Come
in tutte le vicende belliche della storia nazionale, anche
durante la guerra di liberazione, che si è combattuta
prevalentemente nelle regioni del nord Italia, il contributo dei
calabresi è stato rilevante ma poco conosciuto e studiato.
D’altronde, molti militari calabresi che, dopo l’otto settembre
1943 si trovavano a migliaia di chilometri di distanza dalle
proprie case, sia nell’impossibilità di poter ritornare in sede
che nella consapevolezza di dover continuare a combattere contro
l’ex alleato germanico, iniziarono ad alimentare le fila della
resistenza in vari ruoli. Prova ne sono, ad esempio, le tre
Medaglie d’Oro al Valor Militare alla memoria: Aldo Barbaro,
Vinicio Cortese e Saverio Papandrea; tutti e tre ufficiali del
regio esercito che dopo l’armistizio si aggregarono a formazioni
partigiane immolando, a causa della loro scelta, le giovani
vite.
Si rende necessario anche specificare che, in generale, il ruolo
avuto dai militari delle varie armi, nella guerra di
liberazionem è un po’ sottovalutato e poco approfondito.
Sicuramente gli oltre 600.000 prigionieri di guerra catturati
dagli ex alleati, nei vari fronti", attuarono quella che viene
impropriamente definita "resistenza passiva", e cioè preferire
l’internamento senza lo status di prigioniero di guerra (e
quindi prigionia dura e priva di tutele di diritto umanitario)
all’arruolamento presso le unità militari delle neo costituita
repubblica sociale italiana.
Moltissimi militari sbandati ovviamente riuscirono a tornare
alle proprie case, mentre nel regno del sud si ricostituiva
l’Esercito italiano sotto la denominazione di 1° Raggruppamento
motorizzato - poi trasformato in gruppi di combattimento – che
iniziò a risalire la penisola aggregato alle truppe
anglo-americane, partecipando a vari combattimenti. Tanti
militari però preferirono combattere direttamente per non
arrendersi come, ad esempio, la divisione Acqui a Cefalonia,
oppure darsi alla macchia e prendere le armi contro le truppe
nazi-fasciste.
Un ufficiale che preferì operare in tal modo, diventando un
comandante partigiano, è proprio di Catanzaro; si tratta del
dottor Federico Tallarico, nato a Marcedusa il 20 gennaio 1917
che, grazie alla sua grande cortesia e disponibilità abbiamo
potuto intervistare.
- Quando
e come è diventato partigiano?:
"Mi sono arruolato volontario nell’esercito, mentre ero studente
universitario a Roma e pur potendo godere di rinvio. Sono stato
inviato dapprima a Bergamo, poi a Brescia e Salerno ed infine a
Torino, come sottotenente del 91° reggimento di fanteria
"Superga" , dove mi ha raggiunto la notizia dell’armistizio.
Non potendo rientrare a casa e convinto assertore della necessità di
combattere i nazisti, con parte dei soldati del mio reparto che
condivisero analoga scelta, ed assieme a mio fratello Antonio,
tenente del genio in Croazia, che nel frattempo mi aveva raggiunto in Piemonte, mi sono dato alla macchia
e rifugiato nelle Prealpi torinesi, più precisamente in Val
Sangone, ove ho iniziato a prendere contatti con altri ex
ufficiali del regio esercito che si stavano organizzando nella
lotta armata, come ad esempio i fratelli Giulio e Franco
Nicoletta di Crotone. Nacque quindi la brigata autonoma "Frico"
dal mio nome di battaglia, un’unità formata inizialmente da ex
militari sbandati, cui man mano si unirono renitenti alla leva,
civili anche giovanissimi, alcune donne, ex prigionieri di
guerra russi ed inglesi,disertori tedeschi ed ex appartenenti
alle forze armate di Salò, fino ad arrivare ad un organico di
oltre 300 persone".
- Perché creare una brigata
partigiana autonoma?:
"La scelta di imbracciare le armi non scaturiva da motivazioni
politiche né di benevolenza verso la monarchia, bensì
prettamente da ispirazioni patriottiche e dalla necessità di
contribuire a liberare l’Italia dall’oppressione nazi-fascista.
Non capendo nulla di politica è emersa la volontà di rimanere
autonomi, anche se inquadrati nella divisione "De Vitis", che
solo organizzativamente dipendeva dal Comitato di Liberazione
Nazionale".
- Com’era organizzata una
brigata autonoma e quali differenze c’erano con quelle connotate
politicamente?:
"Le brigate autonome, come la mia, avevano un’impronta ed
organizzazione militare che le differenziava da quelle
esclusivamente politiche come le Garibaldi, Matteotti e
Giustizia e Libertà. Ogni azione veniva pianificata
scrupolosamente con lo scopo, non solo di raggiungere gli
obiettivi assegnati, ma anche di ridurre la possibilità di
perdere molte vite umane; tant’è che in totale ci furono una
quindicina di caduti tra i miei sottoposti, pur avendo
partecipato a vari combattimenti, proprio per il fatto di aver
pianificato per bene le azioni ed evitato inutili scontri
frontali. Sulla mia uniforme da combattimento ho mantenuto
sempre le stellette".
- La popolazione locale come
si comportava nei vostri confronti:
"Un ruolo fondamentale nella resistenza fu svolto dai civili
e residenti in quelle zone i quali, con grandissimi rischi,
aiutarono sempre i partigiani con cibo e vestiario, pagando
spesso di persona tale scelta di campo; così come il clero che
fu molto utilizzato nelle trattative finalizzate allo scambio
dei prigionieri e nella costruzione dell’ossario dei caduti
della resistenza di Forno di Coazze, tant’è che nel mio reparto
era presente anche un cappellano militare. Si può dire che la
vera resistenza è stata fatta dai civili. Poi molte famiglie
preferivano far salire in montagna i propri figli e affidarli a
noi anziché farli arruolare nelle formazioni militari
repubblichine".
- Che armi avevate?
"L’equipaggiamento, sia di armi che di vestiario, era scarso e
inadeguato. Inizialmente fu utilizzato quello in dotazione
all’ex regio esercito italiano recuperato in caserme e depositi
abbandonati, poi le armi impadronite durante le azioni di
guerriglia; poco quello ottenuto dagli anglo-americani (giusto
qualche Sten paracadutato in rare occasioni). Avevamo solo armi
leggere e bombe a mano. E’ inutile sottolineare la differenza
con gli armamenti degli avversari".
- A quali azioni ha
partecipato?:
"Tante e rischiose sono state la azioni da me ordinate e nelle
quali ho partecipato; tra quelle più significative la cattura,
solamente con 8 partigiani, di ben 36 nazi-fascisti a Cumiana,
dopo uno scontro armato, cui purtroppo seguì una terribile
rappresaglia ai danni della popolazione civile accusata
ingiustamente di aver aiutato i partigiani, con oltre 50 vittime
innocenti (soprattutto anziani e donne). Vero e proprio crimine
di guerra, la cui esatta dinamica deve essere purtroppo ancora
accertata. Di sicuro i nazisti, con elementi delle SS italiane,
attuarono la repressione prima di concretizzare uno scambio tra
prigionieri, così come era stato concordato con le autorità
partigiane della zona".
- Chi era il vostro
nemico?:
"Tra le truppe contrapposte, il peggior ricordo è per i reparti
politicizzati, come la Guardia Nazionale Repubblicana e le
Brigate Nere, mentre la Decima Mas era un reparto di impronta
militare; analogamente tra i tedeschi una notevole differenza vi
era tra gli appartenenti all’esercito e le SS. Giungevano
notizie comunque di vari crimini di guerra ed eccidi perpetrati
contro civili (come a Cumiana), ma nessuna notizia era
pervenuta, durante la mia clandestinità, in merito allo
sterminio di ebrei. Ho avuto qualche notizia anche di
fucilazioni sommarie perpetrate da singoli elementi delle
formazioni partigiane ai danni di fascisti o loro
fiancheggiatori.
Io non ho mai ucciso prigionieri, ma li ho trattati bene ed
usati per scambi; ed anche mia sorella Nina, medico a Torino,
pur non inquadrata nelle file della resistenza si prodigò per
assistere partigiani ma anche prigionieri feriti".
- Come erano i rapporti
con le formazioni partigiane politicizzate?:
"Complessivamente buoni. Nell’ambito della rispettiva autonomia
vi era molta collaborazione.
Ho avuto qualche piccolo screzio con alcune formazioni
partigiane comuniste, quando ad esempio queste ultime
arrestarono due industriali della zona: Bertolini e Chazalet, in
quanto sospettati di essere fiancheggiatori delle autorità
fasciste e minacciati di fucilazione. Il mio intervento diretto,
poichè conoscevo bene le due persone come antifasciste,
scongiurò condanne sommarie ai loro danni, favorendone
l’immediata liberazione. Ad ogni modo un rapporto di leale
amicizia si era consolidato col capo partigiano Eugenio Fassino,
padre del politico Piero, che operava nella stessa zona della
brigata Frico, come comandante di una brigata Garibaldi".
- E con le truppe
anglo-americane?:
"Durante la resistenza non esisteva un vero e proprio
coordinamento operativo con l’esercito alleato, per cui le
azioni e gli obiettivi venivano pianificati in autonomia; era
presente giusto qualche ufficiale alleato di collegamento.
Maggiore intesa, ripeto, c’era con le altre componenti della
resistenza".
- Cosa le successe durante la
resistenza?:
"Dopo varie vicissitudini e numerose azioni di combattimento,
fui casualmente preso prigioniero il 12 gennaio 1945 da una
pattuglia tedesca a Giaveno assieme a mio fratello ed
interrogato da un tenente dell’esercito tedesco. Interrogatorio
duro, però basato su una forma di rispetto e sull’onore
militare, tanto che l’ufficiale, riconosciutomi come Frico, capo
partigiano ma soprattutto ufficiale dell’esercito, ed accertata
la mia reticenza e riottosità a divulgare nomi e luoghi, mi
disse che se avessero avuto, come alleati, uomini come me,
avrebbero vinto la guerra. Io e mio fratello fummo comunque
condannati a morte da un tribunale straordinario; condanna
accettata serenamente nella consapevolezza che la morte sarebbe
stata un qualcosa di inevitabile, avendo deciso di prendere le
armi e darci alla macchia, ma soprattutto dal fatto di stare
dalla parte giusta".
-E cosa successe quindi?:
"Non venni giustiziato ma fui tenuto prigioniero, anche per eventuali
scambi, fino al 25 aprile 1945, probabilmente perché c’era ormai
la consapevolezza che la guerra stesse finendo con la disfatta
dell’Asse".
- E a liberazione avvenuta?:
"Una volta libero ripresi il comando della mia unità (anche se i
miei sottoposti avevano avuto notizia invece della mia morte per
mano tedesca) rimanendo per qualche settimana a Torino per
consentire che ai partigiani fosse riconosciuto lo status di
combattente.
In quei periodi, ed a guerra oramai finita, mi fu consentito,
per ordine diretto del questore, di trattenere le armi
individuali: un mitra ed una pistola con le relative munizioni,
proprio come riconoscimento del ruolo ricoperto durante la
guerra civile".
- E quando tornò in Calabria
quale situazione trovo?:
"I miei familiari non avendo ricevuto mie notizie erano convinti
che fossi morto.
Purtroppo appresi della morte di mio padre Vincenzo, avvenuta
casualmente nell’agosto del 43, a seguito dell’unico
bombardamento aereo su Catanzaro. Questo fatto, unito alle mie
esperienze di guerra, fa si che io attribuisca al destino un
ruolo fondamentale nella mia vita, proprio per aver sfidato la
morte tantissime volte e in tante circostanze, rimanendo però
sempre incolume".
- E poi cosa
fece?:
"Mi iscrissi al Partito socialista con Michele Riolo, cercando di
diffondere i valori che avevo appreso durante la resistenza e
per i quali avevo combattuto e dal punto di vista lavorativo mi
dedicai all’insegnamento".
- Cosa rimane
oggi della resistenza?:
"Purtroppo si tende a ridimensionare e ridiscutere il suo ruolo,
ignorando i tanti caduti che si ebbero ed il fatto di essere
stata determinante per la liberazione dell’Italia
dall’oppressione nazi-fascista".
A fine intervista il dott. Tallarico ci ha mostrato foto e
documenti.
Impressionante è la quantità di fotografie possedute. Di fatto,
grazie anche alla presenza tra le sue fila di un fotografo, sono
stati ritratti quasi tutti i componenti della brigata Frico,
nonché altri partigiani, in varie occasioni ed avvenimenti, e
molte sono le lettere e le documentazioni ufficiali (tra cui il
diploma di patriota firmato dal generale Alexander), tanto che
si può sostenere che un pezzo della storia nazionale e della
guerra di liberazione sia in suo possesso.
Rimane la constatazione che Federico Tallarico, l’eroico
partigiano Frico, non abbia avuto, proprio nella sua terra, i
giusti riconoscimenti e gli onori dovuti.
L’Associazione "Calabria in Armi" ringrazia fortemente il dottor
Tallarico e la sua famiglia per la grandissima disponibilità
fornita.
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