In questi giorni ho letto diversi testi
allo scopo di trovare un sostenitore alla tesi che
l’Esercito ha fornito un sostanziale contributo nella
costruzione dell’Unità d’Italia. L’ho trovato nel nostro
Presidente Giorgio Napolitano. Egli scrive “ i Militari
di ieri sono stati gli artefici dell’Unità del nostro
Paese ed hanno poi difeso dall’arbitrio del
totalitarismo i valori conquistati con tanto
sacrificio”. Egli completa il suo pensiero aggiungendo
“I Militari di oggi hanno raccolto quell’eredità morale,
offrendo in tante travagliate regioni ed aree di crisi
del mondo, la propria professionalità ed il proprio
impegno per la pacifica cooperazione tra i popoli”.
Incoraggiato da una dichiarazione così solenne, tenterò,
ora, di approfondire l’argomento.
L’Esercito Italiano nasce ufficialmente
il 4 maggio 1861. L’allora Ministro della Guerra,
Generale Manfredo Fanti scrive in una circolare: “D’ora
in poi il Regio Esercito dovrà prendere il nome di
Esercito Italiano, rimanendo abolita l’antica
denominazione di Armata Sarda”.
Questo è l’atto di nascita dell’Esercito
ma solo dal punto di vista formale poiché in realtà
l’Esercito nazionale esisteva già come tale e, la sua
nascita aveva preceduto la stessa unificazione politica.
L’unificazione politica per altro non avrebbe certamente
potuto aver vita – o quantomeno avrebbe preso ben
diverso avviamento – se non si fosse già formato un
Esercito sostanzialmente nazionale, che aveva
rimpiazzato quelli dinastici, o esclusivamente
piemontese.
La Forza Armata nasceva non già dalla
fusione dei diversi eserciti degli stati pre-unitari, ma
dall’integrazione in quello piemontese delle forze,
regolari o volontarie, provenienti dalle altre regioni.
Nel 1814 vi erano stati già due precedenti. Vittorio
Emanuele I aveva emesso un proclama (14 giugno) in cui
invitava tutti i piemontesi che avevano servito
nell’Esercito francese o nelle Forze del Regno Italico
a prestare servizio sotto Casa Savoia. Lo stesso era
avvenuto a sud, dove i murattiani erano stati ammessi
nell’Esercito napoletano.
Lo stesso ministro della guerra. Generale
Fanti incarna questo processo di integrazione. E’ un
modenese, di Carpi, esule dopo i moti del 1831, combatte
nelle file liberali in Spagna. Poi è a capo di reparti
di volontari lombardi. Entra nell’armata sarda e comanda
una Brigata in Crimea. Comanda la 2^ Divisione nella
Prima Guerra d’indipendenza. A Bologna comanda le truppe
della Lega dell’Italia Centrale. Il suo comandante in 2^
è Giuseppe Garibaldi.
L’Armata Sarda, a sua volta, nasceva nel
1562; il Duca Emanuele Filiberto istituiva dodici
reggimenti provinciali.
Cesare Balbo, pensando a quello sparuto
numero di reggimenti, scriveva: “Da quel di vi fu un
Esercito Italiano e si può fare di esso una storia
ininterrotta”.
Gli ultimi anni del 1700 avevano visto
nascere e purtroppo tramontare molte idee
rivoluzionarie. La Repubblica Cispadana (27.12.1796), la
Cisalpina (29.6.1797), la Ligure (17.11.1797), Romana
(15.2.1798), la Napoletana (15.12.1798). Si affermavano
anche da noi principi antifeudali e di laicismo
illuminista, figli della rivoluzione francese.
Riaffiorava un sentimento nazionale in un Paese che da
secoli ne era privo.
Nei primi anni del 1800 il vento
liberale continuava a scuotere le coscienze anche di
giovani Ufficiali. Si registravano i moti costituzionali
del 1820 e del 1821. Tanto a Nola e ad Avellino nel 1820
(8 luglio), che ad Alessandria, Pinerolo e a Vercelli
nel 1821 (11 marzo) l’insurrezione aveva preso le mosse
dall’iniziativa di pochi animosi ufficiali (Morelli,
Silvati, Guglielmo Pepe, Santorre di Santa Rosa) e si
era poi ampliata traendo il suo principale sostegno
proprio nell’ambito dell’ambiente militare. Ed è proprio
da questi moti che prende origine e comincia ad
affermarsi tra gli Ufficiali una tradizione liberale.
Non pochi di questi Ufficiali erano affiliati alla
Carboneria, che specie nell’Esercito Napoletano aveva
posto salde radici fin dal tempo di Murat. Anche
l’Armata Sarda non era rimasta immune dalle
infiltrazioni carbonare. Parimenti negli Eserciti degli
stati preunitari militavano numerosi Ufficiali della
prima generazione italiana che si era formata nelle
armate napoleoniche e che aveva combattuto in tutti i
campi di battaglia di Europa. I moti del 1820-21
fallirono forse per le divergenze sulle riforme
politiche che si volevano adottare e sui metodi da
usare. Alcuni miravano a trasformare l’intera penisola,
mentre altri si limitavano a modifiche al loro Stato.
Certamente, però ha ragione Santorre quando afferma:
“questa rivoluzione è la prima che si sia fatta in
Italia da molti secoli senza il soccorso e l’intervento
degli stranieri; è la prima che abbia mostrato che due
popoli italiani che dalle due estremità della penisola
rispondono l’uno all’altro. Il suo risultato è stato
quello di asservire completamente l’Italia all’Austria,
lo so troppo bene; ma, si badi bene, l’Italia è
conquistata, non sottomessa”.
Seguirono i moti nell’Italia Centrale del
1831 con il governo delle provincie unite che si
conclusero il 25 marzo con la sconfitta di Rimini.
Menotti fu impiccato il 26 maggio. Il nome di Menotti
divenne sacro per i liberali e carbonari. Ricordate,
Garibaldi chiamò Menotti il suo primogenito.
Nella primavera del 1844 nell’isola di
Corfù alcuni seguaci mazziniani stavano preparando una
spedizione in Italia. Tra di loro Attilio Bandiera
alfiere di Fregata e suo fratello Emilio, cadetto, che
tre anni prima avevano fondato l’Esperia. L’obiettivo
della spedizione era la Calabria, dove il 15 marzo 1844
era divampata una rivolta, finita tragicamente nel
sangue. I fratelli Bandiera volevano riaccendere
l’insurrezione. Sapete che il plotone di esecuzione il
25 luglio, ha stroncato 9 giovani vite ma non ha
soffocato il Chi per la Patria muor vissuto è assai.
Garibaldi chiama Ricciotti, uno dei componenti della
spedizione,il suo quarto figlio
Veniamo ora al 1848. Ricordiamo
l’insurrezione di Venezia (17 marzo) le 5 giornate di
Milano (18-22 marzo), l’insurrezione di Parma e Modena.
In Piemonte regnava Carlo Alberto. Il Re, dichiarata
guerra all’Austria (23 marzo), varcò il Ticino, alla
testa del suo Esercito, L’Armata Sarda, che contava
66.000 uomini e 145 pezzi di artiglieria. I liberali di
Firenze, Roma e Napoli, in fermento, riuscirono ad
imporre ai propri governi d’intervenire nella guerra
contro l’Austria in Lombardia.
Pertanto, verso l’Italia Settentrionale
si stavano dirigendo i contingenti dell’Esercito del
Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio. Il 29
aprile però il Papa Pio IX dichiarò di non voler
combattere una potenza cattolica come l’Austria; il
Comandante Durando, disobbedendo continuò a partecipare
alla Guerra. Il 22 maggio fu Ferdinando II di Borbone,
ripreso il controllo di Napoli a ordinare alle sue
truppe di tornare indietro e in questo caso esse
ubbidirono, tranne 500 uomini che seguirono il
Comandante, il Generale Guglielmo Pepe.
Le operazioni della I guerra
d’indipendenza iniziarono con Goito (8 aprile) e
Pastrengo (30 aprile). A fine maggio Radetzky prese
l’iniziativa, con un movimento aggirante sul Mincio per
tagliare ai piemontesi le vie di ritirata attraverso la
pianura lombarda. Lo contrastò la divisione toscana del
Generale De Laugier alla quale si aggiunse un
battaglione di fanteria napoletano e gruppi di volontari
tra i quali il battaglione degli studenti e dei docenti
dell’Università di Pisa e Siena.
Partecipano alle operazioni circa 200
corpi di volontari. Citerò solo tre di questi:
•
La Divisione Volontari Lombardi che
inizialmente operò sul fianco sinistro dell’Esercito
piemontese, ma che già nel 1849 combatté col grosso
dell’Esercito.
•
Una colonna di 300 volontari lombardi,
comandati da Manara, distintosi nelle cinque giornate
che operò in trentino alla difesa di monte Suello. Su
incarico del governo piemontese, Manara organizzò un
corpo di 700 bersaglieri lombardi che prese parte alla
campagna del 1849.
•
I volontari veneti che furono organizzati
in due corpi da 4.000 uomini ciascuno. Presidiavano
l’Isonzo e il Tagliamento.
Custoza pose fine alle operazioni del
1848. L’Esercito piemontese, ma credo possiamo già dire,
vista l’eterogeneità dei suoi elementi, Esercito
italiano dovette soccombere. Era in crisi di munizioni
(immaginate quanta tipologia di fucili vi fosse), di
viveri e di denaro.
L’anno 1848, pur fra tante delusioni,
segna una grande data nella nostra storia. L’apparente
fallimento servì a chiarire che la dominazione
straniera era ormai incompatibile con la nuova coscienza
italiana. La guerra era perduta ma non erano perse le
ragioni ideali per cui essa era stata dichiarata e
condotta dall’Esercito italiano. Intorno ad esso si
radunava il popolo italiano per iniziare la rivoluzione
che Carducci definì d’Europa.
Le operazioni ripresero il 12 marzo del
1849 per terminare definitivamente il ventitré con la
vittoria austriaca a Novara. Anche Brescia dopo dieci
eroiche giornate deve arrendersi (23 marzo-1 aprile)
Si spensero anche la Repubblica di San
Marco di Manin (22 agosto 1849) e quella della Terza
Roma (30 giugno 1849) del triunvirato Saffi, Armellini e
Mazzini, che avevano avuto una connotazione più
popolare.
L’Esercito della I guerra d’Indipendenza
aveva dimostrato forti limiti nel suo sistema di leva e
reclutamento. Gli effettivi non rispondevano alle
esigenze rivelatesi nel corso del conflitto. Era
necessario razionalizzare il sistema tenendo presente la
mutata esigenza operativa.
Così il 20 marzo 1854 fu promulgata la
nuova legge sulla leva e mobilitazione. Gli aspetti
salienti erano:
·
Il contingente di leva annuale, suddiviso
in prima e seconda categoria. Una legge speciale
pubblicata ogni anno stabiliva l’entità del contingente
necessario all’Esercito, ripartito in 1^ e 2^ categoria
da estrarre a sorte.
·
Soppressione del reclutamento regionale.
E’ vero che il reclutamento regionale garantiva una
rapida mobilitazione, ma faceva diventare i singoli
reparti dei circoli chiusi, allontanandone
l’integrazione nazionale.
·
Rinuncia a una forza armata di seconda
linea. Questa è sostituita dalla Guardia Nazionale
utilizzabile se necessaria per il presidio delle piazze
e il mantenimento dell’ordine interno del paese. Così
nel 1859 la prima linea passò da sessanta a ottanta
battaglioni.
Nel 1855-56 vi fu la spedizione in Crimea
al comando di La Marmora. Tra i Comandanti di Brigata vi
erano i modenesi Fanti e Cialdini, quasi a rappresentare
la partecipazione non del solo Piemonte all’impresa. La
vittoriosa guerra di Crimea è molto importante perché
rafforza la soluzione monarchica incentrata sul
Piemonte. Essa raccoglie tutte le energie patriottiche
anche attraverso La Società Nazionale Italiana, alla
quale aderiscono antichi repubblicani come Manin,
Trivulzio lo stesso Garibaldi. Il Piemonte offriva
all’Europa l’immagine rassicurante di un’antica
dinastia, praticava una politica liberale e possedeva un
Esercito ben organizzato.
Prima dello scoppio della II guerra
d’indipendenza, 1859, tutti i volontari accorsi
dall’Italia furono fatti affluire a Torino ed
autorizzati ad arruolarsi purché fossero scrupolosamente
osservate de disposizioni del regolamento di leva e
l’addestramento fosse affidato a ufficiali piemontesi.
Ancora una volta ci si riferisce all'Armata Sarda ma
essa annoverava tra i suoi organici personale
proveniente da tutta Italia. L’arruolamento dei
volontari era talmente imponente da non passare
inosservato a Vienna che il 19 aprile spedì un ultimatum
per chiedere “la smobilitazione dell’Esercito sardo e il
congedo dei corpi franchi o volontari italiani,
preliminarmente al congresso”.
I volontari arruolati a Torino
nell’Esercito sardo erano 9692. Essi non erano gli
unici. Altri volontari costituirono la Brigata
Cacciatori delle Alpi, comandata da Garibaldi,
inquadrata nell’Armata sarda in aggiunta alle cinque
divisioni regolari. I tre comandanti di Reggimento
Enrico Cosenz, Giacomo Medici e Nicola Arduino,
entrarono poi tutti nell’Esercito Italiano.
Nel 1859 (29 aprile) l’Esercito
piemontese scese in guerra con 2444 Ufficiali, 59417
uomini, 10714 cavalli e muli e 120 pezzi d’artiglieria.
L’Armata Francese (20 maggio) era composta di 107656
uomini, 8708 cavalli e 312 pezzi d’artiglieria. Vi si
opponeva l’Esercito Austriaco che contava 118.204
uomini, 6768 cavalli e 384 pezzi d’artiglieria.
Con questi effettivi vi furono Montebello
(20 maggio), Palestro (30-31 maggio), Magenta (4
giugno), San Martino e Solferino (24 giugno). Al termine
di queste ultime due battaglie, Napoleone III proclama
ai suoi soldati “l’Armata Sarda spiegò ugual valore
contro forze superiori ed è ben degna di marciare al
vostro fianco”. Non ci fermò il nemico ma Napoleone III
preoccupato dalla piega rivoluzionaria presa dalla
guerra, che firmò con Francesco Giuseppe l’Armistizio di
Villafranca (11 luglio). In quella data l’Armata Sarda
aveva in linea 127.201 uomini, duplicandosi grazie
all’apporto dei volontari
Nel 1860 Cavour e Napoleone si
accordarono per la cessione di Nizza e Savoia alla
Francia e l’annessione al Regno di Sardegna dei Ducati
Padani, del Granducato di Toscana e delle Legazioni
Pontificie nelle quali erano instaurati governi
provvisori favorevoli al Piemonte e si era costituito
l’Esercito della Lega, forte, inizialmente, di 25.000
uomini (10.000 toscani, 4.000 modenesi, 4.000 parmensi,
7.000 romagnoli) comandati da Fanti, Si pensi, per un
momento, alla situazione. Il generale Fanti dipendeva
contemporaneamente da tre governi (tre perché erano
stati unificati il Ducato di Parma con quello di Modena
sotto la dittatura di Farini) non sempre concordi tra
loro, con altrettanti ministeri della guerra. Si
consideri l’incertezza della situazione politica e la
qualità delle truppe che dovevano essere riordinate,
completate, fuse moralmente e materialmente in un
tutt’uno saldo ed organico: truppe raccolte e messe
insieme con la massima fretta, senza alcuna consistenza:
miste di vecchio e di nuovo, da una parte volontari e
dall’altra Ufficiali e soldati dei governi caduti. Il
Generale fece un ottimo lavoro e dopo sei mesi
l’Esercito della Lega contava già 50.000 effettivi, che
passarono quindi a far parte dell’Armata sarda.
Il 5 maggio 1860 inizia la spedizione dei
Mille. Erano soprattutto lombardi, ma contavano ventuno
calabresi e quarantacinque siciliani. Garibaldi il 7
settembre entrò in Napoli. Tre giorni dopo l’Armata
sarda, forte di 39.000 uomini al comando di Fanti invase
lo stato pontificio, vinse a Castelfidardo e il 13
ottobre entrò nel Regno delle Due Sicilie,
congiungendosi ai Garibaldini. L’Esercito Meridionale di
Garibaldi, nell’autunno del 1860, aveva raggiunto la
forza ragguardevole di 52.839 effettivi: 45.496 militari
di truppa e 7343 ufficiali. L’Eroe dei due mondi era un
mito, scatenava le ovazioni. Era l’uomo che conquistava
un regno e lo donava al Re, aveva saputo coinvolgere e
trascinare, in nome dell’unità d’Italia, così tanti
meridionali.
Dopo il plebiscito del 21 ottobre e la
dichiarazione del 17 novembre che sancirono l’annessione
al regno delle provincie napoletane e siciliane, si rese
necessario l’amalgama del disciolto Esercito napoletano
con quello sardo. Furono chiamate le classi arruolate
nel 1857, 1858, 1859 e 1860 e dopo un breve periodo di
permanenza al Deposito Generale D’Arruolamento istituito
a Napoli, furono inviati al nord a partire dal 1
febbraio 1861 “per continuare la ferma di servizio
contratta sotto il cessato governo”. A questi
contingenti si unirono gli uomini capitolati a Messina
(12 marzo 1861), i difensori di Civitella di Tronto (20
marzo), i difensori di Gaeta (13 febbraio). Alla fine di
aprile del 1861, sono incorporati nell’armata sarda,
nelle varie specialità di provenienza, 25.887 soldati.
Gli ufficiali borbonici ammessi furono 2191.
Un discorso a parte va fatto per i
volontari dell’Esercito Meridionale di Garibaldi. Erano
elementi assai eterogenei, privi di addestramento e
della disciplina tipica delle forze regolari. A Palermo
aveva combattuto anche una donna Antonia Marinello,
classe 1833, per i colleghi Antonio, sposata e pure
madre. Alla fine della campagna viene premiata con il
grado di caporale e congedata con onore. Morirà in
povertà e di tisi a San Miniato, un paesino del pisano.
I versi scritti dal poeta Francesco Dall’Ongaro ed
incisi sulla lapide recitano “era bionda, era bella, era
piccina / ma avea cor di leone e di soldato”
Vi fu una grande polemica tra Garibaldi
che voleva l’Esercito Meridionale come un corpo d’armata
dell’Esercito italiano e Cavour che ne preferiva
l’integrazione. Vinse la linea di Cavour. Garibaldi
tentò una difesa dei volontari in Parlamento, scagliando
accuse molto pesanti verso Cavour. Il garibaldino
Fabrizi riassume in una lettera “Garibaldi era stato
accolto da ovazioni straordinaria, da quasi tutti i
ranghi della Camera. Però avvenne poco dopo il contrario
per le accuse con le quali colpì direttamente il
Ministero”. “Il Generale non è un uomo da Camera e alla
Camera sarà sempre battuto da Cavour”, aggiunge un altro
fedelissimo Mordini. I volontari non vollero sottostare
alla ferma biennale e se ne tornarono a casa in massa,
rifiutando di scambiare la camicia rossa con la giacca
blu sabauda. Solo nel marzo del 1862 furono ammessi
nell’Esercito italiano 1.997 ufficiali, sessanta
sottufficiali e 76 garibaldini.
Nei primi anni di vita dello Stato
Unitario si disse che l’Esercito era la “Scuola della
Nazione”. Forse l’espressione è eccessiva ma è
certamente vero che l’Esercito aveva posto per la prima
volta a contatto in un’unica grande scuola di
patriottismo e generosità tutti gli italiani di tutte le
classi sociali. Quell’Esercito era “nazionale” a tal
punto da riconoscere che non era più necessaria la
Guardia Nazionale, che fu sciolta. lo statista ed
intellettuale Francesco De Sanctis definisce l’Esercito
il filo di ferro che ha cucito l’Italia e la tiene
unita. Ai militari è affidata la missione “di conservare
vivissimo e, diremo, cementato il nazionale sentimento”.
La nascita dell’Esercito del Regno
d’Italia fu sancita dalla pubblicazione sul Giornale
Militare della nota n. 76 del 4 maggio 1861, con la
quale il Ministro della Guerra, Generale Manfredo Fanti,
sostituiva l’antica denominazione di Armata Sarda con la
definizione di Esercito Italiano.
La nuova compagine nasce dunque sulle
basi delle tradizioni militari delle truppe piemontesi,
protagoniste, con i Volontari, delle guerre del
Risorgimento. Senza rinnegare il passato delle grandi
tradizioni militari dell’Armata Sarda, l’Esercito si
affiancò alle neonate Istituzioni dello Stato e divenne
a poco a poco, l’Esercito degli Italiani.
In breve esso divenne il punto di forza
dell’Unità nazionale, di un Paese non ancora abituato
alla leva obbligatoria e nel quale gran parte delle
reclute non aveva mai avuto l’opportunità di andare
oltre i confini del proprio villaggio.
Con le proprie scuole reggimentali e con
le visite mediche alle quali erano chiamati i giovani
provenienti da tutte le parti d’Italia all’atto
dell’incorporazione, l’Esercito contribuì a sconfiggere
l’analfabetismo e a migliorare le precarie condizioni
sanitarie che affliggevano gran parte della popolazione.
Nel 1860 più del 60% degli italiani era analfabeta e
solo il 2% della popolazione era in grado di usare la
lingua letteraria.
Lo sviluppo delle fabbriche d’armi e
degli arsenali esercitò una notevole e positiva
influenza sull’economia italiana, sia direttamente con
l’impulso dato alla produzione, sia indirettamente
perché contribuì alla creazione di una manodopera
specializzata e al formarsi di una classe di tecnici
quasi inesistente nell’Italia di allora, prevalentemente
agricola.
Il 2 giugno 1861, il generale Fanti, nel
corso di una solenne cerimonia, come primo ministro
della guerra consegnava ai Reggimenti le nuove Bandiere
dell’Italia Unita.
Ricordate? Il Presidente nel suo
discorso aveva aggiunto: “I Militari di oggi hanno
raccolto quell’eredità morale, offrendo in tante
travagliate regioni ed aree di crisi del mondo, la
propria professionalità ed il proprio impegno per la
pacifica cooperazione tra i popoli”. Continuiamo anche
noi per giungere come ha fatto lui ai nostri giorni.
Fatta l’unità d’Italia i problemi non
erano terminati, vi furono poi i difficili anni del
brigantaggio, della campagna d’indipendenza del 1866 e
del ritorno di Roma all’Italia, attraverso le vicende
della breccia di Porta Pia del 1870.
Le campagne coloniali di fine secolo ci
conducono ai primi anni del novecento, con il radicale
ammodernamento delle armi e dei mezzi che sono
utilizzati per la prima volta sul campo nella guerra di
Libia del 1911-12.
La Grande Guerra fu una prova durissima e
vide impegnati centinai di migliaia di soldati in
grigioverde che, in condizioni proibitive, nelle trincee
o sulle montagne, combatterono e vinsero, dopo quasi
quattro anni, il tradizionale nemico di allora, l’impero
austro-ungarico. Si completava la fase risorgimentale.
Alla fine della guerra, nel ventennio
successivo la Forza Armata fu duramente impegnata nella
riconquista della Libia, in Etiopia, in Spagna e in
Albania.
La Seconda Guerra Mondiale, inizialmente
combattuta al di fuori dei confini nazionali, arrivò ben
presto a trasformare anche l’Italia in teatro di guerra.
Con l’armistizio dell’8 settembre del 1943 prese poi
avvio la guerra di liberazione che vide l’Esercito
progressivamente impegnato a fianco degli Alleati sino
alla primavera del 1945, facendo nascere la Repubblica
Italiana.
Gli anni che seguirono, caratterizzati da
un impegnativo processo di ricostruzione e
trasformazione dell’Esercito, videro l’ingresso
dell’Italia nella NATO ed il conseguimento di un ruolo
sempre più importante in seno all’Alleanza.
La situazione politica internazionale
degli anni ’90, con la fine della minaccia sovietica e
la recrudescenza del terrorismo su scala mondiale
provocò radicali mutamenti delle organizzazioni
militari.
La necessità di rispondere ai crescenti
impegni assunti dal Paese in ambiti internazionali portò
l’Esercito Italiano a intensificare la partecipazione
alle operazioni all’estero, in un contesto sempre più
interforze e multinazionale, operando per la tutela
della pace e per il soccorso alle popolazioni martoriate
dalla guerra: in Libano, Mozambico, Somalia, Albania,
Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Iraq e altre parti del
mondo, pagando un pesante tributo di vite umane.
L’esercito oggi non è più impiegato quasi
esclusivamente per la difesa dei confini della Patria.
Organizzazioni internazionali a cui l’Italia con grande
lungimiranza ha aderito ci hanno circondato di amici ed
alleati. Esso è soprattutto uno strumento di politica
estera impiegato per perseguire gli interessi nazionali
al di fuori dei confini della Patria.
Dice Benedetto Croce il risorgimento
italiano fu il capolavoro dello spirito liberale
europeo. Capolavoro però certamente e indiscutibilmente
realizzato e prodotto con il materiale strumento delle
armi. Del resto, ogni opera d’arte, di qualsiasi genere
e natura ha bisogno, per tramutarsi da semplice
concezione e pura essenza in concreta manifestazione,
d’un mezzo strumentale e d’una tecnica particolare che
lo impieghi. Nel nostro caso lo strumento è stato
l’Esercito Italiano.
Gen.
Dv. (aus) Pasquale MARTINELLO |