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I
E’
una gioia per ogni combattente ricordare, le glorie
della Patria.
E’
un godimento di tutti i combattenti, credo, rituffarsi
in quell’atmosfera eroica, nella quale respirammo,
durante la guerra.
Aria di poesia eroica!
Piave!... Nome che sa di poesia e di leggenda, nome che
suona al nostro orecchio come canzone di guerra e come
canzone di amore. Musica fatta per accompagnare il dolce
ricordo di un amore di terra perduta e per seguire, al
canto di un inno guerriero, le spoglie dell’Eroe…
Musica del leggendario ed indistinto amore per la
patria, alla terra natia, alle sante memorie della
stirpe.
Piave!... Questo fiume – gridava il Poeta ai
difensori – che è maschio nella tradizione del
Veneti, questo fiume è la vena maestra della nostra
vita, la vena profonda nel cuore della patria – Se si
spezza il cuore si arresta.
E
così fu sempre nella storia antica, dei Veneti, che pare
leggenda – e così è stato ora nella storia recente,
degli Italiani, che pare leggenda.
E’
la vena maestra, perché è anche la via maestra tracciata
nella cintura formidabile , che la Natura diè
all’Italia: la via d’Alemagna, per la quale in ogni
epoca…
… la primavera in fior mena tedeschi
pur come d’use. Fanno pasqua i turchi
ne le lor tane, e poi calano a valle …
Piave, che vide già nel 1508 contro Massimiliano
d’Austria imperatore, Venezia sola: Venezia, l’erede di
Roma, la Dominante.
E a
Podestagno il Provveditore Francesco Zane, lungamente
assediato, e a Pieve di Cadore il capitano Alessandro
Pèsaro, non piegare il samguigno vessillo di S. Marco; è
Bartolomeo d’Alviano e Girolamo Savorgnano, nelle gole
di Lorenzago e sui campi di Rusecco biancheggianti di
neve, fugare gli Imperiali. Ma anche allora i capitani
avevano ammonito prima della battaglia: << Chi non
avesse fede nella vittoria e cuore bastevole per vincere
o morire, uscisse dalle file>>.
Nelle primavere italiche, nel 1848, fra i giganti delle
Dolomiti, le acque di questa vena maestra videro
pingersi la bandiera dei tre colori, nella magnificenza
del sole: rosse le cime scintillanti, bianche
per nevi e mai violate i fianchi a picco, verdi
di bosco le cinture delle valli.
E
Pietro calvi, tra i rintocchi dei campanili delle pievi,
gridare in faccia allo straniero: Questo è il suolo
della patria. – E il Pelmo e l’Antelao, i giganti
immobili, l’eco ripetere nelle valli: Questo è il suolo
della Patria. Da qui non si passa! E alla Madonna di
Cornuda i Crociati romani del generale Ferrari
combattere e morire.
E’
storia nostra, di ieri, e pare leggenda, la storia
scritta dal valore dei padri.
Ma chi può più
parlare a voi dell’eroismo antico, o fanti? Potete
strappare dalla storia le pagine dei noti esempi e
mettervele a fodera dei piedi dentro le scarpe fradice
fornite dal frodatore –
diceva il Poeta
instancabile ai combattimenti. – Quell’eroismo del fante
dell’Italia nova è l’eroismo oscuro, lungo, persistente,
per giorni e notti. Nel fango, sotto la pioggia, senza
pane, nel turbine tremendo della battaglia, che mozza il
respiro con l’aria avvelenata; che scianta e lacera con
le artiglierie; che fulmina dall’alto con bombe e
raffiche come gragnuola; che avvolge e oscura il bel
cielo della patria con una nube caliginosa.
E’
l’eroismo muto di nove giorni e nove notti, l’eroismo
del fante dell’Italia nova nella battaglia gigantesca
del Piave.
II
Noi sapevamo che gli Austriaci ci avrebbero attaccati
la mattina del 15 giugno. Lo sapevamo da più giorni. La
sera del 14, all’imbrunire, due cadetti, presentatisi
alle nostre linee, sulla fronte del Grappa, confermarono
che l’attacco si sarebbe sferrato violentissimo, alle 3
precise del mattino, che il bombardamento sarebbe
durato, con tutte le artiglierie, dall’Astico al mare,
quattro ore. Gas asfissianti a profusione!
Poi
le fanterie sarebbero venute all’attacco. Forse non
avrebbero trovato resistenza. Gli italiani non si
sarebbero difesi!... In ogni modo la difesa sarebbe
stata inutile. Tutte le forze dell’Imperatore – aveva
scritto il colonnello Mittereger – per la prima volta
unite contro lo stesso nemico, si sarebbero rovesciate
come una valanga contro di noi, rompendo ogni nostra
velleità di difesa, rendendoci vano ogni impiego di
riserve; perché l’attacco portato egualmente su tutti i
punti dell’immensa fronte avrebbe schiacciato qualsiasi
tentativo di manovra o di reazione: 57 Divisioni e mezza
di fanteria, ossia 900 battaglioni, con circa 7400
bocche di fuoco di ogni calibro erano schierate e
scaglionate contro gli italiani.
E
un altro più alto Comandante – plagiando grottescamente
un grande capitano – indirizzava un proclama alle sue
truppe affamate: Difensori della Patria!... Là, di
fronte a voi, sui baluardi nemici, sul ciglio dei
boschi, che voi scorgete, vi attende la gloria e
l’onore; vi attende un ottimo vitto, un magnifico
bottino ed oltre a ciò anche la Pace. Difensori della
Patria, fate tutti il vostro dovere, non risparmiate il
nemico maledetto… Così il Maresciallo Soreticic –
Comandante della 42a Divisione sull’Altipiano
di Asiago.
Nella quiete notte di giugno, nell’immenso campo di
battaglia – eccezionalmente silenzioso – nessuno dormì.
Faceva gli ultimi preparativi il nemico. Attendevamo
noi; il fante alla trincea, l’artigliere al cannone.
L’ansia tratteneva il respiro. Avevamo schierate 55
Divisioni, 670 battaglioni, 7500 bocche da fuoco.
Inferiori di numero, ma ben più forti nello spirito e
nella decisione ferrea di resistere … Il nemico non lo
sapeva, non lo credeva.
**
*
In
quel periodo di preparazione intensa di forze che sta,
nella storia della nostra guerra, tra la parentesi
tragica di Caporetto e la battaglia del Piave, il nostro
Esercito si forgiò una nuova anima, subì una
trasformazione morale, della quale lungo sarebbe
indagare e analizzare le cause.
Nessuna trasformazione organica, salvo la costituzione
dei reparti di assalto, già iniziata per le piccole
unità nell’ottobre ’17, e intensificata e condotta a
perfezionamento, con la formazione di grandi unità,
riunite in un Corpo d’Armata d’assalto.
Ma
si ordinò l’osservanza dei cannoni fondamentali di
organica, trascurati precedentemente: la stabilità delle
formazioni, principale quella della Divisione; la
permanenza del soldato nel suo piccolo reparto, a
contatto con i compagni, a contatto col superiore
immediato.
Chi
ebbe il maneggio di quel delicato strumento che è
l’anima del fante, capì finalmente che le anime non
sono numeri o pezzi di ricambio o proiettili, soggette
ad essere permutate a serie, a centinaia, spostate da un
luogo all’altro, da un reparto all’altro,
indifferentemente.
E
questo mutamento nella concezione del valore umano e
nell’impiego e trattamento degli uomini, costituì la
piattaforma e il caposaldo del rinnovamento spirituale
dell’Esercito dopo Caporetto.
Un’aura nuova spirava dal paese. Gli effetti morali
della sconfitta, fatti palesi ed evidenti, e forse
esagerati, dai profughi delle provincie invase, sparsi
per i borghi e le città della penisola, con le loro
miserie e le lamentele, avevano messo la spensieratezza
italiana di due anni di guerra vittoriosa, di fronte
alla dura realtà. Avevano fatto tacere le voci discordi,
avevano preparati gli animi ad intendere la voce
ammonitrice del Re:<<Cittadini e soldati, siate un
Esercito solo!>>
Un
complesso di provvidenze, veramente benefiche, operarono
nel campo spirituale a suscitare, a tenere deste, ad
esaltare quelle forze morali, senza le quali non si
vincono le battaglie.
I
diciannovenni giovinetti del ’99 portarono nelle file
dei vecchi combattenti la lieta giovinezza spensierata,
pronta allo sbaraglio ed alla morte. Accorciati i turni
snervanti di trincea, dati premi in danaro e in oggetti,
dal Governo e dal Pese concordi; dimostrata con
giornali, con opuscoli, con manifesti, con la parola
calda di patriottismo, la necessità della resistenza per
la salvezza della Patria e di tutto il nostro patrimonio
morale e materiale, l’Italia si trovò nella nuova
primavera con un magnifico strumento di guerra, col suo
esercito rinnovellato nell’anima, attorno al quale
spirava l’aria ardente di fede di tutto il Popolo; un
Esercito giovane, deciso a morire sui monti e sul fiume
sacro, ma non ad arretrare di un passo.
Nei
paesi del nemico invece dominava un senso di scoramento,
fatto di stanchezza, per la lunga guerra, per le forti
privazioni materiali, cui le popolazioni erano obbligate
dal ferreo cerchio che le assediava. L’Esercito,
esaltato dagli insperati allori raccolti nelle fortunate
giornate di ottobre, che lo avevano condotto nelle
ubertose e ricche pianure del Friuli e del Veneto,
anelava a rompere il cerchio e a dilagare ancora, di qua
dal fiume, a scendere dal Grappa e dall’Altipiano, per
rifornirsi di vesti, per satollarsi, per godere. E’
Annibale, è il barbaro, sempre, che si affaccia sui
monti della Patria. Ma il miraggio del bottino non
basta, oggi, per vincere. La vittoria della civiltà dei
nostri tempi, ha per meta ben più alti ideali!
La
grandiosa operazione offensiva, preparata e studiata con
tanta minuzia di particolari, da costituire un modello
magistrale di quel paziente lavorio di analisi, del
quale la mente tedesca è capace, quantunque messa sotto
l’egida del nome di radetsky, - l’implacabile nemico
degli Italiani – ha – nell’assenza dell’idea motrice –
del motivo ideale – il germe dell’insuccesso.
Le
guerre e le battaglie si vincono in quanto i principi,
per i quali un popolo combatte sono informati a quegli
ideali di Giustizia e di Libertà, che da secoli
tracciano il cammino della civiltà del mondo.
III
Nel
quadro della guerra italiana, l’offensiva austriaca del
giugno 1918, rappresenta il terzo ed ultimo tentativo
per annientarci: tutti e tre, informati, dalla mentalità
dei Condottieri austriaci, all’idea di punire la
fedifraga Italia; tutti e tre alimentati nella massa dei
combattenti, specie slavi e croati, dall’odio di razza,
dall’istinto di ribellione di un popolo di bassa
levatura intellettuale, privo o quasi di memorie, di
storia, di civiltà.
Il
primo tentativo fu fatto, nel maggio 1916, divisando di
ascendere dall’Altipiano di Asiago nella pianura di
Vicenza. Era l’operazione classica, cara al cuore del
Maresciallo Konrad, che le aveva dedicata tutta la sua
attività di Capo di S.M. in pace e in guerra,
accarezzando il disegno come un sogno.
Il
secondo tentativo fu quello dell’ottobre 1917, rompendo
dalla fronte giulia. Konrad, relegato al comando di
truppe nel Trentino, era stato scartato dall’operazione.
Non era contemplato che l’attacco dovesse muovere anche
dai monti. Errore che fu un po’ la nostra salvezza. E
invano, nel novembre e dicembre 1917, egli tentò di
sboccare in piano. La battaglia del giugno 1918
rappresenta il terzo tentativo: come tale, per
l’accorciata fronte, per le forze disponibili, esso
contempla, nel campo strategico, i due attacchi
contemporaneamente.
Dai
monti, tra l’Altipiano di Asiago e il Grappa, a cavallo
del Brenta, e dalla pianura, attraversando il Piave;
per cadere nella pianura vicentina, avvolgere il
Montello, impadronirsi di Treviso, far capitolare
Venezia.
** *
Il
disegno è grandioso: nella prima giornata tutti gli
obiettivi devono essere raggiunti.
Tutte le forze austriache erano raggruppate in due masse
principali:
- il
gruppo di armate agli ordini del Maresciallo Konrad,
forte di ben 23 divisioni, con un’assoluta preponderanza
di forze, doveva vibrare il colpo decisivo: sfondare con
10 divisioni le nostre linee sull’Altipiano di Asiago,
tra la Val Frenzela e la Val d’Assa e allargandosi a
ventaglio con le altre divisioni, raggiungere i margini
dell’altipiano, i contrafforti del Grappa e scendere in
pianura.
- un
altro gruppo di armate, agli ordini del maresciallo
Boroevic, doveva forzare il Piave, con due masse
secondarie: una di urto e di manovra, doveva passare
alle grave Papadopoli e puntare su Treviso; l’altra di
12 divisioni, tra Candelù e il mare, mirare a Treviso e
a Venezia.
Fra
queste due masse, una terza, la 6a Armata,
forte di 9 divisioni, agli ordini dell’arciduca
Giuseppe, doveva servire di collegamento, e avvolgere il
Montello.
In
riserva, nel Trentino e nella pianura friulana, altre
forze.
A
fronteggiare e a contenere il poderoso urto avversario
stavano: la nostra 6a Armata, l’Armata degli
altipiani al comando del Generale Montuori, della quale
facevano parte 3 divisioni inglesi e 2 francesi; la
ferrea 4a Armata, l’Armata del Grappa, al
comando del generale Giardino; l’8a Armata,
del Montello, al comando del Generale Pennella; la
invitta 3a Armata, l’Armata del Carso e del
Piave, al comando di S.A.R. il Duca d’Aosta.
Agli sbocchi presumibili dell’invasione nemica, a
immediato impiego, riserve parziali. Quasi al centro del
grande arco difensivo la massa della riserva generale e
i virtuosi del coraggio, dell’audacia, dell’impeto: il
corpo d’armata d’assalto e il corpo di cavalleria.
E’
– smisuratamente ingrandito – questo schieramento di
forze, lo schieramento classico dell’immortale legione
romana, basato sui principi immutabili della guerra:
nella prima schiera i veliti e gli astali, i giovani per
ingaggiare la lotta e provare l’avversario; nella
seconda i principi, quelli che sanno già l’arte della
pugna , pronti ad entrare tra le file e colmare i i
vuoti, ad assaltare; nella terza schiera – il ridotto
della fortezza – i triari, i più forti, pronti al
sacrificio, per l’ultima salvezza.
E’,
in questo schieramento, e nelle predisposizioni che lo
integrano e lo completano; nella composizione delle
riserve; nei mezzi di rapido spostamento, un’intuizione
geniale dello svolgersi della grandiosa lotta: sicchè
ogni elemento, e grande e piccolo, sta al suo posto e il
suo capo prevede, sa quale sarà il suo impiego.
Saranno gli artiglieri, che sono attorno ai pezzi, che
il primo colpo di cannone è il segnale per rovesciare
immediatamente contro le batterie nemiche una tempesta
di proiettili: tiro di contropreparazione.
Sanno i fanti, che sono nelle prime trincee, che essi
devono lanciarsi al collo del nemico, che attacca, e
aggredirlo e fermarlo; sanno le piccole riserve c’esse
devono muovere compatte là dove, malgrado tutto, il
nemico è riuscito a rompere una maglia ed a penetrare
nella rete della difesa, e attanagliarlo, circondarlo,
ricacciarlo o annientarlo. Sanno le direzioni per le
quali muovere, nelle vie aperte e soleggiate, le grosse
riserve arretrate, accanto alle autocolonne pronte col
motore caldo. E aviatori si innalzano, volano, tornano;
chi per vedere, chi per bombardare, chi per distruggere
nell’alto. Passano fra il cielo e la terra, a ondate,
misteriose parole, che qualcuno conosce, raccoglie e
trasmette; brillano, nel loro linguaggio di lampi e di
luci, le stazioni ottiche; passa sui fili sotto terra e
attraverso la terra la parola d’ordine, la parola sacra
del comandanti.
La
battaglia come è preparata, così si svolgerà. Nel
tumulto, nel disordine dell’immenso campo della guerra,
vi è un ordine che domina gli avvenimenti, li raddrizza,
li volge al suo scopo. Una corrente spirituale affascia
tutti i combattenti; un sentimento unico, solo, vibra in
tutte le anime, dei capi, dei gregari: resistere e
vincere per la salvezza della Patria. In questa armonia
di idee, di sentimenti, di sforzi, che è disciplina,
raggiunta in milioni di uomini, sta l’arte divina della
guerra.
V
Dicono i critici, oggi: L’Austriaco ha sbagliato
pronunziando il suo attacco da due direzioni diverse,
con due masse egualmente forti. I due attacchi, per
quanto concentrici, si svolgevano in un ampio cerchio di
130 chilometri di fronte: dovevano quindi, di necessità,
riuscire deboli dappertutto.
Non
sembra che i critici abbiano molta ragione.
Sull’Altipiano di Asiago, le fronte di attacco, per le
caratteristiche del terreno, fra due profondissime,
dirupate ed intransitabili valli, l’Assa e la V.
Frenzela) si riduceva a poco più di dieci chilometri. E’
il terreno reso sacro dai nostri reggimenti: il Lemerle,
il Magnaboschi, il Valbella, il Sisemo! Su questa
stretta diga dovevano passare prima 10, poi altre 13
divisioni. Quale mai potenza di sforzi poteva essere
concentrata in più breve spazio? E sul Grappa la
direttrice di attacco di ben quattro divisioni scelte,
era la stretta dorsale che scende immediatamente ad est
del Brenta, da col del Miglio, col Moschin, Fagheron,
Fenilon, Osteria del Campo.
E
sul Piave lo sforzo era concentrato in tre brevi tratti
– al Montello, alle grave Papdopoli e tra il ponte di
Piave e S. Donà di Piave.
Non
dunque ai difetti di concezione è dovuto il fallimento
dell’offensiva austriaca – e neppure alla preparazione e
alle disposizioni per l’attuazione. Preparazione, come
ho detto, minuziosissima, con studio dei più
insignificanti particolari, che andavano
dall’organizzazione del tiro di accompagnamento,
regolato, non ad orario, come avevano insegnato i
tedeschi ed i francesi, ma sull’effettiva avanzata delle
fanterie, all’impiego dei plotoni di requisizione e alla
regolamentazione del saccheggio, con le prescrizioni di
impinzarsi ma non sprecare, di non sparare sulle botti
di vino dopo aver estinta la sete, non sventrare i
sacchi di farina o di riso…
VI
La
battaglia, iniziata alle ore 3 del 15 giugno col duello
delle artiglierie, tra le 7 e le 8.30, si sviluppava con
i primi assalti delle fanterie. Era già consacrato dalle
ripetute esperienze precedenti che i primi successi
sono, qualunque sia la forza e l’animo del difensore,
per chi attacca.
Si
era già ricorso, anche da noi, al sistema di alleggerire
le prime linee, nell’imminenza della battaglia, per non
condannare le fanterie più avanzate, a sicura
distruzione sotto il bombardamento.
Il
Generale Gouraut, in Champagne, doveva addirittura
sgombrare per una profondità di due chilometri, la zona
di occupazione e di combattimento, attirando i tedeschi
in una trappola.
Gli
austriaci ottennero i primi successi.
Sull’Altipiano di Asiago, ad occidente, stavano gli
inglesi tra Roncalto e S. Sisto. Quattro divisioni
austriache penetrarono nelle trincee britanniche e
cercarono di dilagare verso il bosco di Cesuna; ma
contrattaccati dagli inglesi stessi, col concorso verso
sinistra della nostra brigata Casale, furono contenuti e
poscia ricacciati.
Nel
centro, tenuto dai francesi, le trincee del saliente di
capitello Pennar, all’atto del bombardamento, conforme
la tattica adottata, vennero sgombrate. Gli Austriaci vi
penetrarono, ma vi restarono ingabbiati.
Più
ad oriente, su cima Echar, a Valbella, a Col del Rosso,
le linee tenute dalle nostre brigate Pinerolo e Padova
furono perdute e riprese nei giorni seguenti.
Sul
Grappa gli Austriaci si proponevano di aggirare il
massiccio principale, con quattro divisioni scelte tra
Val Brenta e Col della Beretta e altre quattro divisioni
al saliente del Solarolo. La colonna di destra riuscì a
rompere le nostre difese a Col del Miglio, impadronirsi
di Col Moschin e scendere al Fenilon, quasi aggirando le
difese della Val Brenta. Ma veniva arrestata e poi
attaccata e ricacciata dal valoroso IX° battaglione
d’assalto. Altra colonna puntava in val S. Lorenzo, ma
veniva contenuta dall’eroica fermezza del 60° Fanteria
(brigata Calabria) comandato dal catanzarese colonnello
Gaetano Franco. Franco resistette lassù, quasi
accerchiato, tre giorni, non chiedendo altro che
cartucce, mentre più ad oriente, su monte Coston il
colonnello Luigi Ganini da Jatrinoli, Comandnate la 239a
contrattaccava; e Achille Martelli da Filadelfia,
medaglia d’oro, ferito e mutilato, eseguiva audacissime
ricognizioni nelle zone invase dal nemico.
Così anche al saliente del Solarolo le nostre truppe
riuscivano con eroica fermezza, ad arrestare gli
assalitori. La battaglia sui monti è spezzata, quasi
infranta miseramente, fin dal 1° giorno.
Nei
giorni successivi se ne ha da noi la sensazione precisa,
sicchè i brevi, sebbene violenti combattimenti, che si
impegnano, sono la conseguenza di tentativi disperati
del nemico e dello spirito aggressivo delle nostre
fanterie che vogliono riprendere i lembi di terreno
perduto.
Sull’Altipiano di Asiago, il nicastrese tenente Pinna
Lorenzo, volontario, con un pugno di uomini, parte alla
riconquista del ridottino di Pizzo Razea, lo strappa al
nemico il giorno 17 e lo mantiene contro i nuovi
attacchi. La vittoria sugli Altipiani è la vittoria,
essenzialmente, dell’artiglieria. Il paziente lavoro di
ricognizione, nei mesi precedenti la battaglia, ci aveva
dato la esatta indicazione delle postazioni delle
artiglierie, dei ricoveri, dei posti di comanda, degli
osservatori, della zona raccolta delle fanterie del
nemico.
Il
tiro di contropreparazione, iniziato immediatamente, al
tiro austriaco, da tutte le nostre batterie, con una
ripartizione di compiti e una scelta di mezzi, così
estta e precisa, fu tale e riuscì così inaspettata da
disorientare subito le artiglierie avversarie, il cui
tiro risentì gli effetti dello sconvolgimento e diventò
disordinato e poco eficace, accecò gli osservatori,
interruppe le comunicazioni, fece saltare i comandi,
paralizzò nei luoghi stessi di radunata le fanterie che
dovevano muovere all’attacco. Fu tale insomma da far
credere agli austriaci che non essi, ma noi volessimo
dare battaglia.
VII
Non
poco merito di tale successo spetta al Comandante
dell’artiglieria della 6a Armata. Artigliere
di razza, di quella buona razza italiana che aveva dato,
nel campo della scienza, delle invenzioni, delle
costruzioni e della tattica, Nicolò Tartaglia, Cavalli,
Siacci e i Mezzacapo – questo nostro generale artigliere
si impose, per la dottrina dell’impiego dell’arma
potente, ai Comandanti e agli ufficiali artiglieri
francesi ed inglesi che erano inquadrati nella 6a
Armata. E non era facile cosa, specie sui
francesi, che già prima della guerra, per l’adozione del
materiale a deformazione e la tattica, avevano fatto
scuola in Europa ed avevano avuto l’orgoglio di vedersi
imitati dagli stessi tedeschi, che erano all’apogeo
della scienza e dell’arte militare.
Questo nostro Generale artigliere aveva già attuate
manovre, con spostamenti rapidi di forti masse di
batterie, sulla fronte della terza Armata, aveva dettati
e consigliati sistemi pratici di tiro, così da passare
dall’empirismo caratteristico delle batterie affidate
quasi esclusivamente a capitani e tenenti di
complemento, studenti, avvocati, magistrati, dal tiro
empirico e facilone che sprecava i proiettili, al tiro
classico, matematicamente esatto che manda i proiettili
al bersaglio. Aveva date quelle norme d’impiego di masse
di artiglierie, che oggi costituiscono in gran parte i
nostri testi di esperienza, la nostra dottrina tattica.
Questo nostro Generale artigliere è Roberto Segre. Io ne
ricordo il nome; perché, se nelle tristi vicende della
nostra vita pubblica, dell’immediato dopo guerra, si
fosse ricordato il valore dell’uomo e il fatto che egli
era stato, senza forse, il primo vincitore della
battaglia di artiglieria sugli altipiani, certo non si
sarebbe coinvolto il suo nome nelle spire di un processo
penoso. Ma il Generale Segre, in missione a Vienna,
sfamando le povere donne e i bambini del nemico, dando
largo esempio di quella generosità, verso l’antico
nemico, tutta italiana, non tenne presente, forse, che è
assai più facile regalare a profusione proiettili e
bombe alle truppe austriache che non pace ai bimbi di
Vienna affamata.
E
accanto al nome del Generale Segre potrei collocarne
moltissimi altri di artiglieri valorosissimi. Ne ricordo
uno, che è nostro, ed è legato ad un episodio
interessantissimo di quella lotta di artiglierie sulla
fronte montana. Il colonnello Alessandro Del Pozzo da
Mammola, che stette sei mesi sulle prime linee, tra una
baracca ed una caverna osservatorio, a Col d’Astiago,
comandante di un raggruppamento di calibri pesanti. Egli
nella giornata del 15, come sempre al suo osservatorio,
vide che gli austriaci dal Col Moschin scendeva in
piano. In altri punti erano meglio contenuti. Non esitò.
Disse al suo Generale: tutte le artiglierie del XX°
Corpo devono tirare sul Grappa. E tutte le artiglierie
del XX° e altre della 6a Armata, attuando una
di quelle manovre di fuoco, che la lunghissima gittata
può permettere, rivolsero in pochi minuti, il loro
immane ed infuocato fascio di traiettorie, attraverso la
Val Brenta, in soccorso della 4a Armata.
Gli
effetti furono terribilmente disastrosi per gli
austriaci. Il terreno tra il Col Moschin, Col del Miglio
e Col della Beretta, sembrò un vulcano, con mille bocche
in eruzione.
Le
divisione austriache, già duramente colpite dalle
artiglierie dell’Armata del Grappa, non passarono più.
Chi ebbe quella iniziativa soffrì sembra l’immediata
accusa di avere abbandonato col tiro le proprie
fanterie, ma le notizie dei giorni successivi alla
battaglia confermarono la efficacia e la giustezza di
quella iniziativa. Il colonnello Del Pozzo dopo la
battaglia di giugno ebbe la medaglia di argento al valor
militare.
VIII
Se
la battaglia sui monti apparve quasi vinta fin dai primi
giorni, non così avvenne lungo il Piave, dal Montello al
mare.
Durante l’immane bombardamento delle artiglierie, gli
austriaci, protetti da una fitta nebbia artificiale,
gettando ponti e passerelle in gran numero, varcarono il
largo letto del fiume in moltissimi punti.
Sul
Montello una divisione passata nelle vicinanze di C.
Serena si impadroniva di quel ridotto e della linea di
cresta di C. Marseille. I difensori aggirati si difesero
aspramente. Era tra i difensori, il prode Generale Carlo
Garcea di Catanzaro, comandante della brigata Campania.
Altre due divisioni sbarcate verso il saliente si
impadronirono di Nervesa e tentarono di raggiungere
verso sud la strada della Priula. Ma la nostra 48a
Divisione oppose loro una eroica resistenza.
Contrattaccati sui fianchi dai rincalzi dovettero
arrestarsi; in quei frangenti artiglieri, lasciati i
pezzi inutilizzabili, combatterono col moschetto accanto
alle loro batterie, zappatori del genio, telefonisti,
portaferiti concorsero nella lotta. A sera il secondo
squadrone Firenze con auto mitragliatrici caricò e
ritolse Nervesa al nemico. Nel giorno successivo,
l’arciduca Giuseppe gettava sul Montello altre cinque
divisioni della sua Armata; ma se riuscì a mantenere le
posizioni raggiunte, non riuscì a progredire.
Contrattaccato dalla nostra 50a Divisione,
dai sardi della brigata <<Reggio>>, dai siciliani della
brigata <<Aosta>>, dai calabresi della brigata <<Udine>>
e da altre truppe, dovette arrestarsi. I nostri
combatterono con accanimento. Ricordo il 96° Franteria
(brigata Udine) che ebbe per culla il deposito di
Catanzaro, figliuolo di quel 48°, che fu tra i valorosi
reggimenti calabresi il valorosissimo.
Il
Comando del 96° circondato improvvisamente da un nugolo
di nemici in una specie di buca carsica sulla dorsale
del Montello, raduna i suoi pochi uomini: scrivani,
telefonisti, attendenti, e il colonnello alla testa, il
colonnello Carlo Dagnino, che fu qui Comandante del
nostro Distretto, si precipita sugli assalitori,
sgominandoli colla audacia più che colla forza.
I
semplici fanti si improvvisano comandanti, come quel
soldato Musolino Domenico da Montebello Jonico, che con
un gruppo di compagni irrompe fra i nemici e riconquista
una batteria; come quel caporale di maggiorità Barone
Vincenzo da Gerace, che messo alla testa di un plotone
senza ufficiali, con grande perizia e valore lo condusse
all’assalto (1).
**
*
Analoghi
avvenimenti si svolgono sulla fronte della 3a
Armata lungo il Piave. Gli austriaci passano il fiume e
si addensano specialmente nelle zone di Fagarè e di
Musile, in corrispondenza delle strade di Treviso e di
Mestre.
I
nostri reagiscono con contrattacchi immediati. Una
colonna nemica, dilagata verso nord ed entrata in
Salettuol, è attaccata dalla fanteria della nostra 31a
Divisione, aggirata velocemente, costretta contro
il fiume, bersagliata dal tiro di artiglieria, obbligata
ad arrendersi interamente: prigionieri il Comandante
della colonna, 15 ufficiali, 900 uomini.
A
sbarramento della strada di Treviso, era la 45a
Divisione e tra le fanterie di questa Divisione la
brigata Cosenza (243° - 244°). Sta la Cosenza per tre
giorni continui nell’infernale battaglia, mirabile di
tenacia e di valore, con i nuclei dei suoi uomini sparsi
e annidati a gruppi fra le trincee ed i camminamenti
sconnessi: ogni avanzo di parapetto è un formidabile
baluardo, ogni proiettile lanciato da mani ferme
colpisce giusto. Essi resero cari e tramandarono alla
storia i nomi di La Fossa, Cascina Ninni, C. del Bosco,
Collaltella, dove resistettero e molti morirono. Il
soldato Mari Giuseppe
(1)
Motivazioni delle medaglie d’argento al valore loro
concesse.
Le
Bandiere dei reggimenti della brigata Udine ebbero la
medaglia d’argento al valore. La Brigata fu citata ad
onore nel Bollettino del Comando Supremo del 18 giugno.
di
Sorianello, del 244° fanteria <<durante un contrattacco
nemico in forze resisteva eroicamente sul posto con
pochi compagni, riuscendo a mettere in fuga un plotone
austriaco e a catturargli una ventina di prigionieri (La
Fossa – Piave, 15 16 giugno 1918) – medaglia di
argento).
E
il sergente maggiore Perrone Vincenzo di Mormanno, del
battaglione complementare della Brigata, radunava i
ciclisti e i porta ordini del battaglione e li conduceva
all’attacco. Ritto fra i suoi soldati ricacciava a colpi
di pistola il nemico che avanzava con lanciafiamme.
Radunava soldati dispersi e li lanciava all’attacco
(motivazione della medaglia d’argento).
Là,
fra i ruderi delle case, bersaglio delle artiglierie,
sorse e si affermò il motto: Cosenza non cede! il
motto della Brigata, che ebbe per il suo valore fregiate
le sue due fiammanti bandiere della medaglia di argento
con questa motivazione:<<Per l’ardore e la tenacia
mostrati in tre giorni di violentissima battaglia,
sbarrando il passo al soverchiante nemico, per
l’impetuoso slancio onde sul campo insanguinato della
lotta ancora una volta rifulse, con la radiosa vittoria,
il rude valore dei forti fanti di Calabria>> (Piave, 15
– 17 giugno 1918).
Ma
procediamo innanzi che altri contadini di Calabria e
altri ufficiali calabresi troveremo alla loro testa.
A
Salgareda era la Brigata Jonio (221° - 222°). Resiste,
la fiera brigata il primo giorno, schierata dietro Meolo,
e il giorno successivo contrattacca il nemico all’argine
di San Marco, a Villa Premuda, a Fossalta, a C.
Gradenigo. La lotta violentissima spezza la compagine
della Brigata, che pur continua a combattere e lascia
sul terreno in due giorni di lotta 1980 soldati e 49
ufficiali. Tra cui il colonnello Poncini del 221°,
colpito a tradimento da un pugno di nemici che fingono
di arrendersi, mentre egli con un reparto di soldati
riconquistava una nostra batteria. Lo sostituì nel
comando una nostra cara conoscenza, il colonnello
Alberto Vercillo. E anche le sue bandiere sono decorate
della medaglia di bronzo al valore:<<nel giugno 1918
sul Piave riconfermarono le forti virtù guerresche dei
loro fanti, strenuamente difendendo contro il poderoso
urto nemico, le posizioni loro affidate>>.
Più
vasta e profonda breccia avevano aperto gli austriaci di
fronte a S. Donà di Piave. Da dove cercarono ancora con
nuove forti colonne di collegarsi con le truppe passate
a ponte piave, ma trovarono una fierissima resistenza
nella nostra 25a Divisione – brigate
<<Ferrara>> e <<Avellino>> - le due valorosissime
brigate del Carso e di Monte Santo.
Nelle trincee di Zenson e di Lampol rifulge il valore
del vecchio reggimento calabrese, che attaccato di
fronte e sui fianchi, aggirato, circondato, si batte nei
fossi, nei camminamenti, con un accanimento tale da
fiaccare l’impeto delle ingenti forze, con le quali gli
austriaci alimentavano incessantemente la lotta!
E i
Calabresi hanno la fiera soddisfazione di vedere la
bandiera del 48° fregiata della medaglia d’oro: <<nell’offensiva
austriaca del giugno 1918 (dice la motivazione),
sul Piave, esempio inarrivabile di valore e di spirito
di sacrificio, dopo avere infranto il formidabile urto
nemico a C. Cappellini ed a C. Gasparinetti,
riconquistando l’argine di S.Marco, opponeva
eroicamente, pur con forze assottigliate dalla lotta
lunga e sanguinosa, la sua ultima e decisiva resistenza,
a San Pietro Novello, sicuro che la vittoria e la
salvezza dell’onore d’Italia riposavano nel suo
sacrificio. Il I° battaglione circondato nell’ansa di
Lampol, dopo aver seminato con poche eroiche
mitragliatrici superstiti, per tre giorni, la strage
nelle schiere nemiche, si apriva leonicamente un
varco>>.
L’episodio magnifico del I° battaglione meriterebbe una
ampia narrazione, ma io – (che ne ho la documentazione
datami da un giovanissimo ufficiale che fu uno degli
animatori della lotta) – non posso farlo. Lasciate però
che nominando il sottotenente Pietro Corrado da Dasà,
allora diciannovenne, da un mese e mezzo in trincea – il
quale rimasto isolato colla compagnia, per la morte del
capitano – fu il piccolo duce della sua invitta
schiera; che veduti nel
primo giorno avanzare gli austriaci dal fiume si lanciò,
fuori dalla trincea, alla baionetta; che nel giorno
seguente vedute invase le proprie posizioni da altri
austriaci, ne uscì e in una corsa pazza, seguito dai
pochi superstiti, allo scoperto, sull’argine di San
Marco, li tagliò dal fiume, li sbalordì con la sua
audacia, li catturò – lasciate che io renda omaggio a
tutti i giovani ufficiali di complemento che la
borghesia italiana mise alla testa dei nostri contadini
fanti – mirabili di fede, di ardore, di coraggio. Essi
furono fra i principali vincitori della guerra (1)
La
lotta è asprissima, per tre giorni, sul Piave – con
perdite gravi. E la misura è data dalle perdite del 48°
Reggimento – 41 ufficiali, fra i quali il colonnello, e
1300 soldati – ma, dappertutto, il nemico è contenuto;
dappertutto, malgrado le nuove Divisioni gettate nella
fornace della battaglia, egli non riesce a spuntare.
Tutte le armi si sacrificano assieme ai fanti: gli
aviatori bombardano i ponti e le passerelle sul fiume,
(Baracca cadeva il 19 sul Montello col suo velivolo in
fiamme); gli artiglieri con i tiri precisi interrompendo
continuamente i numerosi passaggi (più di 80 ponti e
passerelle erano stati gettati dalle grave Papadopoli a
S. Donà di Piave); gli squadroni del Piemonte Reale, del
Milano, del Vittorio Emanuele, intervenendo audacemente
e caricando il nemico avanzatosi a Monastier di Treviso.
(1)
Il
sottotenente corrado ebbe la medaglia di argento sul
campo, datagli da S.A.R. il Duca di Aosta.
IX
Il
19 la prima fase della lotta, sostenuta quasi
esclusivamente dalle truppe delle prime schiere, volge
tutta a nostro vantaggio. Gli austriaci non passeranno
più!
Addossati al fiume con grosse forze in zone ristrette,
bersagliati dalla nostra e dalla loro artiglieria (il
loro sbarramento mobile è stato un disastro!), col fiume
improvvisamente gonfio per piogge cadute in montagna,
che travolge ponti e passerelle ed uomini e materiali,
senza rifornimenti di viveri e di munizioni, essi non
pensano che a mantenere le teste di ponte che erano
riusciti ad occupare.
Vana speranza! Noi avevamo le nostre riserve quasi
intatte. Infranta sui monti la minaccia più pericolosa e
acquistata la certezza che di là, le piccole azioni
impegnate, non avrebbero potuto esercitare alcuna
influenza nel complesso della battaglia, il Comando
Supremo getta verso il Piave le sue riserve, in una
manovra controffensiva, intesa a ricacciare interamente
il nemico oltre il fiume.
Il
saliente del Montello è il più pericoloso.
Divisione, viene avviato, all’8a Armata, in
quella direzione. Il 19 mattina, la truppa sbarcata
dagli autocarri, raccolta nella piana, attende. Il
Generale Vaccari tiene il suo breve rapporto sotto il
tiro del cannone. Gli ufficiali siano avanti la truppa.
Egli ne aveva dato l’esempio a Castavegnizza, tra i
fanti della <<Barletta>>.
Tutti in prima linea e all’attacco!
La
lotta, ingaggiata tra C: Serena e Nervesa, attanaglia il
nemico inesorabilmente, contro il fiume, in un cerchio
di fuoco e lo immobilizza.
Tutti in prima linea!
E
in primissima linea, sul dorso del Montello, è colpito
da palla di fucile e cade il colonnello Alessandro
Platone, capo di S.M. della 60a Divisione.
La
battaglia infuria non solo sul Montello, ma lungo tutto
il fiume, nei giorni 20,21 e 22. L’equilibrio è
decisamente rotto a nostro favore. La pressione delle
nostre fanterie continua formidabile, inesorabile, come
il destino. Alla 33a Divisione, che il
generale Sanna impiega con i suoi irresistibili sardi
della brigata Sassari al posto dove aveva resistito la
brigata Ferrara, alla 1a Divisione di
assalto, che si incunea e penetra come un ferro rovente
nelle vive carni dell’occupazione austriaca di Zenson e
di Fossalta, si aggiungono sulla strada di Treviso, la
37a Divisione e infine la nostra 22a
Divisione (la Divisione di Catanzaro), che con le
sue intatte brigate, Firenze e Roma, dà, col nome di
Roma, il colpo finale alla tracotanza austriaca.
X
Una
parentesi breve.
Quattro brigate calabresi noi abbiamo vedute nella
battaglia, tutte al posto di onore, in prima schiera. La
Udine sul Montello, la Cosenza a
sbarramento della strada di Treviso, la Jonio a
Salgareda in collegamento, la Ferrara a
sbarramento della strada di Venezia a S. Donà di Piave.
Ne
mancano due, fra le valorosissime.
La Catanzaro,
onusta di gloria per aver seminato di morti il Carso e
l’Altipiano di Asiago, è questa volta in un settore,
dove la lotta è meno aspra. Con la 1a Armata,
di fronte allo sbocco dell’ Astico. E’ al posto
pericoloso, su una delle vie di invasione, che il nemico
non tenterà.
La Brescia
è in Francia. E attende la sua ora, l’attende sulle
alture di Bligny, dove esattamente un mese più tardi,
alla mezzanotte del 14 luglio, i tedeschi – come gli
austriaci – faranno il loro ultimo sforzo. La Brigata
esce da quella immane lotta di 24 ore, con le lacere
bandiere tenute da poche dozzine di uomini. Ha, in una
fierissima pugna, nelle identiche condizioni delle altre
brigate sul Piave, lasciato nella valle dell’Ardre 110
ufficiali, circa 3800 uomini. A simbolo di quella
meravigliosa resistenza, che frena e spezza il poderoso
attacco tedesco, a imperituro onore della gente di
Calabria, parlano le altre due medaglie di argento
assegnate ai reggimenti. (1)
(1)
Dalla motivazione:<<tenne alto, sul fronte francese,
l’onore delle armi d’Italia. In lotte aspre e violenti,
con largo tributo di sangue, oppose incrollabile
resistenza ai furiosi attacchi avversari, accompagnate
da venefiche insidie>>.
XI
La
battaglia del Piave è vinta!
Il
bollettino del Comando Supremo poteva la sera del 28
giugno annunziare <<dal Montello al mare il nemico
sconfitto ed incalzato dalle nostre valorose truppe,
ripassa in disordine il Piave>>.
Non
pare di udire il motivo musicale, il ritornello di una
fanfara che squillerà più tardi alta e solenne e si
ripercuoterà per le valli alpine e rintronerà lontano
nel mondo?
<<I
resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del
mondo risalgono in disordine e senza speranza, le valli
che avevano disceso con orgogliosa sicurezza>>.
La
battagli difensiva del Piave – la gigantesca battaglia –
la prima su tutti i teatri della guerra europea, che
segni una chiara grossa sconfitta degli Imperi centrali
– è il preludio di Vittorio Veneto, la grande battaglia
offensiva, la decisiva, quella che darà la prima grande
Vittoria.
Le
due battaglie sul fiume sacro, sono così strettamente
collegate che se lo storico futuro,per errore o per
finzione, volesse ignorare che dal 24 giugno al 24
ottobre siano passati quattro mesi, potrebbe intessere
un’unica, continua, logica narrazione.
Sola la necessità di ricostituire le riserve di uomini e
di materiali (e non è stato un errore, come da facili
critici si vuole) trattenne il nostro Comando Supremo,
il 24 giugno, dal proseguire l’offensiva e lo consigliò
a limitare l’azione controffensiva alla riconquista
della zona del basso Piave, dove marinai e soldati
prodigarono ancora il loro sangue.
E
la battaglia di Vittorio non è stata una facile
vittoria, contro un esercito minato dalle discordie di
razza, avvilito e demoralizzato dalla fame (come si
volle da qualche critico nostrano più maligno che
facilone), ma una conseguenza diretta della battaglia
del Piave, dove se – come annunziava il cavalleresco
bollettino del 24 giugno << uno straordinario numero
di cadaveri austriaci ricopre il terreno della lotta, a
testimonianza dello sfortunato valore e della grande
sconfitta avversaria>> - non meno ingenti
erano le perdite che si erano verificate nelle nostre
file.
Sulle rive del Piave, nel novembre 1917, nel giugno e
nell’ottobre 1918, gli Italiani soli dettero a se stessi
e alla Patria quella messe di gloria, che non è merce
che si possa frodare o barattare; sulle rive del Piave
essi principalmente, con lieve ausilio di forze
estranee, dettero la prima luminosa definitiva vittoria
della guerra.
La
lunga ed aspra guerra, per 41 mesi condotta sotto la
guida del re, Augusto Capo Supremo, dal Popolo nostro,
ha nella battaglia del Piave, la pagina più fulgida
della forza di resistenza, dello spirito di sacrificio,
del valore italiano.
In
questa pagina brilla, di vivida luce, il <<rude
valore dei forti fanti di Calabria>>.
Catanzaro, 21 giugno 1923.
Colonnello Salvatore Pagano
Capo di S.M. della Divisione Militare di Catanzaro
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