle lunghe radici e i rami (le
sette) ricchi di foglie (la fratellanza) e ancora la
scala di legno (ascesa dell’uomo a Dio) e i fasci
dell’antica Roma (l’unione).
In Italia la setta si basò su valori e
sentimenti che caratterizzarono il Risorgimento:
combatté per la Costituzione e la cacciata dello
straniero senza auspicare ad un’unità nazionale. La sua
peculiarità nel sud fu quella di avere iscritti
provenienti da ogni ceto sociale, dai nobili ai
proprietari, agli intellettuali, ai sacerdoti, ai ceti
medi, ai contadini, ai servi.
La prima società segreta in Calabria era
sorta ad Altilia (CS) nel 1811 per opera del medico
condotto Gabriele De Gotti, le altre si erano via via
diffondendo a San Mango, a Conflenti con i Folino,
Villella, a Dipignano, a Cortale con i Cefaly (il padre
del pittore Domenico era stato consigliere distrettuale
di Murat), a Mesoraca con i Carelli e La Rosa, a Maida
con il circolo dei Filadelfi, a Squillace, a Stalettì
con Aracri, Riga e Piccinnè, a Girifalco con un ramo
della famiglia Migliaccio, a Borgia con i Cospiratori, a
Cropani con il titolo Campo Europeo.
A Catanzaro si delineavano le varie
tendenze di parte. Si dichiaravano filo borbonici i
nobili agrari tra i quali i Marincola Cattaneo, i
Mottola d’Amato, i De Cumis, i Le Piane, gli Scoglio, ad
essi si contrapponevano liberali come i De Nobili,
Marincola Politi, Marincola San Floro, Schipani, De Riso
(insigniti prima baroni e poi marchesi dalla stessa casa
regnante), i Bianchi, gli Opipari, i Pascali, i Veraldi,
i Manfredi e molti della maestranza cittadina.
Legittimisti e quindi fautori dello stretto legame tra
assolutismo monarchico e il potere religioso si
dichiaravano i Felicetti, i Pugliatti, i Pugliese, i
Ferragina. In alcuni paesi della provincia si respirava
aria di sommossa, a Stalettì si piantava l’albero della
libertà (1° luglio 1821), a Gimigliano si metteva a
fuoco la casa del Giudice Regio (6 luglio 1821), nel
capoluogo, nel convento della Stella erano stati
rinvenuti dagli operai durante i lavori di restauro
(1818) i simboli della Carboneria i cui proseliti erano
soliti riunirsi al buio nel rione delle Case Arse presso
la casa di Luigi Varano (custode del Catechismo e dei
simboli della setta) coadiuvato da un monaco sfratato,
un certo Baldini. Nei pressi in un frantoio, di notte,
si riuniva la vendita di Giovanni Scalfaro che spesso
travestito da monaco di cerca diffondeva il suo credo
politico tra Feroleto e Sambiase.
L’8 giugno 1822 il G.I. del distretto di
Nicastro informava il Regio procuratore generale presso
la Corte Criminale di Calabria Ultra II di voci di
un’imminente sommossa. Il 18 dello stesso mese il R.G.
di Martirano comunicava al Sotto Intendente di Nicastro
che la volontà della rivolta gli era stata confidata da
Giovambattista De Gattis di Martirano. È da precisare
che il De Gattis mirava a colpire ingiustamente gli
abitanti di San Mango che esercitavano diritti civici
sui territori limitrofi a fondi di sua proprietà estorti
al legittimo intestatario, il duca di Laurito. Infatti
il malvagio in data 12 luglio 1822 confessava che da una
persona degna di fede aveva sentito che nelle città di
Catanzaro e Cosenza e in altri luoghi della regione
sarebbe seguita una rivolta finalizzata ad assassinare
le persone attaccate al sovrano, a liberare i detenuti
dalle prigioni e a proclamare un nuovo governo. La
cospirazione sarebbe stata formata da uomini facinorosi
abbandonati ad ogni forma di vizio lusingati di
costruirsi una nuova vita. Così menzionava Raimondo La
Rosa di Mesoraca e Michele Orlando i quali fuggiti su
due muli erano stati visti dirigersi per diffondere il
programma rivoluzionario.
Il 13 luglio il Sotto Intendente di
Calabria Ultra II G. De Maio informava di aver ricevuto
l’ordine dall’Intendente di arrestare Michele Orlando,
Francesco Monaco di Dipignano e Pasquale Rossi di
Tessano (frazione di Dipignano). Si voleva incastrare
Francesco Monaco considerato l’intermediario fra le due
province.
Il 26 settembre 1822 a Giuseppe
Ventromilo, cancelliere della Regia Giustizia del
Circondario di Nicastro, il detenuto Michele Orlando
dichiarava che da Francesco Monaco era stato informato
che in casa Angotti si era fondata una setta intitolata
I Cavallieri Europei Riformati. Orlando aggiungeva di
essere stato iscritto alla Carboneria nell’anno 1820 nel
tempo in cui vigeva la Costituzione davanti al Gran
Maestro Raffaele Poerio; al primo assistente Ignazio
Pericciuoli, al tesoriere Gennaro Paone, al segretario
Antonio Pollenzi.
Circa la fine di febbraio dell’anno
successivo si era ritrovato ancora a Catanzaro in casa
di Giovanni Scalfaro alla presenza di Daniele Manfredini,
Raffaele Elia, Antonio Tucci. In quella circostanza il
padrone di casa lesse il programma della nuova società
segreta dei Cavallieri Riformati. L’atto del giuramento
venne declamato con grande ardore da Raffaele Bilotti
che invitò lo stesso Orlando quale iniziato a seguire il
rito cacciandosi sangue dalla mammella sinistra, atto
non compiuto perché disapprovato dagli astanti. Non
furono pronunciati giuramenti se non le parole: Filo –
Mene – Tebe. Giuseppe Veraldi di Taverna, già maggiore
della Legione ai tempi della Costituzione ne era il Gran
Maestro.
E così Michele Orlando, Ferraro, prima
settaro col grado di Gran Maestro aveva ceduto,
allettato da 200 ducati, alle lusinghe del De Gattis
sulle cui terre lavorava il proprio padre Tommaso.
Il 23 maggio 1822 ricevevano mandati
d’arresto Antonio Angotti, Antonio Maria, Giuseppe
Muraca, Gaetano Talotta, Francesco Monaco, Pasquale
Rossi, Giuseppe Salsano, Antonio Tucci, Raimondo La Rosa
col suo garzone Lorenzo Spinelli, Daniele Lanfreducci,
Raffaele Bilotti. (Archivio di Stato. Processi Politici
Busta 2 fascicoli 3 – 4).
Si creavano così le prove dei rapporti
tra le due province.
Venivano rimpiazzati gli Intendenti. A
Catanzaro giungeva il Conte Ferdinando Cito di
Torrecurso al posto del marchese Arena Caracciolo, a
Reggio il principe Ruffo della Motta, a Cosenza
Francesco Nicola De Mattheis il quale fece di tutto per
avere le redini dell’istruttoria su tutto il territorio
in riferimento alle cospirazioni contro il governo.
Raffaele Poerio rientrato da Napoli,
nella casa di Giovanni Scalfaro alla presenza dei più
arditi carbonari aveva parlato di una prossima sommossa
allargata dai patrioti della Lucania e del Salernitano.
Dalle voci che si diffondevano il Governo ordinò
un’inchiesta dando pieni poteri al Generale Gaetano
Pastore prima soldato napoleonico e poi accanito
borbonico, questi andò ad abitare a palazzo Salzano dove
dodici anni prima era stato il famigerato Manhes al
servizio di Murat, i due erano accomunati nella
conduzione disumana e spietata delle indagini, in data
16 marzo 1823 si riunì una Commissione Militare che
operò fino al giorno 24 dello stesso mese (9 giorni). Fu
chiamato come uomo di legge il procuratore generale del
re presso la Corte Criminale Raffaele d’Alessandro.
Gli imputati furono:
1. -
Francesco Monaco di Dipignano (nato nel
1789) fu Bartolomeo e di Orsola Manfredi, proprietario
di anni 32;
2. -
Giacinto de Jessi di Gaetano e di Irene
Giordano (nato nel 1793) di Catanzaro, patrocinatore di
anni 30;
3. -
Alessio Berardelli di San Mango di
Francesco e Giovanna Spagnuolo, di anni 28,
proprietario;
4. -
Francesco Berardelli di San Mango, di
Alessio e Agnese Berardelli, falegname di anni 60;
5. -
Domenico Berardelli di San Mango, di
Alessio e fu Agnese Berardelli, bracciante di anni 40;
6. -
Rosario Berardelli di San Mango, di Paolo
e di Agata Sposato, massaro di anni 48;
7. -
Antonio Berardelli di San Mango, fu
Alessio e fu Agnese Sposato, falegname di anni 26;
8. -
Gaspare Sposato di San Mango, di Samuele
e della fu Antonia Ferrara, di anni 63 sacerdote;
9. -
Antonio Angotti di San Mango, (nato nel
1791), fu Francesco e Teresa, proprietario di anni 32;
1- -
Giuseppe Ferrara di San Mango, fu
Pasquale e Carmina Fraiacopo, parroco di anni 56;
11-
Francesco Saverio Muraca di San Mango, fu
Angelo e fu Teodora Manfredi, medico di anni 61;
12-
Carmine Muraca di San Mango, fu Angelo e
fu Giustina Guido, massaro di anni 60;
1
- Raffaele Renda di Catanzaro, fu Antonio
e di Maria Giuseppa Cosentino, sarto di anni 27;
1 -
Luigi De Pasquale di Catanzaro, di Ignazio e di Maria
Antonia Papaleo, studente di legge di anni 24;
1 -
Odoardo Marincola di Catanzaro, di
Antonio e della fu Teresa Sanseverino, nato nel 1792
proprietario di anni 31;
1--
Cesare Marincola di Catanzaro di Antonio
e della fu Teresa Sanseverino nato nel 1789 proprietario
di anni 34;
1--
Giovanni Marincola di Catanzaro di
Antonio e della fu Teresa Sanseverino nato nel 1801,
legale di anni 22.
Dei catanzaresi i fratelli Marincola del
ramo Politi (discendenti di Saverio e Gerolama Politi
già vedova Rocca – XVII secolo) detti anche Sant’Angelo
per l’ubicazione del loro caseggiato nel rione omonimo
erano noti per le loro idee. Cesare aveva iniziato ad
organizzare la Milizia nazionale in Calabria nel 1821.
Erano stati arrestati il 22 gennaio 1823.
Giacinto De Iessi abitava nel palazzotto
di fronte a quello degli Scalfaro (oggi di proprietà
Vecchio – De Stefani) e con Giovanni aveva modo di
confrontarsi frequentemente. Il suo arresto avvenne
all’improvviso in un momento di quiete assoluta: gli
sbirri entrarono dal giardino di casa e irruppero alla
presenza del cognato, avvocato Arcuri, che ne rimase
fortemente traumatizzato tanto da abbandonare il lavoro,
rinchiudersi in casa e uscirne dopo nove anni in seguito
a forti scosse di terremoto. Luigi Pascali, bello come
un eroe greco, giovane, di famiglia facoltosa, sognava
un futuro splendido con Teresina G., venne arrestato per
caso, quando uscito dalla propria dimora di Via
Raffaelli, in compagnia dell’amico Giovanni Scalfaro, si
avviava verso Fuori le porte per vedere i prodotti
esposti dalla Fiera di San Lorenzo (8 agosto). I due
avvistati da alcuni gendarmi se la diedero a gambe
levate lungo la discesa della Catena. Giovanni riuscì a
seminare i segugi, Luigi fu tradito dalla scarpa che si
incastrò tra due pietre e venne catturato.
Raffaele Renda nella sua semplicità
intellettuale aveva abbracciato con convinzione le idee
carbonare, era stato arrestato il mercoledì delle Ceneri
travestito da penitente che dispensava cenere, era stato
accusato del fallito attentato al generale Pastore al
rione Monacaro. Amato per il suo carattere estroverso
mastro Rafelino ispirò alcuni versi che il popolino
ripeteva con tenero affetto: Povero Rafelino/come sei
capitato/per darci la cenere/ti trovi in questo stato.
Il dibattimento del processo fu breve, si
ascoltarono 61 testimoni su 88 e non fu necessario il
giuramento, i testimoni furono trattenuti nelle carceri
perché non venissero influenzati a ritrattare e dire la
verità.
Sono andati perduti gli interrogatori
tranne due riportati da Cesare Sinopoli: Salvatore C.
cafettiere, asseriva di essere stato iscritto alla
società il cui capo sezione era Luigi Pascali mentre le
altre sezioni erano coordinate da Scalfaro, De Iessi e
Veraldi. Gaetano C. beccaio, allungava la lista degli
iscritti con altri nomi: Filippo Pucci, Giuseppe
Caporale, Gennaro Scarfone, Domenico Ubriatico,
Vitaliano Critelli, Giuseppe Martino, Vincenzo Cimino,
Antonio Pupo, Salvatore Scorza, Giorgio Caloiero,
Raffaele Elia.
Gli incontri si erano tenuti al casino
Fiasco dei Marincola o tra gli uliveti di Madonna dei
Cieli o alle Baracche. Il giuramento oltre alle parole
Filo – Mene – Tebe era accompagnato da un colpo che si
doveva dare con la mano tesa sul proprio cappello e
ancora da nove toccamenti del dito medio sul polso,
l’ultimo accompagnato col piede diritto sul pavimento.
Ai cinque avvocati di difesa, tra i più
stimati professionisti del tempo non fu data la
possibilità di esporre con dovizia di prove le loro
tesi. Giuseppe Marini Serra di Dipignano conosciuto
anche a Napoli per la sua persuasiva oratoria, pur
considerato filo borbonico, cercò invano di tirar fuori
Monaco e i sammanghesi rei di atti non commessi,
l’avvocato Gaspare Arcuri apprezzato docente di Diritto
criminale nelle scuole universitarie cittadine,
animosamente tentò di salvare dalla morte il proprio
cognato Giacinto De Iessi, suo patrocinatore nello
studio legale al quale era legato da profondo affetto. I
fratelli Marincola e Pascali furono seguiti da Giuseppe
Manfredi, penalista, spesso associato a Giuseppe Poerio
nel foro partenopeo e già commilitone di Cesare ed
Odoardo nella campagna di Russia al seguito di Napoleone
e poi con Murat. I Marincola in quel periodo vivevano il
dolore per la tragica morte del giovane zio paterno
Saverio ucciso in un agguato dai fratelli De Nobili. Gli
imputati erano ancora difesi da Gaetano Franco, uomo
serio e probo di idee liberali parente del già citato
Varano militante carbonaro e da Pasquale Calcaterra di
Dasà dalla ragguardevole carriera. Tutti i difensori
miravano a rendere infondato il processo perché basato
sulla menzogna.
Veraldi e Scalfaro, avvisati in tempo,
dati alla latitanza non furono mai processati nonostante
apparissero i loro nomi.
La sentenza pronunziata giorno 24 marzo
lunedì Santo fu dura e iniqua. Monaco, Pascali, De Iessi,
considerati accaniti propagandatori dell’attentato al
Regno ebbero la pena capitale. Il primo col terzo grado
di pubblico esempio, gli altri due con l’aggiunta di una
multa di mille ducati. Renda e Ferrara ventiquattro anni
al terzo grado dei ferri, Sposato, Angotti, Carmine
Muraca e i cinque Berardelli a diciannove anni sempre al
terzo grado dei ferri, con una multa di 500 ducati, il
medico Francesco Saverio Muraca la libertà provvisoria.
Odoardo Marincola fu graziato con la clausola di
risiedere sotto sorveglianza a Napoli e così Cesare
dietro una speciale garanzia di 5.000 ducati secondo
quanto stabilito dall’Intendente di Catanzaro. Per poter
saldare il conto ottenne un prestito dal cugino Carlo
che fece un’ipoteca sul fondo Chiattini, nei pressi di
Catanzaro Sala. Giovanni fu sorvegliato speciale.
Comunque fu discussa dall’opinione pubblica la mitezza
della loro pena. I condannati furono portati nelle nuove
carceri, quelle di San Giovanni e i padri liguorini
furono vicino ai tre che il giorno successivo avrebbero
lasciato la vita terrena.
La città era in subbuglio, ovunque
gendarmi armati e cannoni. Fu allestita la forca a Porta
di Mare per De Iessi e Pascali. Commovente la figura
dell’avvocato Pascali, stanco e ormai impotente davanti
alle sorti del figlio che pronunciava le ultime parole:
Viva l’Italia, lasciò cadere nelle mani del boia un
gruzzolo di monete perché la morte fosse men dura, ( sei
carlini ).
Per Monaco fu montata la “collettina”
nello spazio dove sorge l’Istituto Industriale. Gli
erano stati imputati tutti i capi d’accusa, nel periodo
della latitanza era stato ospite della famiglia Angotti
a San Mango. Maria Antonia Barberio, la moglie, esempio
di sublime amore coniugale, afflitta, pur trattenuta in
carcere per non aver depositato contro il marito, aveva
supplicato De Mattheis in persona perché rendesse meno
crudele la pena che aveva provocato al corpo piaghe e
infezioni, ma quello di risposta aveva replicato che
avrebbe preferito parlare con la figlia sedicenne.
I cadaveri di De Iessi e Pascali furono
lasciati fino a sera, uno fu poi seppellito nella fossa
della Chiesa del Rosario in Via XX Settembre, davanti a
palazzo Masciari, oggi ricostruito Failla, l’altro
nell’Oratorio della Congrega dell’Immacolata sotto
l’altare, poi col tempo trasferiti in un loculo del
Cimitero cittadino.
Il capo mozzo di Monaco rimase esposto
all’inferriata del carcere secondo l’usanza per i
ghigliottinati poi ricomposto, il corpo sepolto nella
chiesetta dell’ospedale Sant’Agostino (vecchio
ospedale).
I catanzaresi vissero la settimana santa
con sofferenza e dolore, certi dell’innocenza degli
eroi. Il clamore delle due Calabrie giunse fino a Vienna
ove si trovava il sovrano Ferdinando I il quale messo
alle strette dagli interlocutori inorriditi di quanto
accaduto, diede ordine che tutti gli atti fossero
revisionati da una Commissione formata dal Presidente
Antonio De Blasio (calabrese di Castelvetere, oggi
Caulonia) e da due vice presidenti Paternò e Marrano. Il
processo era stato retto da calunnie e abusi. La Camera
suprema di giustizia di Napoli a camere riunite col
numero di 16 votanti procedette a regolare giudizio su
De Mattheis, D’Alessandro, De Gattis a altri implicati.
Emersero errori, ingiustizie, sevizie, persecuzioni che
avevano costretto intere famiglie ad emigrare. Il De
Mattheis con alterigia aveva abusato dell’ospitalità, a
Rogliano, della famiglia Morelli da dove erano partiti i
suoi ordini iniqui. La sua crudeltà nel modo di agire
aveva provocato la morte della padrona di casa,
straziata dai lamenti dei torturati e la follia di
Fortunato, il figlio primogenito della donna. Il
Tribunale lo accusò di aver diffamato le popolazioni
della Calabria, di avere prodotto e istruito testimoni
falsi e false carte, di aver abusato della propria
autorità, D’Alessandro fu incolpato di interesse privato
nel favorire private vendette e il De Gattis di
complicità con De Mattheis.
Michele Orlando veniva assassinato dai
mandanti del De Gattis perché si temeva rivelasse
l’intrigo. La parte civile veniva difesa da Serra Marini
e Badolisani le cui arringhe furono passionali. La
sentenza fu data con Francesco I. il De Mattheis, difeso
dall’avv. Romano, condannato a 10 anni perché la Corte
non era stata unanime, D’Alessandro all’ergastolo, De
Gattis inviato ai Tribunali correzionali. Giuseppe
Celentani avvocato generale presso la Suprema Corte,
aveva chiesto la pena di morte per De Mattheis e
D’Alessandro e ancora la prigione per Pastore e i membri
della Commissione militare che in realtà furono avanzati
di grado.
Intanto salito al trono Ferdinando II col
decreto del 29 novembre 1830 condonava a tutti la pena
non ancora espiata. De Mattheis si trasferì a Salerno e
morì durante un intervento chirurgico alla gola. Agli
imputati fu condonata la pena pur rimanendo nelle
carceri.
Rimase l’indignazione. E così si
“conchiudeva” uno dei momenti più tristi della nostra
città che i libri di storia omettono ma che è una pagina
elevata di nobili ideali, sofferenze, di morte, i cui
protagonisti, fra speranze e sconfitte, hanno inciso
profondamente nella formazione della coscienza civile
della nazione: il Risorgimento.
Cesare Marincola parteciperà alla
Rivoluzione del 1848 e poi sarà latitante. Si presenterà
alle carceri di Catanzaro nel 1852 e rimarrà rinchiuso
fino al 58. Morirà l’anno successivo.
Giovanni Marincola nel 1848 farà parte
del Comitato rivoluzionario e di Salute pubblica, nel
1852 sarà condannato a 25 anni ai ferri e ne sconterà 5.
Sarà presidente della Corte di Assise di Potenza.
Giovanni Scalfaro sempre latitante,
morirà a Stalettì nel 1852, non gli sarà consentito di
essere seppellito nel camposanto, provvederanno col
tempo i figli.
Francesca Rizzari Gregorace
Bibliografia
· C.
Sinopoli, S. Pagano, A. Frangipane: La Calabria, a cura
di F. Graceffa – Editore Rubbettino – Soveria Mannelli –
2004;
· Nicola
Sinopoli: I Martiri di Catanzaro – Olimpus Editore
Dogma, 2008;
· Archivio
di Stato di Catanzaro;
· A. Serravalle: Memorie della Magistratura
e del Foro di Catanzaro dal 1809 ai nostri tempi –
Tipografia Giannini Napoli – 1885;
|