CALABRIAINARMI
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PER LA PATRIA!
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LA DIVISIONE "ACQUI"
A CEFALONIA
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Il massacro della divisione "Acqui" nell’isola di Cefalonia,
avvenuto nel settembre del 1943, rappresenta il culmine dei tragici avvenimenti
accaduti all’indomani della firma dell’armistizio con le truppe anglo-americane
(8 settembre 1943), quando il vuoto di potere ed il caos istituzionale che ne
scaturì, consegnò l’Italia all’ex alleato tedesco e contestualmente vide le
forze armate italiane allo sbando, senza ordini o con indicazioni imprecise o
contraddittorie.
Nella maggior parte dei casi i soldati italiani sbandati
tentarono di ritornare nelle proprie case, volendo mettere la parola fine alla
guerra ed ai tanti sacrifici patiti; moltissimi, di stanza nei numerosi teatri
operativi, furono fatti prigionieri dagli ex alleati (a volte con l’inganno),
portati presso campi di reclusione ubicati in vari paesi dell’Europa centrale e
sottoposti ad un durissimo regime carcerario.
Alcuni aderirono alle lusinghe tedesche continuando a
combattere al loro fianco ed arruolandosi presso unità militari della repubblica
sociale italiana, nel frattempo costituita, oppure presso reparti direttamente
dipendenti dalle autorità naziste (come le SS ad esempio). Ma ci furono anche
soldati che, dandosi alla macchia, iniziarono a combattere in forma autonoma i
tedeschi creando, oppure aggregandosi a formazioni partigiane nel frattempo
presenti nel nord Italia od all’estero (es. Balcani).
Così come nel Regno del Sud, intanto costituito, iniziava a
prendere forma il nuovo esercito italiano attraverso il 1° Raggruppamento
motorizzato che man mano, assieme alle truppe anglo-americane iniziava la
difficile risalita verso nord.
Ad ogni modo le scelte individuali furono tutte difficili. Da
un canto ci fu chi non se la sentì di imbracciare le armi contro soldati che per
oltre tre anni di guerra erano stati alleati su vari fronti contro un nemico
comune; dall’altra chi, nel rispetto del giuramento al re ed alle istituzioni
monarchiche, ritenne doveroso combattere i nazisti che nel frattempo avevano
occupato il suolo nazionale.
La vicenda della Divisione "Acqui" è invece un caso a se stante
di combattimento di una intera unità militare, di rilevanti dimensioni, con
l’esercito tedesco, rifiutando la resa e la consegna delle armi, pur in mancanza
di ordini precisi provenienti dalle autorità italiane.
L’Italia repubblicana, come sostenuto dall’ ex Presidente
della Repubblica Ciampi, nacque a Cefalonia, nel senso che per la prima volta,
all’indomani dell’armistizio, ci fu resistenza in armi ad un ultimatum posto
dall’esercito tedesco di resa senza condizioni. Episodio simile avvenne a Roma,
presso Porta San Paolo, ad opera dei granatieri di Sardegna nel coraggioso,
quanto vano, tentativo di difendere la capitale dall’occupazione tedesca.
Il Regio esercito combatteva da un paio d’anni in Grecia e
specificamente la 33a Divisione di Fanteria "Acqui", composta da oltre 10.000
uomini e comandata dal generale Gandin, operava da tempo, alle dipendenze
dell’11° armata, a presidio delle isole Ionie (tra Corfù e Cefalonia), settore
strategico per il controllo del golfo di Corinto e del mar Egeo.
Nei tragici fatti che si delinearono, si inserisce la storia
del signor Antonio Canino di Catanzaro. Con estrema lucidità e con dovizia di
particolari narra gli avvenimenti che lo videro giovanissimo protagonista.
D’altronde fu uno dei sopravvissuti ai combattimenti ed è uno degli ultimi
reduci superstiti della "Acqui", per cui la sua è una testimonianza preziosa.
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"Nato
il 13 dicembre 1923, a diciannove anni, il 5 febbraio
1942, viene chiamato alle armi ed inviato dapprima a
Cosenza, successivamente a Caserta presso la caserma
Aldifredda. Dopo qualche giorno viene imbarcato a
Brindisi su una nave con destinazione ignota. Sbarca
dapprincipio a Patrasso in Grecia e poi viene inviato
all’isola di Cefalonia.
Ad
Argostoli, capoluogo dell’isola, viene assegnato alla
Divisione Acqui e più precisamente al 110° Battaglione
mitraglieri. Sono presenti nel reparto altri calabresi:
Bevilacqua di Catanzaro Lido, Furfura di Nicastro, Vito
Simonetta di Francavilla Angitola, Raffaele Serrao.
Nell’isola vengono svolte attività di presidio,
pattugliamento e rinforzo difese. Vengono anche
utilizzati, in mancanza di veri pezzi d’artiglieria,
tronchi di albero per simulare la presenza di numerosi
cannoni antiaereo da 142 mm. Le condizioni di vita sono
buone, il vitto però è scarso ed insufficiente. Solo la
frutta è buona ed abbondante. La popolazione locale ha
in generale un po’ di paura ma, tutto sommato, gli
italiani sono ben visti. La stessa cosa non vale per i
tedeschi. In realtà anche i rapporti tra eserciti
alleati non sono ottimi: c’è qualche diffidenza
reciproca.
Il
tempo passa tutto sommato tranquillamente svolgendo
compiti di vigilanza e controllo, l’unico problema è la
lontananza dalle proprie famiglie. Arriva la fatidica
data dell’otto settembre e, nell’incertezza che ne
segue, alla specifica richiesta di come comportarsi,
giunge l’ordine un pò nebuloso da parte del generale
Badoglio che nella terra ferma bisogna depositare le
armi, nelle isole ioniche si deve combattere, seguito da
un altrettanto sibillino telegramma da parte del
comandante dell’11^ Armata di stanza in Grecia, gen.
Vecchiarelli.
I
tedeschi che nel frattempo hanno ricevuto rinforzi,
formulano alla divisione, nei giorni successivi,
reiterate intimazioni di resa: gli italiani debbono
cedere tutte le armi individuali e collettive senza
condizioni. In realtà tra i militari della Acqui inizia
a serpeggiare l’intenzione di non arrendersi bensì di
combattere. Il sig. Canino ricorda che non ci fu un vero
e proprio referendum, come molta storiografia afferma al
riguardo, ma ci fu comunque spontanea ed unanime volontà
di non cedere al ricatto.
Dopo
vari giorni di trattative e senza aver ottenuto risposte
chiare ed esplicite da parte dello Stato Maggiore (anzi
giungono ordini piuttosto contraddittori), e soprattutto
senza aver ricevuto alcun aiuto o rinforzo dalla
madrepatria, considerata ugualmente l’intenzione da
parte della divisione di non consegnare le armi, intorno
al 14 settembre iniziano scontri armati che dureranno
una decina di giorni.
La
battaglia è furiosa nelle varie zone dell’isola ed
avvengono numerosi bombardamenti aerei da parte
dell’aviazione tedesca, contro gli italiani, finalizzati
a fiaccarne lo spirito. Nel corso di un attacco di
Stukas salta in aria un deposito carburante; ci sono
tantissimi morti ed il signor Canino viene ferito
gravemente ad una gamba e catturato dai tedeschi, dopo
aver assistito a scene raccapriccianti.
Esaurite le munizioni e soverchiati dalle truppe
germaniche superiori in armamenti e mezzi, senza aver
ricevuto alcun aiuto dall’Italia né dai nuovi alleati,
gli uomini della Acqui, abbandonati al loro destino, il
22 settembre sono costretti ad arrendersi con la
speranza di ricevere un trattamento da prigionieri di
guerra.
I
tedeschi invece considerano gli italiani come traditori
da punire con la morte. Inizia la terribile rappresaglia
a danno soprattutto degli ufficiali che vengono portati
vicino al cimitero di Argostoli, mitragliati e gettati
in mare. I morti dovuti ad esecuzioni sommarie sono
migliaia (tra di essi anche il generale Gandin che viene
fucilato), che si aggiungono ai tanti morti in
combattimento dei giorni precedenti. La divisione Acqui
è pertanto decimata; di essa circa duemila uomini
vengono fatti prigionieri e deportati.
Canino invece
riceve le prime cure dai tedeschi, poi su una zattera
viene inviato a Patrasso ed inizia un lungo e terribile
viaggio di undici giorni in treno fino in Polonia.
Viene dapprima
ricoverato all’Ospedale di Varsavia, ove subisce un
delicato intervento alla gamba. Il trattamento
riservatogli è complessivamente umano e comprensivo.
Il 20
aprile 1944 nell’ospedale cui è ricoverato conosce
Hitler, in visita nella struttura il giorno del suo
compleanno, in quale gli dà la mano apostrofandolo:
"Italiano maccarone".
In
convalescenza, vista anche la sua giovanissima età,
cerca di socializzare con la popolazione del posto
contravvenendo però ai perentori ordini al riguardo. Un
sottotenente tedesco lo scopre e lo fa condannare a
dieci giorni di cella di rigore a pane ed acqua.
Tempo
dopo, e sempre sofferente alla gamba, viene trasferito
in altre località e poi a Dachau, ove inizia a lavorare
presso un giornale locale alle dipendenze del signor
Zimmer. Viene trattato bene ma non ha alcuna notizia
dall’Italia ove oramai lo credono morto.
A fine guerra
viene rimpatriato presso un campo di smistamento a
Verona e poi inviato dapprima all’Ospedale militare di
Baggio ed infine a quello di Viggiù.
Una sera si reca
presso la casa del soldato e lì finalmente riesce ad
informare la famiglia del fatto che è vivo.
Dopo 4
mesi, nel 1946, ritorna in Calabria e può così iniziare
una nuova vita.
L’odissea della guerra e della prigionia è finita, oggi
rimane però il vivido e perenne ricordo, a quasi 65 anni
dal loro accadimento, dei tragici fatti vissuti e dei
numerosi commilitoni che non sono più tornati a casa
sacrificando così la propria giovinezza". |
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Vincenzo Santoro |
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Antonio Canino
mentre riceve
dal Sindaco di Catanzaro una targa-ricordo |
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A nome
dell’Associazione Calabria in armi, si ringraziano i
signori Antonio e Carmine Canino per la squisita e
gentile disponibilità offerta.
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