CALABRIAINARMI  

 " PER LA PATRIA! "

 

   
     

    "IL CONTRIBUTO DELL'ESERCITO NELL'UNITA' D'ITALIA "

   

 

 
 

 

 
 

 

In questi giorni ho letto diversi testi allo scopo di trovare un sostenitore alla tesi che l’Esercito ha fornito un sostanziale contributo nella costruzione dell’Unità d’Italia. L’ho trovato nel nostro Presidente Giorgio Napolitano. Egli scrive “ i Militari di ieri sono stati gli artefici dell’Unità del nostro Paese ed hanno poi difeso dall’arbitrio del totalitarismo i valori conquistati con tanto sacrificio”. Egli completa il suo pensiero aggiungendo “I Militari di oggi hanno raccolto quell’eredità morale, offrendo in tante travagliate regioni ed aree di crisi del mondo, la propria professionalità ed il proprio impegno per la pacifica cooperazione tra i popoli”. Incoraggiato da una dichiarazione così solenne, tenterò, ora, di approfondire l’argomento.

L’Esercito Italiano nasce ufficialmente il 4 maggio 1861. L’allora Ministro della Guerra, Generale Manfredo Fanti scrive in una circolare: “D’ora in poi il Regio Esercito dovrà prendere il nome di Esercito Italiano, rimanendo abolita l’antica denominazione di Armata Sarda”.

Questo è l’atto di nascita dell’Esercito ma solo dal punto di vista formale poiché in realtà l’Esercito nazionale esisteva già come tale e, la sua nascita aveva preceduto la stessa unificazione politica. L’unificazione politica per altro non avrebbe certamente potuto aver vita – o quantomeno avrebbe preso ben diverso avviamento – se non si fosse già formato un Esercito sostanzialmente nazionale, che aveva rimpiazzato quelli dinastici, o esclusivamente piemontese.

La Forza Armata nasceva non già dalla fusione dei diversi eserciti degli stati pre-unitari, ma dall’integrazione in quello piemontese delle forze, regolari o volontarie, provenienti dalle altre regioni. Nel 1814 vi erano stati già due precedenti. Vittorio Emanuele I aveva emesso un proclama (14 giugno) in cui invitava tutti i piemontesi che avevano servito nell’Esercito francese o nelle Forze del Regno  Italico a prestare servizio sotto Casa Savoia. Lo stesso era avvenuto a sud, dove i murattiani  erano stati ammessi nell’Esercito napoletano.

Lo stesso ministro della guerra. Generale Fanti  incarna questo processo di integrazione. E’ un modenese, di Carpi, esule dopo i moti del 1831, combatte nelle file liberali in Spagna. Poi è a capo di reparti di volontari lombardi. Entra nell’armata sarda e comanda una Brigata in Crimea. Comanda la 2^ Divisione nella Prima Guerra d’indipendenza. A Bologna comanda le truppe della Lega dell’Italia Centrale. Il suo comandante in 2^ è Giuseppe Garibaldi.

L’Armata Sarda, a sua volta, nasceva nel 1562; il Duca Emanuele Filiberto istituiva dodici reggimenti provinciali.

Cesare Balbo, pensando a quello sparuto numero di reggimenti, scriveva: “Da quel di vi fu un Esercito Italiano e si può fare di esso una storia ininterrotta”.

Gli ultimi anni del 1700 avevano visto nascere e purtroppo tramontare molte idee rivoluzionarie. La Repubblica Cispadana (27.12.1796), la Cisalpina (29.6.1797), la Ligure (17.11.1797), Romana (15.2.1798), la Napoletana (15.12.1798). Si affermavano anche da noi principi antifeudali e di laicismo illuminista, figli della rivoluzione francese. Riaffiorava un sentimento nazionale in un Paese che da secoli ne era privo.

 Nei primi anni del 1800 il vento liberale continuava a scuotere le coscienze anche di giovani Ufficiali. Si registravano i moti costituzionali del 1820 e del 1821. Tanto a Nola e ad Avellino nel 1820 (8 luglio), che ad Alessandria, Pinerolo e a Vercelli nel 1821 (11 marzo) l’insurrezione aveva preso le mosse dall’iniziativa di pochi animosi ufficiali (Morelli, Silvati, Guglielmo Pepe, Santorre di Santa Rosa) e si era poi ampliata traendo il suo principale sostegno proprio nell’ambito dell’ambiente militare. Ed è proprio da questi moti che prende origine e comincia ad affermarsi tra gli Ufficiali una tradizione liberale. Non pochi di questi Ufficiali erano affiliati alla Carboneria, che specie nell’Esercito Napoletano aveva posto salde radici fin dal tempo di Murat. Anche l’Armata Sarda non era rimasta immune dalle infiltrazioni carbonare. Parimenti negli Eserciti degli stati preunitari militavano numerosi Ufficiali della prima generazione italiana che si era formata nelle armate napoleoniche e che aveva combattuto in tutti i campi di battaglia di Europa. I moti del 1820-21 fallirono forse per le divergenze sulle riforme politiche che si volevano adottare e sui metodi da usare. Alcuni miravano a trasformare l’intera penisola, mentre altri si limitavano a modifiche al loro Stato. Certamente, però ha ragione Santorre quando afferma: “questa rivoluzione è la prima che si sia fatta in Italia da molti secoli senza il soccorso e l’intervento degli stranieri; è la prima che abbia mostrato che due popoli italiani che dalle due estremità della penisola rispondono l’uno all’altro. Il suo risultato è stato quello di asservire completamente l’Italia all’Austria, lo so troppo bene; ma, si badi bene, l’Italia è conquistata, non sottomessa”.

Seguirono i moti nell’Italia Centrale del 1831 con il governo delle provincie unite che si conclusero il 25 marzo con la sconfitta di Rimini. Menotti fu impiccato il 26 maggio. Il nome di Menotti divenne sacro per i liberali e carbonari. Ricordate, Garibaldi chiamò Menotti il suo primogenito.

Nella primavera del 1844 nell’isola di Corfù alcuni seguaci mazziniani stavano preparando una spedizione in Italia. Tra di loro Attilio Bandiera alfiere di Fregata e suo fratello Emilio, cadetto, che tre anni prima avevano fondato l’Esperia. L’obiettivo della spedizione era la Calabria, dove il 15 marzo 1844 era divampata una rivolta, finita tragicamente nel sangue. I fratelli Bandiera volevano riaccendere l’insurrezione. Sapete che il plotone di esecuzione il 25 luglio, ha stroncato 9 giovani vite ma non ha soffocato il Chi per la Patria muor vissuto è assai. Garibaldi chiama Ricciotti, uno dei componenti della spedizione,il suo quarto figlio

Veniamo ora al 1848. Ricordiamo l’insurrezione di Venezia (17 marzo) le 5 giornate di Milano (18-22 marzo), l’insurrezione di Parma e Modena.  In Piemonte regnava Carlo Alberto. Il Re, dichiarata guerra all’Austria (23 marzo), varcò il Ticino, alla testa del suo Esercito, L’Armata Sarda, che contava 66.000 uomini e 145 pezzi di artiglieria. I liberali di Firenze, Roma e Napoli, in fermento, riuscirono ad imporre ai propri governi d’intervenire nella guerra contro l’Austria in Lombardia.

Pertanto, verso  l’Italia Settentrionale si stavano dirigendo  i contingenti dell’Esercito del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio. Il 29 aprile però il Papa Pio IX dichiarò di non voler combattere una potenza cattolica come l’Austria; il Comandante Durando, disobbedendo continuò a partecipare alla Guerra. Il 22 maggio fu Ferdinando II di Borbone, ripreso il controllo di Napoli a ordinare alle sue truppe di tornare indietro e in questo caso esse ubbidirono, tranne 500 uomini che seguirono il Comandante, il Generale Guglielmo Pepe.

Le operazioni della I guerra d’indipendenza iniziarono con Goito (8 aprile) e Pastrengo (30 aprile). A fine maggio Radetzky prese l’iniziativa, con un movimento aggirante sul Mincio per tagliare ai piemontesi le vie di ritirata attraverso la pianura lombarda. Lo contrastò la divisione toscana del Generale De Laugier alla quale si aggiunse un battaglione di fanteria napoletano e gruppi di volontari tra i quali il battaglione degli studenti e dei docenti dell’Università di Pisa e Siena.

Partecipano alle operazioni circa 200 corpi di volontari. Citerò solo tre di questi:

         La Divisione Volontari Lombardi che inizialmente operò sul fianco sinistro dell’Esercito piemontese, ma che già nel 1849 combatté col grosso dell’Esercito.

         Una colonna di 300 volontari lombardi, comandati da Manara, distintosi nelle cinque giornate che operò in trentino alla difesa di monte Suello. Su incarico del governo piemontese, Manara organizzò un corpo di 700 bersaglieri lombardi che prese parte alla campagna del 1849.

         I volontari veneti che furono organizzati in due corpi da 4.000 uomini ciascuno. Presidiavano l’Isonzo e il Tagliamento.

Custoza pose fine alle operazioni del 1848. L’Esercito piemontese, ma credo possiamo già dire, vista l’eterogeneità dei suoi elementi, Esercito italiano dovette soccombere. Era in crisi di munizioni (immaginate quanta tipologia di fucili vi fosse), di viveri e di denaro.

L’anno 1848, pur fra tante delusioni, segna una grande data nella nostra storia. L’apparente fallimento servì  a chiarire che la dominazione straniera era ormai incompatibile con la nuova coscienza italiana. La guerra era perduta ma non erano perse le ragioni ideali per cui essa era stata dichiarata e condotta dall’Esercito italiano. Intorno ad esso  si radunava il popolo italiano per iniziare la rivoluzione che Carducci definì d’Europa.

 Le operazioni ripresero il 12 marzo del 1849 per terminare definitivamente il ventitré con la vittoria austriaca a Novara.  Anche Brescia dopo dieci eroiche giornate deve arrendersi (23 marzo-1 aprile)

Si spensero anche la Repubblica di San Marco di Manin (22 agosto 1849) e quella della Terza Roma (30 giugno 1849) del triunvirato Saffi, Armellini e Mazzini, che avevano avuto una connotazione più popolare.

L’Esercito della I guerra d’Indipendenza aveva dimostrato forti limiti nel suo sistema di leva e reclutamento. Gli effettivi non rispondevano alle esigenze rivelatesi nel corso del conflitto. Era necessario razionalizzare il sistema tenendo presente la mutata esigenza operativa.

Così il 20 marzo 1854 fu promulgata la nuova legge sulla leva e mobilitazione. Gli aspetti salienti erano:

·        Il contingente di leva annuale, suddiviso in prima e seconda categoria. Una legge speciale pubblicata ogni anno stabiliva l’entità del contingente necessario all’Esercito, ripartito in 1^ e 2^ categoria da estrarre a sorte.

·        Soppressione del reclutamento regionale. E’ vero che il reclutamento regionale garantiva una rapida mobilitazione, ma faceva diventare i singoli reparti dei circoli chiusi, allontanandone l’integrazione nazionale.

·        Rinuncia a una forza armata di seconda linea. Questa è sostituita dalla Guardia Nazionale utilizzabile se necessaria per il presidio delle piazze e il mantenimento dell’ordine interno del paese. Così nel 1859 la prima linea passò da sessanta a ottanta battaglioni.

Nel 1855-56 vi fu la spedizione in Crimea al comando di La Marmora. Tra i Comandanti di Brigata vi erano i modenesi Fanti e Cialdini, quasi a rappresentare la partecipazione non del solo Piemonte all’impresa. La vittoriosa guerra di Crimea è molto importante perché rafforza la soluzione monarchica incentrata sul Piemonte. Essa raccoglie tutte le energie patriottiche anche attraverso La Società Nazionale Italiana, alla quale aderiscono antichi repubblicani come Manin, Trivulzio lo stesso Garibaldi. Il Piemonte offriva all’Europa l’immagine rassicurante di un’antica dinastia, praticava una politica liberale e possedeva un Esercito ben organizzato.

Prima dello scoppio della II guerra d’indipendenza, 1859, tutti i volontari accorsi dall’Italia furono fatti affluire a Torino ed autorizzati ad arruolarsi purché fossero scrupolosamente osservate de disposizioni del regolamento di leva e l’addestramento fosse affidato a ufficiali piemontesi. Ancora una volta ci si riferisce all'Armata Sarda ma essa annoverava tra i suoi organici personale proveniente da tutta Italia. L’arruolamento dei volontari era talmente imponente da non passare inosservato a Vienna che il 19 aprile spedì un ultimatum per chiedere “la smobilitazione dell’Esercito sardo e il congedo dei corpi franchi o volontari italiani, preliminarmente al congresso”.

I volontari arruolati a Torino nell’Esercito sardo erano 9692.  Essi non erano gli unici. Altri volontari costituirono la Brigata Cacciatori delle Alpi, comandata da Garibaldi, inquadrata nell’Armata sarda in aggiunta alle cinque divisioni regolari. I tre comandanti di Reggimento Enrico Cosenz, Giacomo Medici e Nicola Arduino, entrarono poi tutti nell’Esercito Italiano.

Nel 1859 (29 aprile) l’Esercito piemontese scese in guerra con 2444 Ufficiali, 59417 uomini, 10714 cavalli e muli e 120 pezzi d’artiglieria. L’Armata Francese (20 maggio) era composta di 107656 uomini, 8708 cavalli e 312 pezzi d’artiglieria. Vi si opponeva l’Esercito Austriaco che contava 118.204 uomini, 6768 cavalli e 384 pezzi d’artiglieria.

Con questi effettivi vi furono Montebello (20 maggio), Palestro (30-31 maggio), Magenta (4 giugno), San Martino e Solferino (24 giugno). Al termine di queste ultime due battaglie, Napoleone III proclama ai suoi soldati “l’Armata Sarda spiegò ugual valore contro forze superiori ed è ben degna di marciare al vostro fianco”. Non ci fermò il nemico ma Napoleone III preoccupato dalla piega rivoluzionaria presa dalla guerra, che firmò con Francesco Giuseppe l’Armistizio di Villafranca (11 luglio). In quella data l’Armata Sarda aveva in linea 127.201 uomini, duplicandosi grazie all’apporto dei volontari

Nel 1860 Cavour e Napoleone si accordarono per la cessione di Nizza e Savoia alla Francia e l’annessione al Regno di Sardegna dei Ducati Padani, del Granducato di Toscana e delle Legazioni Pontificie nelle quali erano instaurati governi provvisori favorevoli al Piemonte e si era costituito l’Esercito della Lega, forte, inizialmente, di 25.000 uomini (10.000 toscani, 4.000 modenesi, 4.000 parmensi, 7.000 romagnoli) comandati da Fanti, Si pensi, per un momento, alla situazione. Il generale Fanti dipendeva contemporaneamente da tre governi (tre perché erano stati unificati il Ducato di Parma con quello di Modena sotto la dittatura di Farini) non sempre concordi tra loro, con altrettanti ministeri della guerra. Si consideri l’incertezza della situazione politica e la qualità delle truppe che dovevano essere riordinate, completate, fuse moralmente e materialmente in un tutt’uno  saldo ed organico: truppe raccolte e messe insieme con la massima fretta, senza alcuna consistenza: miste di vecchio e di nuovo, da una parte volontari e dall’altra Ufficiali e soldati dei governi caduti. Il Generale fece un ottimo lavoro e dopo sei mesi l’Esercito della Lega contava già 50.000 effettivi, che passarono quindi a far parte dell’Armata sarda.

Il 5 maggio 1860 inizia la spedizione dei Mille. Erano soprattutto lombardi, ma contavano ventuno calabresi e quarantacinque siciliani. Garibaldi il 7 settembre entrò in Napoli. Tre giorni dopo l’Armata sarda, forte di 39.000 uomini al comando di Fanti invase lo stato pontificio, vinse a Castelfidardo e il 13 ottobre entrò nel Regno delle Due Sicilie, congiungendosi ai Garibaldini. L’Esercito Meridionale di Garibaldi, nell’autunno del 1860, aveva raggiunto la forza ragguardevole di 52.839 effettivi: 45.496 militari di truppa e 7343 ufficiali. L’Eroe dei due mondi era  un mito, scatenava le ovazioni. Era l’uomo che conquistava un regno e lo donava al Re, aveva saputo coinvolgere e trascinare, in nome dell’unità d’Italia, così tanti meridionali.

Dopo il plebiscito del 21 ottobre e la dichiarazione del 17 novembre che sancirono l’annessione al regno delle provincie napoletane e siciliane, si rese necessario l’amalgama del disciolto Esercito napoletano con quello sardo. Furono chiamate le classi arruolate nel 1857, 1858, 1859 e 1860 e dopo un breve periodo di permanenza al Deposito Generale D’Arruolamento istituito a Napoli, furono inviati al nord a partire dal 1 febbraio 1861 “per continuare la ferma di servizio contratta sotto il cessato governo”. A questi contingenti si unirono gli uomini capitolati a Messina (12 marzo 1861), i difensori di Civitella di Tronto (20 marzo), i difensori di Gaeta (13 febbraio). Alla fine di aprile del 1861, sono incorporati nell’armata sarda, nelle varie specialità di provenienza, 25.887 soldati. Gli ufficiali borbonici ammessi furono 2191.

Un discorso a parte va fatto per i volontari dell’Esercito Meridionale di Garibaldi. Erano elementi assai eterogenei, privi di addestramento e della disciplina tipica delle forze regolari. A Palermo aveva combattuto anche una donna Antonia Marinello, classe 1833, per i colleghi Antonio, sposata e pure madre. Alla fine della campagna viene premiata con il grado di caporale e congedata con onore. Morirà in povertà e di tisi a San Miniato, un paesino del pisano. I versi scritti dal poeta Francesco Dall’Ongaro ed incisi sulla lapide recitano “era bionda, era bella, era piccina / ma avea  cor di leone e di soldato”

Vi fu una grande polemica tra Garibaldi che voleva l’Esercito Meridionale come un corpo d’armata dell’Esercito italiano e Cavour che ne preferiva l’integrazione. Vinse la linea di Cavour. Garibaldi tentò una difesa dei volontari in Parlamento, scagliando accuse molto pesanti verso Cavour. Il garibaldino Fabrizi riassume in una lettera “Garibaldi era stato accolto da ovazioni straordinaria, da quasi tutti i ranghi della Camera. Però avvenne poco dopo il contrario per le accuse con le quali colpì direttamente il Ministero”. “Il Generale non è un uomo da Camera e alla Camera sarà sempre battuto da Cavour”, aggiunge un altro fedelissimo Mordini.  I volontari non vollero sottostare alla ferma biennale e se ne tornarono a casa in massa, rifiutando di scambiare la camicia rossa con la giacca blu sabauda. Solo nel marzo del 1862 furono ammessi nell’Esercito italiano 1.997 ufficiali, sessanta sottufficiali e 76 garibaldini.

Nei primi anni di vita dello Stato Unitario si disse che l’Esercito era la “Scuola della Nazione”. Forse l’espressione è eccessiva ma è certamente vero che l’Esercito aveva posto per la prima volta a contatto in un’unica grande scuola di patriottismo e generosità tutti gli italiani di tutte le classi sociali. Quell’Esercito era “nazionale” a tal punto da riconoscere che non era più necessaria la Guardia  Nazionale, che fu sciolta. lo statista ed intellettuale Francesco De Sanctis definisce l’Esercito il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la tiene unita. Ai militari è affidata la missione “di conservare vivissimo e, diremo, cementato il nazionale sentimento”.

La nascita dell’Esercito del Regno d’Italia fu sancita dalla pubblicazione sul Giornale Militare della nota n. 76 del 4 maggio 1861, con la quale il Ministro della Guerra, Generale Manfredo Fanti, sostituiva l’antica denominazione di Armata Sarda con la definizione di Esercito Italiano.

La nuova compagine nasce dunque sulle basi delle tradizioni militari delle truppe piemontesi, protagoniste, con i Volontari, delle guerre del Risorgimento. Senza rinnegare il passato delle grandi tradizioni militari dell’Armata Sarda, l’Esercito si affiancò alle neonate Istituzioni dello Stato e divenne a poco a poco, l’Esercito degli Italiani.

In breve esso divenne il punto di forza dell’Unità nazionale, di un Paese non ancora abituato alla leva obbligatoria e nel quale gran parte delle reclute non aveva mai avuto l’opportunità di andare oltre i confini del proprio villaggio.

Con le proprie scuole reggimentali e con le visite mediche alle quali erano chiamati i giovani provenienti da tutte le parti d’Italia all’atto dell’incorporazione, l’Esercito contribuì a sconfiggere l’analfabetismo e a migliorare le precarie condizioni sanitarie che affliggevano gran parte della popolazione. Nel 1860 più del 60% degli italiani era analfabeta e solo il 2% della popolazione era in grado di usare la lingua letteraria.

Lo sviluppo delle fabbriche d’armi e degli arsenali esercitò una notevole e positiva influenza sull’economia italiana, sia direttamente con l’impulso dato alla produzione, sia indirettamente perché contribuì alla creazione di una manodopera specializzata e al formarsi di una classe di tecnici quasi inesistente nell’Italia di allora, prevalentemente agricola.

Il 2 giugno 1861, il generale Fanti, nel corso di una solenne cerimonia, come primo ministro della guerra consegnava ai Reggimenti le nuove Bandiere dell’Italia Unita.

Ricordate?  Il Presidente nel suo discorso aveva aggiunto: “I Militari di oggi hanno raccolto quell’eredità morale, offrendo in tante travagliate regioni ed aree di crisi del mondo, la propria professionalità ed il proprio impegno per la pacifica cooperazione tra i popoli”. Continuiamo anche noi per giungere come ha fatto lui ai nostri giorni.

Fatta l’unità d’Italia i problemi  non erano terminati, vi furono poi i difficili anni del brigantaggio, della campagna d’indipendenza del 1866 e del ritorno di Roma all’Italia, attraverso le vicende della breccia di Porta Pia del 1870.

Le campagne coloniali di fine secolo ci conducono ai primi anni del novecento, con il radicale ammodernamento delle armi e dei mezzi che sono utilizzati per la prima volta sul campo nella guerra di Libia del 1911-12.

La Grande Guerra fu una prova durissima e vide impegnati centinai di migliaia di soldati in grigioverde che, in condizioni proibitive, nelle trincee o sulle montagne, combatterono e vinsero, dopo quasi quattro anni, il tradizionale nemico di allora, l’impero austro-ungarico. Si completava la fase risorgimentale.

Alla fine della guerra, nel ventennio successivo la Forza Armata fu duramente impegnata nella riconquista della Libia, in Etiopia, in Spagna e in Albania.

La Seconda Guerra Mondiale, inizialmente combattuta al di fuori dei confini nazionali, arrivò ben presto a trasformare anche l’Italia in teatro di guerra. Con l’armistizio dell’8 settembre del 1943 prese poi avvio la guerra di liberazione che vide l’Esercito progressivamente impegnato a fianco degli Alleati sino alla primavera del 1945, facendo nascere la Repubblica Italiana.

Gli anni che seguirono, caratterizzati da un impegnativo processo di ricostruzione e trasformazione dell’Esercito, videro l’ingresso dell’Italia nella NATO ed il conseguimento di un ruolo sempre più importante in seno all’Alleanza.

La situazione politica internazionale degli anni ’90, con la fine della minaccia sovietica e la recrudescenza del terrorismo su scala mondiale provocò radicali mutamenti delle organizzazioni militari.

La necessità di rispondere ai crescenti impegni assunti dal Paese in ambiti internazionali portò l’Esercito Italiano a intensificare la partecipazione alle operazioni all’estero, in un contesto sempre più interforze e multinazionale, operando per la tutela della pace e per il soccorso alle popolazioni martoriate dalla guerra: in Libano, Mozambico, Somalia, Albania, Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e altre parti del mondo, pagando un pesante tributo di vite umane.

L’esercito oggi non è più impiegato quasi esclusivamente per la difesa dei confini della Patria. Organizzazioni  internazionali a cui l’Italia con grande lungimiranza ha aderito ci hanno circondato di amici ed alleati. Esso è soprattutto uno strumento di politica estera impiegato per perseguire gli interessi nazionali al di fuori dei confini della Patria.

Dice Benedetto Croce il risorgimento italiano fu il capolavoro dello spirito liberale europeo. Capolavoro però certamente e indiscutibilmente realizzato e prodotto con il materiale strumento delle armi. Del resto, ogni opera d’arte, di qualsiasi genere e natura ha bisogno, per tramutarsi da semplice concezione e pura essenza in concreta manifestazione, d’un mezzo strumentale e d’una tecnica particolare che lo impieghi. Nel nostro caso lo strumento è stato l’Esercito Italiano.

 Gen. Dv. (aus) Pasquale MARTINELLO

 
 

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