CALABRIAINARMI  

 " PER LA PATRIA! "

 

   
     

    "I CALABRESI NELLA BATTAGLIA DEL PIAVE "

   

 

 
 

 

 
 

 .. TESTO INTEGRALE DELLA COMMEMORAZIONE DELLA BATTAGLIA FATTA AL CIRCOLO MILITARE DI CATANZARO IL 24 GIUGNO 1923 DAL COLONNELLO SALVATORE PAGANO - CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIVISIONE MILITARE TERRITORIALE DI CATANZARO..

 
     
 

I

  

E’ una gioia per ogni combattente ricordare, le glorie della Patria.

E’ un godimento di tutti i combattenti, credo, rituffarsi in quell’atmosfera eroica, nella quale respirammo, durante la guerra.

Aria di poesia eroica!

Piave!... Nome che sa di poesia e di leggenda, nome che suona al nostro orecchio come canzone di guerra e come canzone di amore. Musica fatta per accompagnare il dolce ricordo di un amore di terra perduta e per seguire, al canto di un inno guerriero, le spoglie dell’Eroe…

Musica del leggendario ed indistinto amore per la patria, alla terra natia, alle sante memorie della stirpe.

Piave!... Questo fiume – gridava il Poeta ai difensori – che è maschio nella tradizione del Veneti, questo fiume è la vena maestra della nostra vita, la vena profonda nel cuore della patria – Se si spezza il cuore si arresta.

E così fu sempre nella storia antica, dei Veneti, che pare leggenda – e così è stato ora nella storia recente, degli Italiani, che pare leggenda.

E’ la vena maestra, perché è anche la via maestra tracciata nella cintura formidabile , che la Natura diè all’Italia: la via d’Alemagna, per la quale in ogni epoca…

 

… la primavera in fior mena tedeschi

    pur come d’use. Fanno pasqua i turchi

    ne le lor tane, e poi calano a valle …

 

Piave, che vide già nel 1508 contro Massimiliano d’Austria imperatore, Venezia sola: Venezia, l’erede di Roma, la Dominante.

E a Podestagno il Provveditore Francesco Zane, lungamente assediato, e a Pieve di Cadore il capitano Alessandro Pèsaro, non piegare il samguigno vessillo di S. Marco; è Bartolomeo d’Alviano e Girolamo Savorgnano, nelle gole di Lorenzago e sui campi di Rusecco biancheggianti di neve, fugare gli Imperiali. Ma anche allora i capitani avevano ammonito prima della battaglia: << Chi non avesse fede nella vittoria e cuore bastevole per vincere o morire, uscisse dalle file>>.

Nelle primavere italiche, nel 1848, fra i giganti delle Dolomiti, le acque di questa vena maestra videro pingersi la bandiera dei tre colori, nella magnificenza del sole: rosse le cime scintillanti, bianche per nevi e mai violate i fianchi a picco, verdi di bosco le cinture delle valli.

E Pietro calvi, tra i rintocchi dei campanili delle pievi, gridare in faccia allo straniero: Questo è il suolo della patria. – E il Pelmo e l’Antelao, i giganti immobili, l’eco ripetere nelle valli: Questo è il suolo della Patria. Da qui non si passa! E alla Madonna di Cornuda i Crociati romani del generale Ferrari combattere e morire.

E’ storia nostra, di ieri, e pare leggenda, la storia scritta dal valore dei padri.

Ma chi può più parlare a voi dell’eroismo antico, o fanti? Potete strappare dalla storia le pagine dei noti esempi e mettervele a fodera dei piedi dentro le scarpe fradice fornite dal frodatore – diceva il Poeta instancabile ai combattimenti. – Quell’eroismo del fante dell’Italia nova è l’eroismo oscuro, lungo, persistente, per giorni e notti. Nel fango, sotto la pioggia, senza pane, nel turbine tremendo della battaglia, che mozza il respiro con l’aria avvelenata; che scianta e lacera con le artiglierie; che fulmina dall’alto con bombe e raffiche come gragnuola; che avvolge e oscura il bel cielo della patria con una nube caliginosa.

E’ l’eroismo muto di nove giorni e nove notti, l’eroismo del fante dell’Italia nova nella battaglia gigantesca del Piave.

  

II

 

 Noi sapevamo che gli Austriaci ci avrebbero attaccati la mattina del 15 giugno. Lo sapevamo da più giorni. La sera del 14, all’imbrunire, due cadetti, presentatisi alle nostre linee, sulla fronte del Grappa, confermarono che l’attacco si sarebbe sferrato violentissimo, alle 3 precise del mattino, che il bombardamento sarebbe durato, con tutte le artiglierie, dall’Astico al mare, quattro ore. Gas asfissianti a profusione!

Poi le fanterie sarebbero venute all’attacco. Forse non avrebbero trovato resistenza. Gli italiani non si sarebbero difesi!... In ogni modo la difesa sarebbe stata inutile. Tutte le forze dell’Imperatore – aveva scritto il colonnello Mittereger – per la prima volta unite contro lo stesso nemico, si sarebbero rovesciate come una valanga  contro di noi, rompendo ogni nostra velleità di difesa, rendendoci vano ogni impiego di riserve; perché l’attacco portato egualmente su tutti i punti dell’immensa fronte avrebbe schiacciato qualsiasi tentativo di manovra o di reazione: 57 Divisioni e mezza di fanteria, ossia 900 battaglioni, con circa 7400 bocche di fuoco di ogni calibro erano schierate e scaglionate contro gli italiani.

E un altro più alto Comandante – plagiando grottescamente un grande capitano – indirizzava un proclama alle sue truppe affamate: Difensori della Patria!... Là, di fronte a voi, sui baluardi nemici, sul ciglio dei boschi, che voi scorgete, vi attende la gloria e l’onore; vi attende un ottimo vitto, un magnifico bottino ed oltre a ciò anche la Pace. Difensori della Patria, fate tutti il vostro dovere, non risparmiate il nemico maledetto… Così il Maresciallo Soreticic – Comandante della 42a Divisione sull’Altipiano di Asiago.

Nella quiete notte di giugno, nell’immenso campo di battaglia – eccezionalmente silenzioso – nessuno dormì. Faceva gli ultimi preparativi il nemico. Attendevamo noi; il fante alla trincea, l’artigliere al cannone. L’ansia tratteneva il respiro. Avevamo schierate 55 Divisioni, 670 battaglioni, 7500 bocche da fuoco. Inferiori di numero, ma ben più forti nello spirito e nella decisione ferrea di resistere … Il nemico non lo sapeva, non lo credeva.

    

** *

 In quel periodo di preparazione intensa di forze che sta, nella storia della nostra guerra, tra la parentesi tragica di Caporetto e la battaglia del Piave, il nostro Esercito si forgiò una nuova anima, subì una trasformazione morale, della quale lungo sarebbe indagare e analizzare le cause.

Nessuna trasformazione organica, salvo la costituzione dei reparti di assalto, già iniziata per le piccole unità nell’ottobre ’17, e intensificata e condotta a perfezionamento, con la formazione di grandi unità, riunite in un Corpo d’Armata d’assalto.

Ma si ordinò l’osservanza dei cannoni fondamentali di organica, trascurati precedentemente: la stabilità delle formazioni, principale quella della Divisione; la permanenza del soldato nel suo piccolo reparto, a contatto con i compagni, a contatto col superiore immediato.

Chi ebbe il maneggio di quel delicato strumento che è l’anima del fante, capì finalmente che le anime non sono numeri o pezzi di ricambio o proiettili, soggette ad essere permutate a serie, a centinaia, spostate da un luogo all’altro, da un reparto all’altro, indifferentemente.

E questo mutamento nella concezione del valore umano e nell’impiego e trattamento degli uomini, costituì la piattaforma e il caposaldo del rinnovamento spirituale dell’Esercito dopo Caporetto.

Un’aura nuova spirava dal paese. Gli effetti morali della sconfitta, fatti palesi ed evidenti, e forse esagerati, dai profughi delle provincie invase, sparsi per i borghi e le città della penisola, con le loro miserie e le lamentele, avevano messo la spensieratezza italiana di due anni di guerra vittoriosa, di fronte alla dura realtà. Avevano fatto tacere le voci discordi, avevano preparati gli animi ad intendere la voce ammonitrice del Re:<<Cittadini e soldati, siate un Esercito solo!>>

Un complesso di provvidenze, veramente benefiche, operarono nel campo spirituale a suscitare, a tenere deste, ad esaltare quelle forze morali, senza le quali non si vincono le battaglie.

I diciannovenni giovinetti del ’99 portarono nelle file dei vecchi combattenti la lieta giovinezza spensierata, pronta allo sbaraglio ed alla morte. Accorciati i turni snervanti di trincea, dati premi in danaro e in oggetti, dal Governo e dal Pese concordi; dimostrata con giornali, con opuscoli, con manifesti, con la parola calda di patriottismo, la necessità della resistenza per la salvezza della Patria e di tutto il nostro patrimonio morale e materiale, l’Italia si trovò nella nuova primavera con un magnifico strumento di guerra, col suo esercito rinnovellato nell’anima, attorno al quale spirava l’aria ardente di fede di tutto il Popolo; un Esercito giovane, deciso a morire sui monti e sul fiume sacro, ma non ad arretrare di un passo.

Nei paesi del nemico invece dominava un senso di scoramento, fatto di stanchezza, per la lunga guerra, per le forti privazioni materiali, cui le popolazioni erano obbligate dal ferreo cerchio che le assediava. L’Esercito, esaltato dagli insperati allori raccolti nelle fortunate giornate di ottobre, che lo avevano condotto nelle ubertose e ricche pianure del Friuli e del Veneto, anelava a rompere il cerchio e a dilagare ancora, di qua dal fiume, a scendere dal Grappa e dall’Altipiano, per rifornirsi di vesti, per satollarsi, per godere. E’ Annibale, è il  barbaro, sempre, che si affaccia sui monti della Patria. Ma il miraggio del bottino non basta, oggi, per vincere. La vittoria della civiltà dei nostri tempi, ha per meta ben più alti ideali!

La grandiosa operazione offensiva, preparata e studiata con tanta minuzia di particolari, da costituire un modello magistrale di quel paziente lavorio di analisi, del quale la mente tedesca è capace, quantunque messa sotto l’egida del nome di radetsky, - l’implacabile nemico degli Italiani – ha – nell’assenza dell’idea motrice – del motivo ideale – il germe dell’insuccesso.

Le guerre e le battaglie si vincono in quanto i principi, per i quali un popolo combatte sono informati a quegli ideali di Giustizia e di Libertà, che da secoli tracciano il cammino della civiltà del mondo.

 

 III

  

Nel quadro della guerra italiana, l’offensiva austriaca del giugno 1918, rappresenta il terzo ed ultimo tentativo per annientarci: tutti e tre, informati, dalla mentalità dei Condottieri austriaci, all’idea di punire la fedifraga Italia; tutti e tre alimentati nella massa dei combattenti, specie slavi e croati, dall’odio di razza, dall’istinto di ribellione di un popolo di bassa levatura intellettuale, privo o quasi di memorie, di storia, di civiltà.

Il primo tentativo fu fatto, nel maggio 1916, divisando di ascendere dall’Altipiano di Asiago nella pianura di Vicenza. Era l’operazione classica, cara al cuore del Maresciallo Konrad, che le aveva dedicata tutta la sua attività di Capo di S.M. in pace e in guerra, accarezzando il disegno come un sogno.   

Il secondo tentativo fu quello dell’ottobre 1917, rompendo dalla fronte giulia. Konrad, relegato al comando di truppe nel Trentino, era stato scartato dall’operazione. Non era contemplato che l’attacco dovesse muovere anche dai monti. Errore che fu un po’ la nostra salvezza. E invano, nel novembre e dicembre 1917, egli tentò di sboccare in piano. La battaglia del giugno 1918 rappresenta il terzo tentativo: come tale, per l’accorciata fronte, per le forze disponibili, esso contempla, nel campo strategico, i due attacchi contemporaneamente.

Dai monti, tra l’Altipiano di Asiago e il Grappa, a cavallo del Brenta, e dalla pianura, attraversando il Piave; per cadere nella pianura vicentina, avvolgere il Montello, impadronirsi di Treviso, far capitolare Venezia.

  

** *

 

 Il disegno è grandioso: nella prima giornata tutti gli obiettivi devono essere raggiunti.

Tutte le forze austriache erano raggruppate in due masse principali:

-  il gruppo di armate agli ordini del Maresciallo Konrad, forte di ben 23 divisioni, con un’assoluta preponderanza di forze, doveva vibrare il colpo decisivo: sfondare con 10 divisioni le nostre linee sull’Altipiano di Asiago, tra la Val Frenzela e la Val d’Assa e allargandosi a ventaglio con le altre divisioni, raggiungere i margini dell’altipiano, i contrafforti del Grappa e scendere in pianura.

-  un altro gruppo di armate, agli ordini del maresciallo Boroevic, doveva forzare il Piave, con due masse secondarie: una di urto e di manovra, doveva passare alle grave Papadopoli e puntare su Treviso; l’altra di 12 divisioni, tra Candelù e il mare, mirare a Treviso e a Venezia.

Fra queste due masse, una terza, la 6a Armata, forte di 9 divisioni, agli ordini dell’arciduca Giuseppe, doveva servire di collegamento, e avvolgere il Montello.

In riserva, nel Trentino e nella pianura friulana, altre forze.

A fronteggiare e a contenere il poderoso urto avversario stavano: la nostra 6a Armata, l’Armata degli altipiani al comando del Generale Montuori, della quale facevano parte 3 divisioni inglesi e 2 francesi; la ferrea 4a Armata, l’Armata del Grappa, al comando del generale Giardino; l’8a Armata, del Montello, al comando del Generale Pennella; la invitta 3a Armata, l’Armata del Carso e del Piave, al comando di S.A.R. il Duca d’Aosta.

Agli sbocchi presumibili dell’invasione nemica, a immediato impiego, riserve parziali. Quasi al centro del grande arco difensivo la massa della riserva generale e i virtuosi del coraggio, dell’audacia, dell’impeto: il corpo d’armata d’assalto e il corpo di cavalleria.

E’ – smisuratamente ingrandito – questo schieramento di forze, lo schieramento classico dell’immortale legione romana, basato sui principi immutabili della guerra: nella prima schiera i veliti e gli astali, i giovani per ingaggiare la lotta e provare l’avversario; nella seconda i principi, quelli che sanno già l’arte della pugna , pronti ad entrare tra le file e colmare i i vuoti, ad assaltare; nella terza schiera – il ridotto della fortezza – i triari, i più forti, pronti al sacrificio, per l’ultima salvezza.

E’, in questo schieramento, e nelle predisposizioni che lo integrano e lo completano; nella composizione delle riserve; nei mezzi di rapido spostamento, un’intuizione geniale dello svolgersi della grandiosa lotta: sicchè ogni elemento, e grande e piccolo, sta al suo posto e il suo capo prevede, sa quale sarà il suo impiego.

Saranno gli artiglieri, che sono attorno ai pezzi, che il primo colpo di cannone è il segnale per rovesciare immediatamente contro le batterie nemiche una tempesta di proiettili: tiro di contropreparazione.

Sanno i fanti, che sono nelle prime trincee, che essi devono lanciarsi al collo del nemico, che attacca, e aggredirlo e fermarlo; sanno le piccole riserve c’esse devono muovere compatte là dove, malgrado tutto, il nemico è riuscito a rompere una maglia ed a  penetrare nella rete della difesa, e attanagliarlo, circondarlo, ricacciarlo o annientarlo. Sanno le direzioni per le quali muovere, nelle vie aperte e soleggiate, le grosse riserve  arretrate, accanto alle autocolonne pronte col motore caldo. E aviatori si innalzano, volano, tornano; chi per vedere, chi per bombardare, chi per distruggere nell’alto. Passano fra il cielo e la terra, a ondate, misteriose parole, che qualcuno conosce, raccoglie e trasmette; brillano, nel loro linguaggio di lampi e di luci, le stazioni ottiche; passa sui fili sotto terra e attraverso la terra la parola d’ordine, la parola sacra del comandanti.

La battaglia come è preparata, così si svolgerà. Nel tumulto, nel disordine dell’immenso campo della guerra, vi è un ordine che domina gli avvenimenti, li raddrizza, li volge al suo scopo. Una corrente spirituale affascia tutti i combattenti; un sentimento unico, solo, vibra in tutte le anime, dei capi, dei gregari: resistere e vincere per la salvezza della Patria. In questa armonia di idee, di sentimenti, di sforzi, che è disciplina, raggiunta in milioni di uomini, sta l’arte divina della guerra.

 

 V

 

 Dicono i critici, oggi: L’Austriaco ha sbagliato pronunziando il suo attacco da due direzioni diverse, con due masse egualmente forti. I due attacchi, per quanto concentrici, si svolgevano in un ampio cerchio di 130 chilometri di fronte: dovevano quindi, di necessità, riuscire deboli dappertutto.

Non sembra che i critici abbiano molta ragione. Sull’Altipiano di Asiago, le fronte di attacco, per le caratteristiche del terreno, fra due profondissime, dirupate ed intransitabili valli, l’Assa e la V. Frenzela) si riduceva a poco più di dieci chilometri. E’ il terreno reso sacro dai nostri reggimenti: il Lemerle, il Magnaboschi, il Valbella, il Sisemo! Su questa stretta diga dovevano passare prima 10, poi altre 13 divisioni. Quale mai potenza di sforzi poteva essere concentrata in più breve spazio? E sul Grappa la direttrice di attacco di ben quattro divisioni scelte, era la stretta dorsale che scende immediatamente ad est del Brenta, da col del Miglio, col Moschin, Fagheron, Fenilon, Osteria del Campo.

E sul Piave lo sforzo era concentrato in tre brevi tratti – al Montello, alle grave Papdopoli e tra il ponte di Piave e S. Donà di Piave.

Non dunque ai difetti di concezione è dovuto il fallimento dell’offensiva austriaca – e neppure alla preparazione e alle disposizioni per l’attuazione. Preparazione, come ho detto, minuziosissima, con studio dei più insignificanti particolari, che andavano dall’organizzazione del tiro di accompagnamento, regolato, non ad orario, come avevano insegnato i tedeschi ed i francesi, ma sull’effettiva avanzata delle fanterie, all’impiego dei plotoni di requisizione e alla regolamentazione del saccheggio, con le prescrizioni di impinzarsi ma non sprecare, di non sparare sulle botti di vino dopo aver estinta la sete, non sventrare i sacchi di farina o di riso…

 

 VI

 

 

La battaglia, iniziata alle ore 3 del 15 giugno col duello delle artiglierie, tra le 7 e le 8.30, si sviluppava con i primi assalti delle fanterie. Era già consacrato dalle ripetute esperienze precedenti che i primi successi sono, qualunque sia la forza e l’animo del difensore, per chi attacca.

Si era già ricorso, anche da noi, al sistema di alleggerire le prime linee, nell’imminenza della battaglia, per non condannare le fanterie più avanzate, a sicura distruzione sotto il bombardamento.

Il Generale Gouraut, in Champagne, doveva addirittura sgombrare per una profondità di due  chilometri, la zona di occupazione e di combattimento, attirando i tedeschi in una trappola.

Gli austriaci ottennero i primi successi.

Sull’Altipiano di Asiago, ad occidente, stavano gli inglesi tra Roncalto e S. Sisto. Quattro divisioni austriache penetrarono nelle trincee britanniche e cercarono di dilagare verso il bosco di Cesuna; ma contrattaccati dagli inglesi stessi, col concorso verso sinistra della nostra brigata Casale, furono contenuti e poscia ricacciati.

Nel centro, tenuto dai francesi, le trincee del saliente di capitello Pennar, all’atto del bombardamento, conforme la tattica adottata, vennero sgombrate. Gli Austriaci vi penetrarono, ma vi restarono ingabbiati.

Più ad oriente, su cima Echar, a Valbella, a Col del Rosso, le linee tenute dalle nostre brigate Pinerolo e Padova furono perdute e riprese nei giorni seguenti.

Sul Grappa gli Austriaci si proponevano di aggirare il massiccio principale, con quattro divisioni scelte tra Val Brenta e Col della Beretta e altre quattro divisioni al saliente del Solarolo. La colonna di destra riuscì a rompere le nostre difese a Col del Miglio, impadronirsi di Col Moschin e scendere al Fenilon, quasi aggirando le difese della Val Brenta. Ma veniva arrestata e poi attaccata e ricacciata dal valoroso IX° battaglione d’assalto. Altra colonna puntava in val S. Lorenzo, ma veniva contenuta dall’eroica fermezza del 60° Fanteria (brigata Calabria) comandato dal catanzarese colonnello Gaetano Franco. Franco resistette lassù, quasi accerchiato, tre giorni, non chiedendo altro che cartucce, mentre più ad oriente, su monte Coston il colonnello Luigi Ganini da Jatrinoli, Comandnate la 239a contrattaccava; e Achille Martelli da Filadelfia, medaglia d’oro, ferito e mutilato, eseguiva audacissime ricognizioni nelle zone invase dal nemico.

Così anche al saliente del Solarolo le nostre truppe riuscivano con eroica fermezza, ad arrestare gli assalitori. La battaglia sui monti è spezzata, quasi infranta miseramente, fin dal 1° giorno.

Nei giorni successivi se ne ha da noi la sensazione precisa, sicchè i brevi, sebbene violenti combattimenti, che si impegnano, sono la conseguenza di tentativi disperati del nemico e dello spirito aggressivo delle nostre fanterie che vogliono riprendere i lembi di terreno perduto.

Sull’Altipiano di Asiago, il nicastrese tenente Pinna Lorenzo, volontario, con un pugno di uomini, parte alla riconquista del ridottino di Pizzo Razea, lo strappa al nemico il giorno 17 e lo mantiene contro i nuovi attacchi. La vittoria sugli Altipiani è la vittoria, essenzialmente, dell’artiglieria. Il paziente lavoro di ricognizione, nei mesi precedenti la battaglia, ci aveva dato la esatta indicazione delle postazioni delle artiglierie, dei ricoveri, dei posti di comanda, degli osservatori, della zona raccolta delle fanterie del nemico.

Il tiro di contropreparazione, iniziato immediatamente, al tiro austriaco, da tutte le nostre batterie, con una ripartizione di compiti e una scelta di mezzi, così estta e precisa, fu tale e riuscì così inaspettata da disorientare subito le artiglierie avversarie, il cui tiro risentì gli effetti dello sconvolgimento e diventò disordinato e poco eficace, accecò gli osservatori, interruppe le comunicazioni, fece saltare i comandi, paralizzò nei luoghi stessi di radunata le fanterie che dovevano muovere all’attacco. Fu tale insomma da far credere agli austriaci che non essi, ma noi volessimo dare battaglia.

  

VII

  

Non poco merito di tale successo spetta al Comandante dell’artiglieria della 6a Armata. Artigliere di razza, di quella buona razza italiana che aveva dato, nel campo della scienza, delle invenzioni, delle costruzioni e della tattica, Nicolò Tartaglia, Cavalli, Siacci e i Mezzacapo – questo nostro generale artigliere si impose, per la dottrina dell’impiego dell’arma potente, ai Comandanti e agli ufficiali artiglieri francesi ed inglesi che erano inquadrati nella 6a Armata. E non era facile cosa, specie sui francesi, che già prima della guerra, per l’adozione del materiale a deformazione e la tattica, avevano fatto scuola in Europa ed avevano avuto l’orgoglio di vedersi imitati dagli stessi tedeschi, che erano all’apogeo della scienza e dell’arte militare.

Questo nostro Generale artigliere aveva già attuate manovre, con spostamenti rapidi di forti masse di batterie, sulla fronte della terza Armata, aveva dettati e consigliati sistemi pratici di tiro, così da passare dall’empirismo caratteristico delle batterie affidate quasi esclusivamente a capitani e tenenti di complemento, studenti, avvocati, magistrati, dal tiro empirico e facilone che sprecava i proiettili, al tiro classico, matematicamente esatto che manda i proiettili al bersaglio. Aveva date quelle norme d’impiego di masse di artiglierie, che oggi costituiscono in gran parte i nostri testi di esperienza, la nostra dottrina tattica.

Questo nostro Generale artigliere è Roberto Segre. Io ne ricordo il nome; perché, se nelle tristi vicende della nostra vita pubblica, dell’immediato dopo guerra, si fosse ricordato il valore dell’uomo e il fatto che egli era stato, senza forse, il primo vincitore della battaglia di artiglieria sugli altipiani, certo non si sarebbe coinvolto il suo nome nelle spire di un processo penoso. Ma il Generale Segre, in missione a Vienna, sfamando le povere donne e i bambini del nemico, dando largo esempio di quella generosità, verso l’antico nemico, tutta italiana, non tenne presente, forse, che è assai più facile regalare a profusione proiettili e bombe alle truppe austriache che non pace ai bimbi di Vienna affamata.

E accanto al nome del Generale Segre potrei collocarne moltissimi altri di artiglieri valorosissimi. Ne ricordo uno, che è nostro, ed è legato ad un episodio interessantissimo di quella lotta di artiglierie sulla fronte montana. Il colonnello Alessandro Del Pozzo da Mammola, che stette sei mesi sulle prime linee, tra una baracca ed una caverna osservatorio, a Col d’Astiago, comandante di un raggruppamento di calibri pesanti. Egli nella giornata del 15, come sempre al suo osservatorio, vide che gli austriaci dal Col Moschin scendeva in piano. In altri punti erano meglio contenuti. Non esitò. Disse al suo Generale: tutte le artiglierie del XX° Corpo devono tirare sul Grappa. E tutte le artiglierie del XX° e altre della 6a Armata, attuando una di quelle manovre di fuoco, che la lunghissima gittata può permettere, rivolsero in pochi minuti, il loro immane ed infuocato fascio di traiettorie, attraverso la Val Brenta, in soccorso della 4a Armata.

Gli effetti furono terribilmente disastrosi per gli austriaci. Il terreno tra il Col Moschin, Col del Miglio e Col della Beretta, sembrò un vulcano, con mille bocche in eruzione.

Le divisione austriache, già duramente colpite dalle artiglierie dell’Armata del Grappa, non passarono più. Chi ebbe quella iniziativa soffrì sembra l’immediata accusa di avere abbandonato col tiro le proprie fanterie, ma le notizie dei giorni successivi alla battaglia confermarono la efficacia e la giustezza di quella iniziativa. Il colonnello Del Pozzo dopo la battaglia di giugno ebbe la medaglia di argento al valor militare.

  

VIII

 

 Se la battaglia sui monti apparve quasi vinta fin dai primi giorni, non così avvenne lungo il Piave, dal Montello al mare.

Durante l’immane bombardamento delle artiglierie, gli austriaci, protetti da una fitta nebbia artificiale, gettando ponti e passerelle in gran numero, varcarono il largo letto del fiume in moltissimi punti.

Sul Montello una divisione passata nelle vicinanze di C. Serena si impadroniva di quel ridotto e della linea di cresta di C. Marseille. I difensori aggirati si difesero aspramente. Era tra i difensori, il prode Generale Carlo Garcea di Catanzaro, comandante della brigata Campania. Altre due divisioni sbarcate verso il saliente si impadronirono di Nervesa e tentarono di raggiungere verso sud la strada della Priula. Ma la nostra 48a Divisione oppose loro una eroica resistenza. Contrattaccati sui fianchi dai rincalzi dovettero arrestarsi; in quei frangenti artiglieri, lasciati i pezzi inutilizzabili, combatterono col moschetto accanto alle loro batterie, zappatori del genio, telefonisti, portaferiti concorsero nella lotta. A sera il secondo squadrone Firenze con auto mitragliatrici caricò e ritolse Nervesa al nemico. Nel giorno successivo, l’arciduca Giuseppe  gettava sul Montello altre cinque divisioni della sua Armata; ma se riuscì a mantenere le posizioni raggiunte, non riuscì a progredire. Contrattaccato dalla nostra 50a Divisione, dai sardi della brigata <<Reggio>>, dai siciliani della brigata <<Aosta>>, dai calabresi della brigata <<Udine>> e da altre truppe, dovette arrestarsi. I nostri combatterono con accanimento. Ricordo il 96° Franteria (brigata Udine) che ebbe per culla il deposito di Catanzaro, figliuolo di quel 48°, che fu tra i valorosi reggimenti calabresi il valorosissimo.

Il Comando del 96° circondato improvvisamente da un nugolo di nemici in una specie di buca carsica sulla dorsale del Montello, raduna i suoi pochi uomini: scrivani, telefonisti, attendenti, e il colonnello alla testa, il colonnello Carlo Dagnino, che fu qui Comandante del nostro Distretto, si precipita sugli assalitori, sgominandoli colla audacia più che colla forza.

I semplici fanti si improvvisano comandanti, come quel soldato Musolino Domenico da Montebello Jonico, che con un gruppo di compagni irrompe fra i nemici e riconquista una batteria; come quel caporale di maggiorità Barone Vincenzo da Gerace, che messo alla testa di un plotone senza ufficiali, con grande perizia e valore lo condusse all’assalto (1).

  

** *

 Analoghi avvenimenti si svolgono sulla fronte della 3a Armata lungo il Piave. Gli austriaci passano il fiume e si addensano specialmente nelle zone di Fagarè e di Musile, in corrispondenza delle strade di Treviso e di Mestre.

I nostri reagiscono con contrattacchi immediati. Una colonna nemica, dilagata verso nord ed entrata in Salettuol, è attaccata dalla fanteria della nostra 31a Divisione, aggirata velocemente, costretta contro il fiume, bersagliata dal tiro di artiglieria, obbligata ad arrendersi interamente: prigionieri il Comandante della colonna, 15 ufficiali, 900 uomini.

A sbarramento della strada di Treviso, era la 45a Divisione e tra le fanterie di questa Divisione la brigata Cosenza (243° - 244°). Sta la Cosenza per tre giorni continui nell’infernale battaglia, mirabile di tenacia e di valore, con i nuclei dei suoi uomini sparsi e annidati a gruppi fra le trincee ed i camminamenti sconnessi: ogni avanzo di parapetto è un formidabile baluardo, ogni proiettile lanciato da mani ferme colpisce giusto. Essi resero cari e tramandarono alla storia i nomi di La Fossa, Cascina Ninni, C. del Bosco, Collaltella, dove resistettero e molti morirono. Il soldato Mari Giuseppe

 

(1)    Motivazioni delle medaglie d’argento al valore loro concesse.

Le Bandiere dei reggimenti della brigata Udine ebbero la medaglia d’argento al valore. La Brigata fu citata ad onore nel Bollettino del Comando Supremo del 18 giugno.

 

di Sorianello, del 244° fanteria <<durante un contrattacco nemico in forze resisteva eroicamente sul posto con pochi compagni, riuscendo a mettere in fuga un plotone austriaco e a catturargli una ventina di prigionieri (La Fossa – Piave, 15 16 giugno 1918) – medaglia di argento).    

E il sergente maggiore Perrone Vincenzo di Mormanno, del battaglione complementare della Brigata, radunava i ciclisti e i porta ordini del battaglione e li conduceva all’attacco. Ritto fra i suoi soldati ricacciava a colpi di pistola il nemico che avanzava con lanciafiamme. Radunava soldati dispersi e li lanciava all’attacco (motivazione della medaglia d’argento).

Là, fra i ruderi delle case, bersaglio delle artiglierie, sorse e si affermò il motto: Cosenza non cede! il motto della Brigata, che ebbe per il suo valore fregiate le sue due fiammanti bandiere della medaglia di argento con questa motivazione:<<Per l’ardore e la tenacia mostrati in tre giorni di violentissima battaglia, sbarrando il passo al soverchiante nemico, per l’impetuoso slancio onde sul campo insanguinato della lotta ancora una volta rifulse, con la radiosa vittoria, il rude valore dei forti fanti di Calabria>> (Piave, 15 – 17 giugno 1918).

Ma procediamo innanzi che altri contadini di Calabria e altri ufficiali calabresi troveremo alla loro testa.

A Salgareda era la Brigata Jonio (221° - 222°). Resiste, la fiera brigata il primo giorno, schierata dietro Meolo, e il giorno successivo contrattacca il nemico all’argine di San Marco, a Villa Premuda, a Fossalta, a C. Gradenigo. La lotta violentissima spezza la compagine della Brigata, che pur continua a combattere e lascia sul terreno in due giorni di lotta 1980 soldati e 49 ufficiali. Tra cui il colonnello Poncini del 221°, colpito a tradimento da un pugno di nemici che fingono di arrendersi, mentre egli con un  reparto di soldati riconquistava una nostra batteria. Lo sostituì nel comando una nostra cara conoscenza, il colonnello Alberto Vercillo. E anche le sue bandiere sono decorate della medaglia di bronzo al valore:<<nel giugno 1918 sul Piave riconfermarono le forti virtù guerresche dei loro fanti, strenuamente difendendo contro il poderoso urto nemico, le posizioni loro affidate>>.

Più vasta e profonda breccia avevano aperto gli austriaci di fronte a S. Donà di Piave. Da dove cercarono ancora con nuove forti colonne di collegarsi con le truppe passate a ponte piave, ma trovarono una fierissima resistenza nella nostra 25a Divisione – brigate <<Ferrara>> e <<Avellino>> - le due valorosissime brigate del Carso e di Monte Santo.    

Nelle trincee di Zenson e di Lampol rifulge il valore del vecchio reggimento calabrese, che attaccato di fronte e sui fianchi, aggirato, circondato, si batte nei fossi, nei camminamenti, con un accanimento tale da fiaccare l’impeto delle ingenti forze, con le quali gli austriaci alimentavano incessantemente la lotta!

E i Calabresi hanno la fiera soddisfazione di vedere la bandiera del 48° fregiata della medaglia d’oro: <<nell’offensiva austriaca del giugno 1918 (dice la motivazione), sul Piave, esempio inarrivabile di valore e di spirito di sacrificio, dopo avere infranto il formidabile urto nemico a C. Cappellini ed a C. Gasparinetti, riconquistando l’argine di S.Marco, opponeva eroicamente, pur con forze assottigliate dalla lotta lunga e sanguinosa, la sua ultima e decisiva resistenza, a San Pietro Novello, sicuro che la vittoria e la salvezza dell’onore d’Italia riposavano nel suo sacrificio. Il I° battaglione circondato nell’ansa di Lampol, dopo aver seminato con poche eroiche mitragliatrici superstiti, per tre giorni, la strage nelle schiere nemiche, si apriva leonicamente un varco>>.

L’episodio magnifico del I° battaglione meriterebbe una ampia narrazione, ma io – (che ne ho la documentazione datami da un giovanissimo ufficiale che fu uno degli animatori della lotta) – non posso farlo. Lasciate però che nominando il sottotenente Pietro Corrado da Dasà, allora diciannovenne, da un mese e mezzo in trincea – il quale rimasto isolato colla compagnia, per la morte del capitano – fu  il piccolo  duce  della  sua invitta schiera; che veduti  nel

primo giorno avanzare gli austriaci dal fiume si lanciò, fuori dalla trincea, alla baionetta; che nel giorno seguente vedute invase le proprie posizioni da altri austriaci, ne uscì e in una corsa pazza, seguito dai pochi superstiti, allo scoperto, sull’argine di San Marco, li tagliò dal fiume, li sbalordì con la sua audacia, li catturò – lasciate che io renda omaggio a tutti i giovani ufficiali di complemento che la borghesia italiana mise alla testa dei nostri contadini fanti – mirabili di fede, di ardore, di coraggio. Essi furono fra i principali vincitori della guerra (1)

La lotta è asprissima, per tre giorni, sul Piave – con perdite gravi. E la misura è data dalle perdite del 48° Reggimento – 41 ufficiali, fra i quali il colonnello, e 1300 soldati – ma, dappertutto, il nemico è contenuto; dappertutto, malgrado le nuove Divisioni gettate nella fornace della battaglia, egli non riesce a spuntare. Tutte le armi si sacrificano assieme ai fanti: gli aviatori bombardano i ponti e le passerelle sul fiume, (Baracca cadeva il 19 sul Montello col suo velivolo in fiamme); gli artiglieri con i tiri precisi interrompendo continuamente i numerosi passaggi (più di 80 ponti e passerelle erano stati gettati dalle grave Papadopoli a S. Donà di Piave); gli squadroni del Piemonte Reale, del Milano, del Vittorio Emanuele, intervenendo audacemente e caricando il nemico avanzatosi a Monastier di Treviso.

 

(1)    Il sottotenente corrado ebbe la medaglia di argento sul campo, datagli da S.A.R. il Duca di Aosta.

 

IX

  

Il 19 la prima fase della lotta, sostenuta quasi esclusivamente dalle truppe delle prime schiere, volge tutta a nostro vantaggio. Gli austriaci non passeranno più!

Addossati al fiume con grosse forze in zone ristrette, bersagliati dalla nostra e dalla loro artiglieria (il loro sbarramento mobile è stato un disastro!), col fiume improvvisamente gonfio per piogge cadute in montagna, che travolge ponti e passerelle ed uomini e materiali, senza rifornimenti di viveri e di munizioni, essi non pensano che a mantenere le teste di ponte che erano riusciti ad occupare.

Vana speranza! Noi avevamo le nostre riserve quasi intatte. Infranta sui monti la minaccia più pericolosa e acquistata la certezza che di là, le piccole azioni impegnate, non avrebbero potuto esercitare alcuna influenza nel complesso della battaglia, il Comando Supremo getta verso il Piave le sue riserve, in una manovra controffensiva, intesa a ricacciare interamente il nemico oltre il fiume.

Il saliente del Montello è il più pericoloso.

 Divisione, viene avviato, all’8a Armata, in quella direzione. Il 19 mattina, la truppa sbarcata dagli autocarri, raccolta nella piana, attende. Il Generale Vaccari tiene il suo breve rapporto sotto il tiro del cannone. Gli ufficiali siano avanti la truppa. Egli ne aveva dato l’esempio a Castavegnizza, tra i fanti della <<Barletta>>.

Tutti in prima linea e all’attacco!

La lotta, ingaggiata tra C: Serena e Nervesa, attanaglia il nemico inesorabilmente, contro il fiume, in un cerchio di fuoco e lo immobilizza.

Tutti in prima linea!

E in primissima linea, sul dorso del Montello, è colpito da palla di fucile e cade il colonnello Alessandro Platone, capo di S.M. della 60a Divisione.

La battaglia infuria non solo sul Montello, ma lungo tutto il fiume, nei giorni 20,21 e 22. L’equilibrio è decisamente rotto a nostro favore. La pressione delle nostre fanterie continua formidabile, inesorabile, come il destino. Alla 33a  Divisione, che il generale Sanna impiega con i suoi irresistibili sardi della brigata Sassari al posto dove aveva resistito la brigata Ferrara, alla 1Divisione di assalto, che si incunea e penetra come un ferro rovente nelle vive carni dell’occupazione austriaca di Zenson e di Fossalta, si aggiungono sulla strada di Treviso, la 37a Divisione e infine la nostra 22a Divisione (la Divisione di Catanzaro), che con le sue intatte brigate, Firenze e Roma, dà, col nome di Roma, il colpo finale alla tracotanza austriaca.

 

X

 

Una parentesi breve.

Quattro brigate calabresi noi abbiamo vedute nella battaglia, tutte al posto di onore, in prima schiera. La Udine sul Montello, la Cosenza a sbarramento della strada di Treviso, la Jonio a Salgareda in collegamento, la Ferrara a sbarramento della strada di Venezia a S. Donà di Piave.

Ne mancano due, fra le valorosissime.

La Catanzaro, onusta di gloria per aver seminato di morti il Carso e l’Altipiano di Asiago, è questa volta in un settore, dove la lotta è meno aspra. Con la 1a Armata, di fronte allo sbocco dell’ Astico. E’ al posto pericoloso, su una delle vie di invasione, che il nemico non tenterà.

La Brescia è in Francia. E attende la sua ora, l’attende sulle alture di Bligny, dove esattamente un mese più tardi, alla mezzanotte del 14 luglio, i tedeschi – come gli austriaci – faranno il loro ultimo sforzo. La Brigata esce da quella immane lotta di 24 ore, con le lacere bandiere tenute da poche dozzine di uomini. Ha, in una fierissima pugna, nelle identiche condizioni delle altre brigate sul Piave, lasciato nella valle dell’Ardre 110 ufficiali, circa 3800 uomini. A simbolo di quella meravigliosa resistenza, che frena e spezza il poderoso attacco tedesco, a imperituro onore della gente di Calabria, parlano le altre due medaglie di argento assegnate ai reggimenti. (1)

  

(1)    Dalla motivazione:<<tenne alto, sul fronte francese, l’onore delle armi d’Italia. In lotte aspre e violenti, con largo tributo di sangue, oppose incrollabile resistenza ai furiosi attacchi avversari, accompagnate da venefiche insidie>>.

 

XI

 

La battaglia del Piave è vinta!

Il bollettino del Comando Supremo poteva la sera del 28 giugno annunziare <<dal Montello al mare il nemico sconfitto ed incalzato dalle nostre valorose truppe, ripassa in disordine il Piave>>.

Non pare di udire il motivo musicale, il ritornello di una fanfara che squillerà più tardi alta e solenne e si ripercuoterà per le valli alpine e rintronerà lontano nel mondo?

<<I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo risalgono in disordine e senza speranza, le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza>>.

La battagli difensiva del Piave – la gigantesca battaglia – la prima su tutti i teatri della guerra europea, che segni una chiara grossa sconfitta degli Imperi centrali – è il preludio di Vittorio Veneto, la grande battaglia offensiva, la decisiva, quella che darà la prima grande Vittoria.

Le due battaglie sul fiume sacro, sono così strettamente collegate che se lo storico futuro,per errore o per finzione, volesse ignorare che dal 24 giugno al 24 ottobre siano passati quattro mesi, potrebbe intessere un’unica, continua, logica narrazione.

Sola la necessità di ricostituire le riserve di uomini e di materiali (e non è stato un errore, come da facili critici si vuole) trattenne il nostro Comando Supremo, il 24 giugno, dal proseguire l’offensiva e lo consigliò a limitare l’azione controffensiva alla riconquista della zona del basso Piave, dove marinai e soldati prodigarono ancora il loro sangue.

E la battaglia di Vittorio non è stata una facile vittoria, contro un esercito minato dalle discordie di razza, avvilito e demoralizzato dalla fame (come si volle da qualche critico nostrano più maligno che facilone), ma una conseguenza diretta della battaglia del Piave, dove se – come annunziava il cavalleresco bollettino del 24 giugno << uno straordinario numero di cadaveri austriaci ricopre il terreno della lotta, a testimonianza dello sfortunato valore e della grande sconfitta avversaria>> - non meno ingenti erano le perdite che si erano verificate nelle nostre file.

Sulle rive del Piave, nel novembre 1917, nel giugno e nell’ottobre 1918, gli Italiani soli dettero a se stessi e alla Patria quella messe di gloria, che non è merce che si possa frodare o barattare; sulle rive del Piave essi principalmente, con lieve ausilio di forze estranee, dettero la prima luminosa definitiva vittoria della guerra.

La lunga ed aspra guerra, per 41 mesi condotta sotto la guida del re, Augusto Capo Supremo, dal Popolo nostro, ha nella battaglia del Piave, la pagina più fulgida della forza di resistenza, dello spirito di sacrificio, del valore italiano.

In questa pagina brilla, di vivida luce, il <<rude valore dei forti fanti di Calabria>>.

 

Catanzaro, 21 giugno 1923.

 

 

Colonnello Salvatore Pagano

Capo di S.M. della Divisione Militare di Catanzaro

 

 

 

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