CALABRIAINARMI

 " PER LA PATRIA! "

 
MEMORIE DI UN FANTE DELLA BRIGATA "CATANZARO"
 

INTRODUZIONE

   
       
 

Il documento che leggerete è una rarità per la Calabria, Regione dove la memoria, specie quella legata agli eventi della Grande Guerra, è stata occultata, ignorata o gettata.

E’ un atteggiamento diffuso che ho dovuto registrare non solo nel comportamento indifferente delle persone i cui familiari combatterono, morendo o sopravvivendo, in quel sanguinoso conflitto ma in quello, prevalente, delle istituzioni dove regnano indifferenza, disorganizzazione, pigrizie immense nel rispondere ai sacrosanti diritti dei cittadini.

Lo scarto con le altre parti del Paese sul modo di rapportarsi con chi, come me, chiede la visione o l’ invio di documenti, rivendica il recupero di forti radici collettive, è stratosferico e questo fa la differenza.

L’incuria è il nostro male maggiore e nessuna difesa retorica di un inesistente senso civico, tranne qualche rarissima eccezione, può farvi fronte ed è un segno di sottosviluppo il cui recupero richiederà tanto tempo. Ecco perchè queste pagine sono un salto fra chi attribuisce alla propria vita la dignità di una storia vissuta, densa di valori da tramandare e chi, invece, direttamente o per colpa dei propri eredi ha dimenticato ogni cosa accontentandosi di un carpe diem senza alcuna radice.

- Le memorie del fante della 6^ compagnia del 141° Reggimento Fanteria Francesco Armogida sono venute alla mia conoscenza attraverso la lettera scritta dal figlio Remigio al senatore catanzarese Donato Veraldi, dopo avere visto le immagini della cerimonia di collocazione del cippo in memoria della Brigata Catanzaro, avvenuta sul Monte Mosciagh nel Settembre 2005 e trasmesse sinteticamente dal TG calabrese della RAI.

Erano pagine che l’autore aveva iniziato a scrivere nel 1977, quando aveva già 86 anni, con la voglia di raccontare l’intera sua vita. Ebbe ancora dieci anni di tempo per completare l’ autobiografia che consta di 10 quaderni oggi custoditi dai suoi familiari.

Come avveniva nelle grandi famiglie patriarcali la narrazione del capo famiglia ha il senso etico di chi vuole essere ricordato per trasmettere memorie dense di valori fra i quali, fondamentale, quello della identificazione del vissuto quotidiano come espressione della volontà divina cui viene affidata l’ intera esistenza. Facevano così gli antichi abitanti di queste terre, come si può leggere nei libri che ricordano le molte benedizioni che, specie nel periodo bizantino, erano associate ad ogni momento della vita quotidiana degli uomini, fino all’ ultimo, quello della morte.

Il nipote prof Enrico Armogida ha curato la translitterazione del testo nella parte che riguarda la partecipazione di Francesco alla Grande Guerra, autorizzandone la pubblicazione a nome dell’intera famiglia.

L’ inizio ricorda molto quello che Umberto Eco attribuisce ad Adso di Melk nel prologo del suo best seller Il Nome della Rosa: "Giunto al finire della mia vita di peccatore, mentre canuto senesco come il mondo, nell’attesa di perdermi nell’abisso senza fondo della divinità silenziosa e deserta……mi accingo a lasciare su questo vello testimonianza degli eventi mirabili e tremendi a cui in gioventù, mi accadde di assistere, ripetendo verbatim quanto vidi e udii, senza azzardarmi a trarne un disegno, come a lasciare a coloro che verranno segni di segni…"

La distanza temporale dagli eventi bellici consente al protagonista di guardare indietro con spirito sereno e, a volte, anche con ironia, l’ intero arco della sua esperienza di richiamato prima e di combattente molto accorto fino a quando a causa dell’ultima ferita riportata torna nella sua Calabria. Francesco Armogida fu un uomo amante della pace e di profonda religiosità. Inizialmente cercò di "scampare la guerra", come i lettori potranno apprendere scorrendo le pagine piacevoli dei suoi ricordi (non tratti unicamente dalla sua memoria ma anche dagli appunti che scrisse in quel tempo), nei quali la descrizione dei diversi sotterfugi allora in uso per evitare di essere inviati al combattimento e, forse, alla morte, mostra una umanità lontana dal coinvolgimento emotivo su interventismo o non interventismo ma più vicina al sentimento degli affetti prossimi e del paese. Non quindi una scelta politica ma la lucida coscienza dei suoi doveri primari di sostegno alla famiglia che, diversamente, avrebbe attraversato periodi di seria difficoltà.

Le famiglie contadine contavano sul proprio lavoro e la perdita di un paio di braccia volenterose creava molti problemi a chi restava ma anche a chi partiva sentendo tutta intera la responsabilità di essere il riferimento più importante, a volte unico, per i propri cari.

La conquista di Trento e Trieste o di Gorizia era lontana dai loro pensieri e, perciò, ogni mezzo per non lasciare ad un futuro improbabile i propri cari era buono, magari con l’ aiuto di qualche conoscenza utile allo scopo. Tuttavia erano uomini con alto senso di responsabilità ed una volta che giungevano al Reggimento ed al posto di combattimento facevano il loro dovere, sia pure,come ampiamente dimostra la testimonianza del nostro caro memorialista, con estrema prudenza, che derivava dalla loro stessa esperienza di vita.

Ma questa non bastava: c’ era il senso del divino che sovrastava la volontà degli uomini al quale bisognava sempre riferirsi con il pensiero o la preghiera. Armogida si votò alla Madonna del Carmine, fin dalla sua prima sera di arruolato, nella omonima Chiesa di Catanzaro. Quel voto, come più volte scrive, lo protesse ripetutamente da una morte la cui casualità è ben narrata nei vari episodi dei suoi ferimenti o nei casi in cui viene sfiorato dai proietti avversari che, sembrerebbero deviati da una volontà superiore, sempre invocata e benevolmente vicina.

La descrizione delle battaglie è nitida come altrettanto lo è la sottolineatura della differenza di status fra ufficiali e soldati di truppa i cui meriti, come nel caso del mitragliere del Mosciagh non vengono riconosciuti, al contrario di quanto avviene per il Generale comandante la Brigata o per altri ufficiali. Qualche spiraglio si apre anche sulla violenza che, ingiustamente, si esercitava sui soldati in cerca di munizioni: rischiavano l’esecuzione sommaria da parte di Ufficiali o carabinieri senza alcun giusto motivo.

Il tempo trascorso permette ad Armogida di farci leggere ciò che in tempi di guerra o vicini agli eventi non avrebbe potuto. Senza trascendere ma con la sobrietà e la saggezza contadina egli tratteggia tutti gli aspetti della permanenza in trincea, dai rapporti con i propri "paesani" al rispetto dell’ avversario, come nel caso del padre e figlio austriaci che vengono sottratti alla morte per un puro sentimento di umanità.

Nel racconto si incontrano persone, morte sul campo di battaglia, che ho potuto rintracciare consultando il libro dei caduti pubblicato dal Ministero della Guerra o leggendone il nome sui monumenti dei loro comuni di provenienza. Questo consente ulteriori ricerche per ampliare il quadro della presenza di tanti conterranei alla Grande Guerra e nella Brigata Catanzaro.

Alcuni furono parenti lontani di persone che conosco ed alle quali è pervenuta la notizia delle memorie che sto commentando, ma è accaduto dopo 90 anni! Non è mai tardi, tuttavia.

Devo ringraziare la famiglia di Francesco Armogida, in particolare suo figlio Remigio per avere permesso la pubblicazione di queste pagine che, allo stato, sono le uniche emerse in Calabria riguardanti una Brigata eroica e controversa, protagonista di eventi ripresi dagli storici della Grande Guerra di ogni parte del mondo.

Di essa mi occupo da due anni e dovrei raccontare,a  mia volta, il corso degli eventi che hanno fiancheggiato la ricerca, a volte in maniera incredibile. Le memorie di Francesco Armogida sono importanti e, per alcuni versi, contribuiscono a chiarire aspetti sconosciuti di alcune battaglie fra le quali, certamente, quella di Monte Mosciagh e della presa di Gorizia.

Di entrambe ricorrono, quest’anno, il 90° anniversario.

In quei contesti furono molti i calabresi protagonisti ma ignorati dalla storia fin qui nota. E’ un documento importante la cui lettura provocherà emozioni diverse da questa breve e certo insufficiente introduzione. Credo, infine, che ringrazieremo tutti quell’antico soldato per averci lasciato questa emozionante eredità che è contemporaneamente storica e profondamente umana. A me che ho avuto modo di approfondire molti temi legati alle vicende di quel conflitto fa dire un grande grazie perchè ha conservato, come raramente accade dalle nostre parti, il senso e il significato di una vita vissuta i cui valori apprendiamo, sentendoci parte della sua e nostra famiglia umana.

Mario Saccà

 

 

 
  NOTE BIOGRAFICHE DI FRANCESCO ARMOGIDA

vedi fotografia

 
     
 

Francesco Armogida nacque a S. Andrea Jonio il 20-11-1891 ed era figlio di Giuseppe Armogida (1863-1951) e di Marianna Samà (1865-1945). Era il secondo genito (I° maschio) di una famiglia di ben 9 figli: 5 femmine (Caterina, Vittoria, Rosaria, Massimilla e Annina) e 4 maschi: Francesco, Luigi, Giacomo e Giuseppe.

Dopo aver ottenuto il diploma di III° elementare, per liberarsi dall’assillo paterno che lo avrebbe voluto agricoltore come lui ed aiutare insieme la famiglia numerosa, imparò il mestiere di muratore, ma l’esercitò poco perché presto dovette partire per il servizio di leva (giugno-dicembre 1912) e, poco dopo, essendo l’Italia entrata in guerra contro l’Austria, al Nord per la "Grande Guerra".

Incorporato al 48° Reggimento Fanteria, di stanza a Catanzaro, ed assegnato alla 5^ Compagnia, congedato il 20 gennaio 1920.

Un anno dopo sposava Concetta De Rosi, nativa di Badolato, e da lei ebbe 5 figli: Giuseppe, Annina, Remigio, Rosa e Carmela.

Continuò a lungo il mestiere di muratore e poi l’attività di commerciante di agrumi, olio e sansa insieme agli altri 3 fratelli e al cognato Francesco Varano, coi quali formò la Ditta F.lli Armogida, che rimase in vita sino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso.

Comunque, in lui rimase sempre vivo l’amore per la campagna, alla quale esclusivamente si dedicò nel periodo successivo.

Morì il 20-12-1987.

 
     
  MEMORIE DELLA "GRANDE GUERRA" di Francesco Armogida  
 

tratte dai suoi "Quaderni n. 4 e n. 9"

(scelte, traslate, ordinate e adattate in italiano corrente dal nipote Enrico Armogida)

 
     
 

[...] Benchè mi trovi con un pesante fardello di anni [sulle spalle] - essendo nato ben 86 anni fa, quasi un decennio prima della fine del 1800 , oggi 7 novembre 1977 mi anima la speranza che il Signore continui a mantenermi in vita e a conservarmi un corpo e una memoria che mi consentano di stendere il Diario "voluminoso" delle vicende della mia vita.

 

1. Venti di guerra: il colonialismo italiano

 

Anzitutto... vorrei parlare delle [dolorose] guerre che hanno martoriato la nostra Patria, e che sono state provocate dall'ambizione [che animava i nostri governanti] di trovare nuovi sbocchi coloniali e di offrire così ai cittadini maggiori possibilità di lavoro e un miglior tenore di vita. Tali guerre, invece, hanno causato alla nostra Nazione vari milioni di morti e feriti, numerosi mutilati e invalidi [di guerra] ed enormi spese, senza apportare i benefici [sognati]. II mio primo ricordo va alla guerra che la nostra Italia affrontò nel lontano 1897-98 per la conquista dell'Eritrea e della Somalia, tenuta come colonia fino a pochi anni fa senza apportare benefici di sorta. Durante la battaglia di Macallè cadde un nostro concittadino, il sottotenente Vincenzo Parisi, e ricordo che durante il corteo funebre tutte le 3 classi di scuola elementare allora esistenti furono condotte in chiesa perchè prendessero parte alla cerimonia: tra gli alunni c'ero anch'io, che frequentavo la prima elementare. Una decina di anni dopo, l'incendio divampò nella Tripolitania e nella Cirenaica. Anche la colonizzazione di queste terre costò alla Nazione enormi sacrifici, per nulla compensati da adeguati benefici. All' Italia, infatti, spettò l'onere di trasformare vaste zone desertiche e, quando si prospettava la possibilità di godere di qualche frutto, tutti i nostri connazionali furono ricacciati con la forza, senza essere minimamente indennizzati degli enormi sacrifici e degli ingenti capitali investiti per bonificare vaste paludi.

 

2. II servizio di leva

 

Il 20 giugno del 1912 fui chiamato anch'io a prestare il servizio di leva e fui incorporato nel 48° Reggimento Fanteria, di stanza a Catanzaro, quale soldato della VI Compagnia. In quanto arruolato di 2^ categoria. - sia perchè appartenevo a famiglia numerosa sia perchè i miei fratellini erano ancora di età inferiore ai dodici anni - avrei dovuto fare solo 3 mesi di servizio militare; invece, dato che l'Italia era in guerra con la Tripolitania, fui trattenuto per altri 3 mesi. Così mi congedai dal servizio militare il 20 dicembre 1912, poco prima della fine dell'anno, e rimasi in famiglia poco più di due d'anni.

 

3. La "Grande Guerra" e la mobilitazione generale

 

Infatti, nel maggio 1915 l'Italia entrava in guerra contro l'Austria; perciò venni "mobilitato" anch'io e con cartolina di precetto pervenutami giorno 16 mi fu ingiunto di raggiungere, per giorno 18 Maggio a Catanzaro, il 48° Reggimento Fanteria, e, incorporato in tale Reggimento ed assegnato alla 5^ Compagnia, rimasi in servizio fino al 20 Novembre 1917. A Catanzaro incontrai diversi compagni, amici e vecchi conoscenti, tra i quali il Serg. Magg. Vincenzino Peltrone, nativo di Badolato, parente - per parte della nonna paterna M. Caterina Peltrone - del defunto Giuseppe Peltrone di Badolato. Ma quello che mi fece maggior piacere fu l'incontro col Ten. Cutuli (1) di Vibo Vatentia che durante il servizio di leva avevo già avuto come comandante della VI Compagnia e del quale per un paio di mesi ero stato attendente in sostituzione del precedente, ch'era ricoverato in ospedale. A lui ero legato da grande amicizia tanto che, appena mi avvistò, venne ad abbracciarmi e mi chiese se volevo divenire suo attendente o ricevere la promozione a graduato. Ma io lo ringraziai, dicendogli che mi sentivo poco bene per un acuto dolore che avvertivo alle spalle da alcuni mesi e che mi faceva sospettare una forma di pleurite.

 

4. La polverina "miracolosa" di De Rosi

 

Sottoposto a visita medica, il dottore mi chiese da quanto tempo avvertivo quel dolore e, senza sottopormi a visita alcuna, mi dichiarò "idoneo", aggiungendo che, se si fosse trattato di un caso grave, mi sarei già "trovato al cimitero". Ma non mi diedi per vinto e continuai ad accusare altri malori, anche se risultarono tutti negativi. II 22 maggio dalla caserma fummo trasferiti a Piazza d'Armi, ove restammo attendati in stato di guerra. Ma, poichè occorreva prelevare indumenti vestiari per l'arrivo di alcuni soldati ritardatari, il Ten. Cutuli assegnò tale compito a 16 militari; a me diede l'ufficio di caposquadra e mi consegnò il foglio di prelevamento della roba con la facoltà di recarmi al deposito del Distretto e ritirare vestiari, scarpe e teloni da tende. Fatto il prelievo prescritto, stavamo sulla via del ritorno, tutti carichi di roba (...), quando, nelle vicinanze della Chiesa di S. Rocco, ebbi la sorpresa di sentirmi chiamare di nome da Domenico De Rosi, ancora amico e compare, dato che alcuni anni avevamo lavorato insieme nell'acquisto di arance e di sansa di olive e che la madre era stata per la Cresima la madrina di mia sorella Anna. Appena mi fermai, mi disse di mandare da solo il gruppo di corvee; e di nascosto mi consegnò una cartina contenente della polvere bianca, insegnandomi in fretta come applicarla sulle palpebre. Io mi recai subito all'albergo e, fattomi consegnare dall'albergatrice la chiave di uno stanzino riservato, mi spalmai con un dito una piccola dose di quella polvere e, dopo qualche minuto di attesa, mi affrettai a rientrare nel mio Corpo, ove giunsi nel momento in cui arrivava la mia squadra. Quella cartina mi fu tanto salutare che mi fece evitare un anno di guerra (allontanandomi forse dalla morte) e, dopo il mio congedo,diventar cognati con De Rosi.. Così iniziò l'aiuto della "protezione divina" nei confronti della mia persona.

 

5. Trucchi vari per evitare la partenza

 

Rientrato all'accampamento senza alcun intoppo, trascorsi la giornata in continue adunanze. A sera formammo una piccola tenda ogni 5 militari e, stesa per terra quella poca paglia che ci distribuirono i graduati, ci sdraiammo su quel ristretto e duro spazio. Ma verso mezzanotte fummo svegliati da un improvviso temporale, che allagò di fango tutte le tende e che contribuì ad accelerarmi una forma acuta e grave di congiuntivite. Infatti, allorchè fu giorno, mi trovai con gli occhi irritati a tal punto che, per recarmi al posto di medicazione, dovetti farmi accompagnare. Appena il Tenente medico mi guardò, mi chiese cosa mi fosse successo, ed io attribuii la colpa al fatto di aver dormito sul fango nella tenda. Egli mi diagnosticò una congiuntivite e, datemi due compresse di aspirina, mi rimandò in compagnia. Ma la sera del 23 maggio cercai di nuovo il modo per spalmarmi un'altra piccola dose sulle palpebre senza farmi vedere dai compagni di tenda. Perciò, la mattina del 24 insistetti a "marcar visita" e, tornato in infermeria, incontrai il Cap. Annetta, che io però non riconobbi esser quello stesso che pochi mesi prima a Cirò mi aveva estratto l' unghia dal mignolo dopo l’infortunio capitatomi sul lavoro. E' probabile ch'egli si sia ricordato di un certo Armogida di S.Andrea, poichè, appena mi vide, mi chiese cosa avessi, e sentito che il Tenente il giorno precedente aveva parlato di congiuntivite, ordinò all'infermiere di prescrivermi il ricovero in ospedale: questo avveniva poche ore prima che il mio Reggimento disfacesse le tende e si dirigesse,in tradotta, verso Palmanova. Entrato in ospedale, tutti i militari ebbero due ore di libera uscita per poter salutare familiari e amici; così tutti gli Andreolesi, una quindicina circa, vennero ad abbracciarmi. Pertanto nel reparto di oculistica mi ritrovai di nuovo fra compaesani e amici di vecchia conoscenza. Tra questi il Ten. D. Peppino Buratta, che io ben conoscevo perchè il fratello Fausto era il Primario del Reparto chirurgico di Catanzaro, e aveva operato per ben tre volte mio fratello Luigi per una grave forma di osteomielite alla gamba. Nel reparto non ero il solo ad aver dolosamente provocato malattia agli occhi; si potevano contare decine di persone. Inoltre, chi potrebbe dire con precisione quanti erano tutti gli altri ricoverati "fittizi", affetti da otiti purulente o da falsa sordità o infettati da una pianta detta "cammaraci" (= euforbia), prelevata lungo la spiaggia, col cui umore lattiginoso si cospargevano i testicoli e per la cui azione (velenosa) accusavano malattie veneree? Tutti i reparti erano pieni. E quanti, per poter simulare una malattia, rimisero la pelle o rimasero menomati per tutto il resto della loro vita? In zona di operazione, incontrai personalmente un calabrese di Rizziconi (RC), il quale segretamente mi consigliò di spalmarmi qualche parte del corpo col "sugo" di un'erbetta dalle foglie simili a quelle delle fragole, la quale provocava brufoli e piaghette. Eravamo in riposo a Perteole, e anch'io ne feci uso spalmandola al colletto del piede; dopo di che marcai visita accusando che mi avevano fatto male al piede le scarpe nuove. Ma fui preso da grave spavento allorchè giunsi all'infermeria e mi accorsi che tanti militari che avevano fatto uso di quell'erba venivano legati nel recinto antistante a piante di gelso e di acacia per essere deferiti al Tribunale Militare per simulazione. Peggio andò all'amico che mi aveva indicato quell'erba e che, preso da profondo sconforto, scaricò la polvere di ben 4 cartucce da fucile e, versatala in un bicchiere insieme a un po' di vino, la lasciò fuori al fresco della notte e la mattina la tracannò. Qualche ora dopo cominciò ad evacuare feci sanguinolente, e, benchè il medico l'abbia mandato all' ospedale, pare sia morto entro pochi giorni. Tutto questo, in una persona ch'era stata in trincea e vedeva come si moriva, incuteva terrore al punto che alcuni, in momenti di avanzata (contro il nemico), preferivano scaricarsi addosso un colpo di fucile. Ritornando at mio ricovero in ospedale, vi rimasi dal 24 Maggio al 20 Giugno, e (fortunatamente) la passai liscia, anzi fui mandato a casa con 15 giorni di licenza per convalescenza. Ne approfittai per sottopormi a un regime di dieta assoluta e di forti sacrifici, tanto che, allo scadere della licenza, per il mio fisico "scheletrico" ottenni di esser ricoverato in ospedale, ove accusai forti febbre malariche. II Cap. Ricci, di Belvedere Marittimo, mi fece una visita accurata e diagnosticò condizioni di fisico scheletrico, proponendo un anno di convalescenza. Pochi giorni dopo, però, fui messo in uscita ed inviato alla Compagnia-Deposito. Continuai a marcar visita, ma fui sempre respinto. Venni a sapere, allora, che un certo Peppino Anoja, nativo della vicina Isca Jonio, aveva ottenuto l'inabilità permanente dietro compenso di £ 2000. Perciò, insistetti con mio padre perchè anche lui mi cercasse qualche raccomandazione presso qualche conoscente. Egli si rivolse, allora, al Primario di Chirurgia dell'Ospedale Civile, dott. Fausto Buratta, e questi si premurò di accompagnarmi a casa del Cap. Mazza, dal quale dipendevano le mie sorti, e insistette perchè mi facesse dichiarare inabile. Egli, allora, mi disse di presentarmi l'indomani in infermeria e di accusare dolori acuti al fianco sinistro. L'indomani feci come mi aveva consigliato, e il Capitano ordinò immediatamente all'infermiere di attestare la mia infermità; ma poi, rivolgendosi a me burberamente, mi disse di non farmi più vedere. Alcuni giorni dopo il mio rientro nella compagnia "inabili", mi trovavo al punto di arrivo della Tranvia per vedere se fosse arrivato qualche compaesano, quando ebbi la fortuna di vedere scendere il soldato Malerba, nativo di Nicastro, il quale rientrava dal Comando militare della Stazione di Catanzaro Lido. Avendogli io chiesto perchè rientrava, mi rispose che doveva ricoverarsi all'ospedale. Senza perdere un minuto di tempo, seguii il Malerba che si stava recando alla fureria della Compagnia "inabili" per annunciare il suo ricovero in ospedale, e, trovandomi in presenza del Serg. Giordano, lo pregai di d'inviare me in sostituzione del Nicastrese. Cosi in giornata raggiunsi il Comando militare, diretto dal Ten. Marche Quintino Morelli di Crotone, che aveva alle sue dipendenze un gruppo di otto uomini addetti alla sorveglianza delle tradotte dirette al fronte e al controllo di tutti i militari di transito. In quel Comando mi conquistai la massima benevolenza del già promosso Capitano Morelli e dei miei commilitoni; inoltre da Agosto a Febbraio realizzai il sogno di rientrare a casa; e infine venni a sapere che in quest’ultimo mese il Comando di Reggio Calabria, dal quale noi dipendevamo, aveva emanato una Circolare che disponeva la nostra permanenza effettiva sino alla data del congedo.

 

6 . La malignità d'un paesano

 

Ma la malignità di una persona di S. Andrea, che nutriva rancore verso mio padre, mi bersagliò incessantemente presso il Deposito, il Distretto e, infine, il Comando di Divisione, con una serie di denunce in cui ero definito come "un imboscato". Sicchè i primi di Marzo 1916 squillò il telefono e il mio Capitano, portata la cornetta all'orecchio, sentì direttamente la voce del Generale, che gli impartiva ordini tassativi di provvedere at mio rientro al Deposito. II novello Capitano, da poco promosso, non ebbe il coraggio di opporsi alla richiesta fatta dal Comando di Reggio, e così mi ordinò di prepararmi at rientro. Giunto alla Compagnia Deposito, fui accompagnato all'infermeria, presso il dott. Occhiusi, il quale mi chiese soltanto quale fosse la mia malattia; alla mia risposta "congiuntivite" e "febbri malariche", senza guardarmi affatto, replicò che "m'inviava sul Carso, ove mi avrebbero fatto guarire ogni malanno".

 

7. Soggiorno nella Chiesa del Carmine e voto alla Madonna

 

Così per un mesetto circa, dai primi di Marzo fino al 5 Aprile, stipato insieme ad altri 50 militari, soggiornai in parte nel Convitto degli Orfani e in parte nella navata della Chiesa del Carmine, ove scelsi come dormitorio quella larga lastra di marmo che fa da piedistallo all'altare e alla sovrastante nicchia della veneranda Statua del Carmelo. Ivi più volte al giorno veneravo e pregavo la statua della Madonna e continuavo a rimuginare come per la malignità di un "aspide" io fossi stato costretto ad abbandonare quel posto sicuro, lontano dai pericoli e vicinissimo a casa, e ad esser trasferito al "macello di carneficina". Ma lo feci in modo particolare quel fatidico 5 Aprile allorchè, fin dal mattino, si cominciò a vociferare che appena consumato il rancio delle ore 13.00 avremmo lasciato l'accampamento e ci saremmo recati alla Stazione ferroviaria per salire sulla tradotta e trasferirci verso l' insanguinato Carso. Quando, verso le 11, la tromba diede il segnale di mettersi lo "zaino a spalla", espletato l'affardellamento, con gli occhi grondanti di lacrime m'inginocchiai ai piedi della Statua della Madonna, implorai il suo aiuto e la sua protezione e feci voto di intensificare la devozione nei Suoi confronti, portando il Suo scapolare e astenendomi dalle carni nei giorni di mercoledì a Lei dedicati. Ed ella ha accolto le mie lacrime e rispettato fedelmente il suo impegno, al punto che, qualche giorno dopo che fui aggregato al 141° Reggimento Fanteria, quand' ero pronto per esser inviato in trincea, in uno stato di dormiveglia vidi la Vergine protettrice, la quale si trattenne per qualche minuto al mio fianco, tutta bella e sorridente. Da ciò io arguii la sua volontà di offrirmi una valida e costante protezione. Col pensiero rivolto alla Vergine venerata e fiducioso nel suo aiuto, affrontai il lungo e tormentoso viaggio e le diverse battaglie ingaggiate e in diverse occasioni mi sentii "miracolosamente" salvaguardato da sicura morte.

 

8. La drammatica odissea: il 20 maggio 1916

 

II 20 Maggio 1916 il nemico attaccò le nostre posizioni del Trentino con l'intento di sfondare sulle pianure venete e su Vicenza in particolare. Ma non riuscì a farlo unicamente per la bravura di un pugno di uomini, 50 in tutto, tra i quali c'ero anch'io. E' vero, infatti, che la mia VI compagnia, ricevuto l'ordine di contrattaccare il nemico, il quale giorni prima aveva conquistato 2 nostre batterie da 75, dopo essere stata logorata disfatta sul monte Mosciagh in 3 soli giorni fra il 25 e il 27 Maggio, non solo riacquistò le 2 batterie, ma per il suo eroismo vide la bandiera del 141° Regg. fregiata della medaglia d'oro. Ma è anche vero che tale compagnia, inizialmente composta da 260 uomini, si ridusse dopo quei 3 giorni a soli 35 soldati guidati da un semplice caporale, dovette ripiegare verso i monti Magnaboschi e Lemerle e sulle pendici del monte Cengio si pose alla dipendenza del Comando di Brigata per preparare e guidare robusti cavalli frisoni e compiere servizi di courvee per sistemare una nuova linea di resistenza. In tale periodo, sulle alture dei monti di Asiago, portai per decine di giorni la camicia inzuppata di acqua attaccata alle carni e, febbricitante e sofferente per atroci dolori che avvertivo in tutto il corpo ma soprattutto alle spalle, tanto che a stento riuscivo a respirare. Mi recai al posto di medicazione, ove trovai un Tenente medico: fu l'unica volta in cui fui sottoposto a visita medica e mi fu verbalmente riconosciuto ch'ero in condizioni tali da esser ricoverato. Ma per l'insufficienza di truppe, dovuta al largo numero di morti, feriti e prigionieri e al ritardo dei rincalzi necessari, il Comando aveva dato l' ordine [tassativo] di non riconoscere nessuna forma [d'invalidità], neppure quella degli agonizzanti. Perciò, il Tenente mi face pennellare l'intero corpo di tintura di iodio e mi disse ch'era costretto a rimandarmi in linea sicuro che sarei morto, e di accettare la morte come se fossi stato colpito da una pallottola. Non so come, ma fatto sta che, grazie all'aiuto celeste, .[anche in quella circostanza] la superai [...]. Quel ricordo lo porto ancora con me, e ho il sospetto che la bronchite asmatica cronica che dopo radiografie e osservazioni varie mi è stata diagnosticata, sia stata causata dalle [numerose e abbondanti] piogge sotto cui fui costretto a stare sui monti Mosciagh e Cengio, nonchè sull'altopiano di Asiago fin dal maggio 1916. Eppure ho sempre evitato di accusare disturbi di sorte sia per la bronchite che per le ferite riportate alla testa e, se pure ho sofferto sempre di lievi disturbi, non ho voluto mai, durante la lunga permanenza militare, simulare stati di maggiore infermità, pur sapendo che dopo il congedo non avrei potuto reclamare alcun altro diritto. Solamente cinque anni fa mi balenò l'idea di sottopormi a visita medica dinanzi alla Commissione militare, ed essa riconobbe la mia invalidità, ma mi accordò la pensione minima di 8^ categoria.

 

9. Tra il 25 maggio e il 1° giugno 1916

 

Eppure una medaglia d'oro la bandiera del 141° Regg. Fanteria, Brigata Catanzaro, l'aveva guadagnata di recente sul monte Mosciagh (nell'altopiano di Asiago), fra i1 25 maggio e il 1° Giugno. I nemici miravano a raggiungere le pianure del Vicentino; ma un pugno di nostri giovani (260 militari in tutto!), tra i quali c'erano gli orfani rimasti nella VI Compagnia, il 25 maggio - vero miracolo - sul monte Mosciagh, meritò la massima onorificenza per aver marciato in testa a riconquistare 2 nostre batterie di Artiglieria rimaste in mano ai nemici. Noi, invece, della Brigata Catanzaro (141° e 142° Fanteria) fummo costretti ad abbandonare la martoriata cittadella di Asiago (Vic.), per ripiegare a tamponare l' avanzata nemica sui monti Magnaboschi, Lemerle e Cengio. Ma la nostra VI compagnia (ridotta a meno della metà, poichè un alto numero era rimasto a difendere le alture di Asiago), subì una grave disfatta e, rimasta con soli 35 uomini orfani di ufficiale e sottufficiale e guidati da un semplice caporale, dovette retrocedere sulle nuove posizioni, insieme a quel pugno di uomini cui avevano assegnato un Tenente "bislacco", in una piccola zona che dominava l'intero Altipiano dei Sette Comuni di Asiago. Dopo poche ore, però, ci spostarono presso il Comando di Brigata, a svolgere servizi di corvee e preparare dei cavalli frisoni (cavalli di Frisia ndr) per poter trasportare nottetempo nelle nostre trincee il materiale necessario ad armare dei reticolati.

 

10. I1 3 giugno: un sottaciuto atto di eroismo d'un figlio di Calabria

 

II mattino del 3 giugno gli Austriaci, avendo gia spostato le loro numerose batterie di ogni calibro, iniziarono un poderoso bombardamento sulle cime del Cengio. Il monte era difeso solo da due compagnie di Granatieri; perciò i nostri furono neutralizzati in poche ore, e furono tutti uccisi, feriti o fatti prigionieri, senza che le nostre Artiglierie potessero sparare un sol colpo, dato che molti nostri pezzi erano stati abbandonati per la forzata ritirata e quei pochi ch'erano stati trainati dovevano ancora essere sistemati. II Comando di Brigata era situato in un appartamento, probabilmente da villeggiatura, in un fossato o - meglio - dolina, sulle pendici del monti. Verso le 11 giunsero al Comando pochi muli carichi di munizioni e di viveri (come gallette e scatolette), e per la guida della mia Compagnia giunse anche un Capostazione delle Ferrovie, di cognome Cattaneo, il quale, dopo essersi congedato da oltre un ventennio col grado di Sottotenente, era stato richiamato col grado di Capitano. Faccio presente che - a causa della ritirata - noi eravamo affamati da più giorni e che, quando giunsero i viveri, ce ne fu consegnata una parte del tutto esigua. II nuovo Capitano aveva cominciato a darci 1 scatoletta e 4 gallette ciascuno, quando all'improvviso avvertimmo lo sparo di varie fucilate dirette contro di noi. Sicchè, rivolto lo sguardo verso tale direzione, notammo che si trattava di una piccola pattuglia di 8-10 nemici che scendevano dal Cengio. Noi impugnammo subito i fucili e li contrattaccammo, respingendoli in precipitosa fuga; a poche centinaia di metri ci fermammo e cominciammo a scavare qualche buca per una nostra maggiore resistenza. Intanto il Magg. Generale Carlo Sanna, comandante della nostra Brigata, salito su una mula e caricato quanto gl'interessava, rientrò al comando e in nostro aiuto inviò la sua guarnigione, formata da un maresciallo, 4 carabinieri con una mitragliatrice pesante, e 15 uomini, compreso un Ten. Colonnello armato di moschetto, ch'era addetto allo stesso Comando. Pochi minuti dopo giungeva un portaordini il quale, mediante un biglietto consegnato al Colonnello, ci ingiungeva di occupare la posizione e cercare di resistere e ci diceva che egli aveva richiesto per telefono un nuovo battaglione perchè ci sostituisse entro poche ore. Ebbene, per fortuna quella piccola pattuglia di esploratori [nemici] ripiegò presto ma, se si fosse potuta render conto delle nostre esigue forze, avremmo corso il serio rischio di essere annientati o di esser fatti prigionieri. Ecco perchè a noi conveniva evitare ogni contatto col nemico e sistemarci, invece, su un piccolo tratto di linea, sparando raffiche di mitra e di fucili e spaventando cosi il nemico, che di certo si trovava nelle nostre vicinanze. Cosi rimanemmo inchiodati su quella posizione fino a sera inoltrata e solo verso le ore 21 avvenne la sostituzione promessaci. Devo aggiungere che, insieme ai carabinieri e mitraglieri, c'era anche un Tenente Colonnello, che prestava servizio presso il Comando di Brigata, il quale col moschetto in mano si stese per terra insieme a noi per racimolare qualche masso e sistemarlo a protezione dalle pallottole avversarie; e ancora, che, mentre noi cercavamo di tracciare una nuova linea, un giovane soldato addetto alla mitraglia, col moschetto in mano, procedette a piedi di una cinquantina di metri, come se andasse in viaggio di nozze, sfidando i proiettili che gli scoppiavano [intorno] a pochi passi di distanza. E quando lo scorse il Colonnello, lo incitò con queste testuali parole: "Giacchè ti stai dimostrando un eroe, cerca di spingerti ancora avanti per scoprire le forze del nemico". Appena costui ebbe fatto pochi passi, inaspettatamente si trovò circondato da un Sergente e da due soldati austriaci, i quali, coi loro fucili spianati, gl'intimarono di deporre la sua arma e di arrendersi. Noi non ritenemmo opportuno sparare, perchè avremmo potuto compromettere la vita del nostro commilitone; ma egli, senza lasciarsi vincere dalla paura, imbracciò fulmineamente il suo moschetto e, nello spazio di qualche secondo, sparò due colpi, coi quali abbattè i 2 soldati. II terzo, ch'era un Sergente, aveva cercato di allontanarsi in fretta, ma noi fucilieri da lontano aprimmo il fuoco e lo vedemmo cadere a terra, ferito in una coscia. Sicchè, il nostro commilitone, che si trovava li vicino, se lo caricò sulle spalle e lo portò via, prigioniero. Quel ragazzo non ebbi il piacere di conoscerlo personalmente, perchè fui mandato in avamposto una ventina di metri innanzi, ma successivamente venni a sapere che costui era un figlio di Calabria, della vicina Soriano, che apparteneva a una distinta famiglia e si chiamava Peppino Pellegrini. Trascorsa qualche oretta, il Capitano ordinò di spostare qualche militare in avamposto perchè sorvegliasse la zona e desse l' allarme se avesse notato truppe avanzare. E purtroppo il compito spettò a me. Avanzato di una trentina di metri in avanti, mi sistemai dietro un grosso macigno, che certamente mi avrebbe coperto e difeso meglio dei miei compagni, i quali rimanevano invece alto scoperto; perciò non reclamai e non chiesi il cambio. Intanto si era fatto buio e, non vedendo nessuna sostituzione, mi avvicinai verso la nostra linea a chiedere il cambio; ma con sorpresa vidi luccicare delle baionette, che m'intimavano di consegnarmi come prigioniero. Si trattava di un altro gruppo di soldati, i quali da una buona mezzoretta avevano dato il cambio ai miei compagni; ma questi, dimenticatisi di me, mi avevano lasciato in balia del caso, col rischio di essere ucciso dai miei stessi connazionali. [...] Fu una fortuna ch'essi, vedendomi avvicinare, pensarono solo a farmi prigioniero, ma in quell' occasione rischiai la morte. Cosi imboccai la via verso Vicenza, e al mattino raggiunsi l' intero Reggimento, compresi i miei commilitoni.

 

11. II 4 giugno: gli ingiusti riconoscimenti

 

Infatti, il 4 Giugno, dopo essere scesi dai monti di Vicenza, i Reggimenti 141° e 142°, che eravamo stati logorati in pochi giorni, ci accampammo sulle pianure venete, nelle periferie di Trevignon del Brenta, e l'indomani le trombe squillarono l'adunata. Ci distribuimmo in forma quadrangolare e, al suono dell'attenti!, apparve il Comandante, il quale prese posizione al centro, a cavallo del suo bel sauro, ed iniziò il suo discorso, in cui elogiava l'intera Brigata, che - nonostante fosse stata duramente provata e logorata in pochi giorni - aveva saputo coraggiosamente resistere e tamponare la profonda avanzata del nemico, e ancor più elogiava il II° battaglione del 141° - della cui VI Compagnia io facevo parte- il quale sul Mosciagh era stato completamente annientato nel tentativo di sfondare la dura resistenza austriaca e di riconquistare 2 nostre batterie da 75 che giorni prima erano rimaste in mano al nemico. Per tale atto di eroismo la massima onorificenza era stata devoluta alla nostra bandiera, la quale fu fregiata di una medaglia d'oro. II discorso, infatti, terminò con un encomio solenne rivolto ai pochissimi superstiti della mia VI Compagnia che sul Cengio, quando si videro accerchiati dal nemico, con encomiabile coraggio si caricarono all'assalto e mantennero le loro posizioni, evitando così che il nemico trovasse il varco libero e invadesse le nostre pianure, con grave pericolo per le truppe scaglionate sul Carso. Queste furono le sue testuali parole: "II tre giugno, presso il loro Comando assalito da alcune pattuglie avversarie, quei pochi uomini, ivi adibiti al semplice servizio di courvee, disprezzando il serio pericolo di essere sicuramente sopraffatti, caparbiamente si lanciavano al contrattacco, costringendo gli avversari a precipitosa fuga, e poscia, sistemandosi in difesa della nostra posizione sino a sera, davano prova di vero eroismo per dar tempo a un nuovo Battaglione di raggiungerli e sostituirli, o - almeno - per resistere al nemico che, se non avesse incontrato altri ostacoli di sorte, avrebbe trovato il varco per dilagare verso le immense pianure venete, ponendo al nostro esercito un vasto accerchiamento e obbligandolo a capitolare". Su tale azione egli disse che aveva inoltrato al Comando Generale ampia relazione e che, se fosse stata accolta, ci sarebbe stato un premio gradito a tutti. Una ventina di giorni dopo fummo radunati nuovamente per ascoltare l' ordine del giorno, che risultava di questo tenore: il Magg. Gen. Sanna Comm. Carlo, per il lodevole contegno e comando impartito alle sue ultime truppe di riserva, veniva fregiato con medaglia d'argento e promosso Tenente Generale.   Cosi chi  era lontano [dal luogo delle operazioni militari] ricevette i massimi onori, mentre chi aveva sofferto realmente non ricevette neppure una copia scritta del bello encomio fattoci. Infatti, nessun cenno veniva fatto al Ten. Colonnello, ai Carabinieri e ai Mitraglieri che si erano uniti a noi per darci man forte e con noi soffrire; nè al giovane Pellegrini che [col suo gesto eroico] ci aveva lasciato ammirati e stupiti tutti. Eppure quel giovane, per il suo gesto coraggioso, una promozione quale aiutante di battaglia nonchè una medaglia d'argento (se non d'oro!) l'avrebbe meritata! Nè noi 35 "miracolati", che avevamo partecipato alle azioni del monte Mosciagh e del monte Cengio, ci siamo sentiti consolati dall'elogio ascoltato. Ci bastò la protezione celeste, che ci tenne lontani dalla morte e che ha consentito poi a me di ricordare le vicende capitateci sui campi di battaglia.

 

12. Il 29 Giugno 1916: sul Carso

 

II 29 Giugno, giorno di festività dei Santi Pietro e Paolo, alle 4 del mattino le trombe suonarono due squilli: uno per la sveglia e l'altro per l'adunata. E noi, con un semplice sorso di caffè - che sarebbe meglio chiamare acqua - e con lo zaino affardellato, passammo svelti in riga, e via verso il Carso, su quelle pianure venete, per una marcia di ben 40 chilometri. Al rientro in accampamento - dopo 12 ore - tutti sfiniti e impregnati di sudore, trovammo le marmitte piene di riso. Al suon di tromba che annunziava il rancio, ci presentammo con la gavetta ciascuno al proprio capo plotone per ricevere un mestolo di riso, ma non avemmo neppure il tempo di consumarlo, perchè nuovamente la tromba diede il segnale di allarme. E noi immediatamente a disfare le tende e passare nuovamente in riga, per riprendere la marcia di altri 20 chilometri verso Cittadella (Padova), da li in tradotta a Palmanova (Udine) e poi a piedi a Chiopris (Udine), ove ci giunse la terribile notizia che il nemico sul S. Michele e S. Martino la sera del 28 e 29 aveva lanciato contro la nostra Terza Armata dei gas tossici, i quali con la nube sollevata avevano sterminato tutti coloro che presidiavano le trincee: si contarono ben 4500 soldati morti asfissiati. Fortunatamente le nostre truppe di rincalzo ebbero la forza di sostituire i morti e dar loro anche una sepoltura; poi rimasero in attesa ricever da un giorno all'altro la chiamata per la trincea.

 

13. La sera di venerdì 14 Luglio

 

Sera di venerdì 14 Luglio tutta la Brigata ebbe l'ordine di trasferirsi in trincea a sostituire un'altra Brigata che occupava il S. Michele e S. Martino. II 141° Regg. occupava una parte del S. Michele, a sinistra, da cima due all'Isonzo; e la mia squadra, formata da 15 soldati e guidata da un Caporalmaggiore di Dasà (CZ), - un sarto sposato, con 4 bambini -, ebbe il compito di presidiare una piccola dolina, situata in un fossato, presso le Rocce Rosse di Peteano: due soldati alla volta dovevano montar la guardia per sorvegliare un ruscello, ove facilmente si sarebbero potute infiltrare truppe nemiche. I soldati che sostituimmo e che l'avevano guarnita per un mese circa, ci assicurarono ch'eravamo fortunati, e ci dissero che potevamo giocare a carte, mangiare e dormire tranquilli. Io - per fortuna o, meglio, per una [misteriosa] protezione celeste - ebbi il compito di montare di guardia per primo, alle 20.00, mentre gli altri, a pochi passi da me (10-15 m. di distanza) si abbandonavano al sonno levandosi finanche le scarpe. II cambio doveva avvenire a distanza di un'ora; perciò, nonostante verso le 20.45 avessi avvertito lo stimolo a fare un bisogno urgente, per non dar l'impressione di essere un "lavativo", cercai di resistere senza chiedere la sostituzione. Ma ricordo che nelle vicinanze sentivo il lamento di un Siciliano, un certo Vincenzo Daino, il quale, avvicinatosi a me, appariva alquanto depresso. Era, costui, un giovane alto e robusto, ch'era ammogliato con 4 figli e che al suo paese faceva la guardia giurata. Ma, giunto in linea, si era sentito profondamente depresso e mi diceva che non lo addolorava tanto lo spettacolo di ciò che succedeva intorno, quanto il rammarico di perdere quei 32 soldi che teneva nella piccola tasca del gilè, senza averli spesi a comprarsi una birra nel passare per Gradisca, un paesino situato sulle rive dell'Isonzo. E alla fine mi confidò che - sebbene fosse uscito incolume da 3 battaglie - quella sera aveva lo strano presentimento che sarebbe andata male. Infatti, una decina di minuti dopo quel triste dialogo, sentii un sordo rumore che - dal modo di cader - pensai fosse un pesante bossolo vuoto "a strapnal", mentre in realtà era una grossa bombarda; e notai che 4 miei compagni di squadra se la davano frettolosamente a gambe senza dare l'allarme abituale ("Allontanatevi, che sta esplodendo una bombarda!"). Perciò, io rimasi immobile al mio posto, ma qualche secondo dopo l'ordigno, che aveva la miccia accesa ed era carico di gelatina, provocò un boato spaventoso e col fumo generato oscurò tutt' intorno ogni cosa. Della mia squadra facevano parte certi Giuseppe e Luigi Barillaro, due fratelli di Oppido Mamertina, coi quali avevo stretto amicizia perchè in quel periodo si trovava come Vicario (vescovile) di quella Diocesi [il compaesano] don Francesco Samà Fumuso. Ritenendomi lontano dai pericoli, io non tenevo neppure l' elmetto in testa ma, cessato lo scoppio, notai sulla giacca e sul berretto 3 piccoli fori di schegge e sentii la gamba destra dolorarmi e grondare sangue, tanto che solo a stento, zoppicando, raggiunsi il posto di medicazione. Ma la mia ferita era nulla di fronte al resto, chè tutta la squadra fu sterminata, tranne quei 4 che erano scappati di corsa. Dei 16 che componevano la squadra, ben 7 furono i morti: il Daino (che aveva previsto la sua fine), e il Caporalmaggiore di Dasà, i cui corpi erano irriconoscibili; un altro Siciliano, Luigi Barillaro e altri tre sconosciuti; cinque i feriti, alcuni lievi, 2 moribondi; solo quattro quelli che rimasero illesi: tra questi_Giuseppe. Barillaro, che aveva_fatto in tempo a fuggire con gli altri tre. Dell'episodio successo quella sera, oltre al fragore della scoppio e allo spavento provato, ricordo ancora chiaramente che mi trovai [improvvisamente] in mezzo alla mia squadra annientata, tra morti e feriti, e che al posto di medicazione incontrai un semplice aspirante-medico, il quale, dopo avermi medicato e fasciato, mi prescrisse solo 6 giorni di riposo e mi ordinò di tornare per le nuove medicature. Nei miei confronti, chiaramente, il medico si comportò ingiustamente. Infatti, i feriti abitualmente venivano inviati all'Ospedaletto da campo, e da qui - dopo aver fatto una fiala antitetanica e cambiato la biancheria - rientravano in Compagnia. lo, invece, nonostante portassi una larga fasciatura alla gamba e fossi zoppicante, fui tenuto in trincea. Perciò, mi chiedo ancora perchè costui non abbia ritenuto opportuno mandarmi (...) al reparto di Sanità per fare almeno una iniezione antitetanica, e perchè non abbia lasciato a tale reparto il compito di decidere se dovevo essere ricoverato in Ospedale. Non pochi commilitoni biasimarono il comportamento tenuto dal medico nei miei confronti, perchè, se il nemico ci avesse assaliti, io mi sarei trovato impossibilitato a difendermi. Ma in trincea il rigore e la disciplina erano tali, che bisognava accettare anche la morte. Ecco perchè in quel periodo io non aspiravo nè ad encomi nè a promozioni, ma aspettavo solo la "grazia" di poter riabbracciare i miei cari.

 

14. Domenica 16 Luglio 1916

 

La mattina di domenica 16 luglio, verso le 10 mi recai al posto di medicazione e con la nuova fasciatura m'incamminai verso la trincea. Verso le 11.00, il mio pensiero era rivolto alla Vergine del Carmelo, cui quel giorno era dedicato, e al nostro protettore S.Andrea, di cui si festeggiava quel giorno la Traslazione delle Reliquie, con una solenne processione per le vie del paese, e di cui era prossima a quell'ora l'uscita della Statua dalla Chiesa Matrice; ma correva anche ai mie familiari e ai tanti altri che, per la lontananza di qualche loro figlio impegnato in zona di guerra in mezzo a innumerevoli pericoli, di sicuro non avrebbero trascorso la giornata serenamente. E passando per la lunga trincea mi sentii chiamare da un soldato della mia stessa Compagnia, ma di altra squadra e a me poco noto - in quell'ora addetto alla sorveglianza di una feritoia blindata can una grossa lastra di ferro -, il quale mi pregava di sostituirlo nel posto di guardia per pochi minuti, solo il tempo necessario per soddisfare un urgente bisogno corporale. Senza obiezione o indugio alcuno mi prestai. Nonostante tale lastra contenesse un foro centrate piccolissimo (di appena 2 cm x 10), tuttavia, aveva fatto perdere la vita già a 3 vedette, perchè a pochi metri di distanza c'era la trincea nemica con una feritoia presieduta da un fuciliere fornito di specchio, il quale, appena scorgeva la sagoma di un militare, premeva il grilletto e colpiva di sicuro il bersaglio. Io di tutto questo non sapevo nulla. Perciò, appena la curiosità mi spinse a dare un'occhiata alla trincea nemica dalla stretta fessura, sentii uno sparo di fucile e mi vidi avvolto da una piccola fumata. Non so dire l'impressione che ne ebbi, perchè mi ritrovavo ancora vivo, "a sangue caldo", ma ebbi la certezza che la pallottola mi aveva colpito alla testa o al petto in parti vitali. Perciò cominciai a toccarmi con le mani per individuare l' eventuale punto di foro; e il panico aumentò quando portai la mano sulla fronte e la tolsi subito intrisa di sangue: rimasi così impietrito, da credermi già morto. Ma non andò cosi, perchè la pallottola aveva deviato di qualche millimetro verso destra, toccando l' estremo lembo della fessura dello scudo, sicchè il proiettile, urtando sullo spigolo, aveva asportato una scheggetta che, infilatasi sulla mia fronte, mi produsse una piccola perdita di sangue, ma subito si chiuse e ancora la sento spesso pungere lievemente. Perciò, gridai al miracolo, che si aggiungeva a quello capitatomi poche ore prima - a duecento metri di distanza - quando ero stato ferito alla gamba e che si sarebbe ripetuto verso il 20 Luglio, quando eravamo ancora in trincea e un apparecchio nemico da ricognizione sorvolava liberamente le nostre posizioni: diverse nostre batterie antiaeree aprirono il fuoco per intercettarlo, ma un bossolo vuoto di quei proiettili mi cadde sull'elmetto e mi evitò la morte; tuttavia, continuando la sua traiettoria, mi colpi solo di striscio al naso, graffiandomelo appena. Eppure si trattava di un bossolo lungo circa 20 cm. [... ].

 

15. L'offensiva: il 6 Agosto 1916 (11)

 

Intanto, il nostro Comando supremo aveva deciso una poderosa e vasta offensiva sul Carso, avvalendosi del migliori Reggimenti ch'erano composti da truppe Meridionali, Siciliane e Sarde, sia per frantumare le trincee che da ben 14 mesi restavano inespugnate sia per le sue mire [segrete] di occupare la bella città di Gorizia. Tutto il mese di Luglio fu impiegato a piazzare batterie di ogni calibro e a sistemare - dalla nostra 2° linea - numerose lancia bombarde, la cui traiettoria era quasi perpendicolare per poter conseguire la distruzione completa del vicini robusti reticolati e della prima linea avversaria, ch'era rafforzata da numerosi avamposti , si può dire blindati perchè protetti da pesanti rotaie in ferro e cemento. Dalla nostra trincea udivamo l' acuto stridore delle perforatrici, che la maggior parte di noi riteneva destinate all'escavazione di piccole buche cariche di forti esplosivi, da accendere mediante miccia al momento della nostra avanzata, per mandare in aria ogni cosa, compresi noi nuovi occupanti. Udivamo anche tuonare più insistentemente il cannone, e crepitare soprattutto le nuove batterie già piazzate, le quali cercavano di mettere sotto tiro i bersagli loro assegnati. D'altra parte vedevamo i due corpi di aviazione, sia quella da caccia che quella da ricognizione, solcare [velocemente] il cielo sopra di noi. Ecco perchè non eravamo tranquilli. E non dico quanto soffrivamo a restare inchiodati da mattina a sera sotto quel sole cocente, privi di acqua e con viveri certamente scarsi, freddi e di poca gustevolezza. E come non accennare poi alla continua perdita di sonno o alla sporcizia della biancheria che, alcune volte, era ricambiata dopo il 40° giorno? Ma "la musica cambiò", tanto da farci rabbrividire senza volere, il 6 Agosto, allorchè, alle sei del mattino, si diede improvvisamente inizio alla grande "festa". Erano le bocche di ben 1500 cannoni, oltre alle numerose lancia bombarde, che nello spazio di qualche secondo iniziarono a martellare ininterrottamente le trincee avversarie, apportando lungo tutto il fronte carsico sfacelo e morte e distruggendo la solidissima linea del loro robusti reticolati. La danza del bombardamenti continuò sino alle 15 del pomeriggio, quando anche noi ricevemmo l' ordine di lanciarci all'assalto e le batterie quello di allungare i loro tiri: ma ormai tutto era saltato in aria, lasciando larghe e profonde buche scavate dalle grosse bombarde e granate lanciate a tappeto, metro per metro. Noi tutti tremanti temevamo che fossero state scavate dai nemici buche cariche di esplosivi (le famose mine ndr) per macellarci facendoci saltare in aria. Ma, grazie a Dio, il nostro sospetto si rivelò infondato, perchè il nemico aveva scavato solo profonde gallerie per riparare le proprie truppe dai pesanti bombardamenti e sistemare avamposti di ricoveri blindati, in cui aveva piazzato pesanti mitragliatrici per falciare noi soldati appena fossimo usciti allo scoperto a dare l'assalto. E infatti, appena corsi all'assalto al grido di "Savoia!", i primi furono falciati da quelle mitraglie e caddero numerosi morti e feriti. lo, cui la sorte aveva concesso di non di varcare la trincea tra i primi, vidi coi miei occhi i miei compagni raggiungere la trincea frantumata priva di militari, ma poi, scoperto un lungo traforo, lanciare alcuni petardi, che producevano un gran fragore e un denso fumo e che costrinsero ben 2000 uomini di truppa, compreso lo Stato Maggiore, ad arrendersi. Tra i primi si trovarono a uscire con le mani in alto due Rumeni, uno un po' anziano, che aveva i baffi e la pipa in bocca, l' altro giovanissimo: erano padre e figlio.. Lo capimmo quando uno dei nostri soldati con la sua baionetta innestata al fucile cercò di linciare il giovane, e non lo fece solo per il nostro pronto richiamo, dato che teneva le mani in alto in segno di resa. Diversamente, invece, capitò a un mitragliere che, nonostante avesse visto uno dei nostri con la baionetta spianata alle spalle, continuava a falciarci con la sua arma; e la smise quando la schiena gli fu traforata dal didietro. Occupata la prima linea, che non esisteva più, alcuni di noi disposero in colonna i 2000 nemici catturati e li accompagnammo al Comando, a cui li consegnammo; gli altri ci spingemmo sulla 2.a linea, ove trovammo scarsa resistenza, ma rimanemmo poco, perchè, a causa del forte logoramento subito, fummo sostituiti da ben due Compagnie di granatieri. Ma il nemico continuò a mandare rinforzi, e sul S. Michele e sul S. Martino la battaglia divampò ancora giorno 7 Agosto, allorchè sopraggiunsero dei rincalzi nemici, i quali in poco tempo snidarono e annientarono i nostri bravi granatieri. Sicchè toccò di nuovo a noi fanti, appiedati e poco distanti, accorrere come rincalzo, contrattaccare e far dura resistenza. Ma la "grande festa" non si era conclusa, perchè, all'alba dell' 8 Agosto, il duello fra i due eserciti contrapposti riprendeva e lo spavento da noi provato fu così grande, che non mi riesce facile descrivere l'accaduto. Le vette di cima una e due erano state raggiunte dai nostri fin dai primi giorni del Giugno 1915, già pochi giorni dopo la nostra entrata in guerra, perchè il nemico aveva evacuato il fiume Isonzo e le pianure circostanti e si era attestato dietro profonde trincee, protette da pesanti reticolati di grosso filo spinato. I nostri fanti più volte cercarono di tagliarlo con pinze o forbici robuste, ma dovettero spesso rinunciarvi per le gravi perdite subite senza alcuna utilità. Perciò i nostri comandi pensarono di usare dei tubi di gelatina per aprire almeno dei piccoli varchi. Ma gli Austriaci, che disponevano di parecchie trincee ben difese, opposero una ferrea resistenza, al punto che, se perdevano qualche tratto, il pomeriggio correvano alla riconquista. Perciò difesero la zona palmo per palmo, annientando la gloriosa III° Armata ch'era guidata dal Duca d'Aosta, cugino di S.M. Vittorio Emanuele (si registrarono, infatti, dalla nostra parte centomila caduti e varie centinaia di feriti), ma subendo non minori perdite di noi. Sicchè, in 14 mesi di "batti e ribatti", il possesso della cresta di cima una e due non fu mai duraturo e sicuro. L'avevamo conquistata la sera del 6, ma il 7, essendo sopraggiunte nuove truppe, fummo celermente scacciati. Ecco perchè sia ai fucilieri che a noi fanti fu impartito l'ordine di resistere o morire. E cosi, in mezzo allo scoppio di migliaia di bocche da fuoco (austriache da una parte e italiane dall'altre) e al fragore di numerose bombarde, mitraglie e bombe a mano di ogni genera, le nostre "misere carni" erano costrette a stare immerse nel rogo di quell'enorme incendio. La mattina dell' 8 Agosto tutti gli uomini disponibili nelle vicine retrovie, in quanto adibiti negli uffici o nei magazzini, furono accompagnati a supplire parzialmente i vuoti creati dai molti caduti e feriti. Tra i nuovi arrivati vidi un mio vecchio conoscente e amico, un certo Antonio Calabretta d'Isca Jonio; ma a distanza di un'ora circa lo rividi trasportato in barella da due portaferiti. Fortunato lui - mi viene quasi da dire - che vide infuriare la battaglia solo poco tempo, anche se devo aggiungere che le ferite che riportò furono tanto gravi da farlo dichiarare "inabile permanente!". Poco dopo l'allontanamento del Calabretta, mi sentii chiamare da un altro suo compaesano, un certo Domenico Mannello; perciò mi diressi verso costui, ma quando gli fui vicino, notai che il suo viso e parte del suo petto erano tutti schizzati di sottili particelle del cervello di un compagno, poco prima colpito in pieno da una granata. Ma come dire tutti gli orrori di una guerra? Quella zona rocciosa era coperta dai cadaveri di tanti e tanti giovani caduti, e i militari, nello spostarsi da un lato all'altro, non usavano neppure la carità di evitare di calpestarli con gli scarponi. Munizioni ne consumammo tante, che a un certo punto ne restammo sprovvisti; e quando qualcuno si metteva in cerca di cassette di bombe o di cartucce, c'era un Maggiore e una pattuglia di carabinieri i quali si ponevano sul suo percorso e, se lo trovavano sprovvisto dell' autorizzazione di qualche superiore ed esso insisteva a proseguire, lo freddavano con la loro pistola. La mancanza di armi fu avvertita a tal punto, che i nostri, che si trovavano in posizione sull'orlo della cima, [a un certo punto] si diedero a lanciare sassi contro gli avversari sottostanti, e verso le nove di sera - dei pochi nemici che resistevano - alcuni si arresero, altri si diedero alla fuga, sempre incalzati da noi sotto un fitto bombardamento a tappeto, sicchè parecchi furono colpiti o saltarono in aria. Espugnate quelle salde posizioni, abbiamo potuto assistere all'ingresso di alcuni nostri reparti a Gorizia, dove un bravo ufficiale, alla guida di soli 200 uomini, costrinse alla resa oltre 1000 nemici asserragliati in un lungo traforo, e fece innalzare il nostro vessillo tricolore. Ci fermammo nelle vicinanze del grosso vallone che da Gorizia raggiunge le pianure di Monfalcone (GO), ed evitammo di avanzare per assicurarci il collegamento con la nostra destra: erano le 12.00 del 10 Agosto, e udivamo il frastuono dei grossi proiettili che cercavano di disturbare l'arrivo dei nostri rincalzi. Per una buona parte il 141° Regg. era costituito da Calabresi e Meridionali in genere. Perciò una decina di militari, che non assaggiavamo rancio dal 5 Agosto e che non avevamo consumato neppure le due scatolette di carne e le poche gallette che portavamo di riserva, ci sedemmo nella parte centrale di un grosso macigno pianeggiante che affiorava da terra. Ma, appena aperte le scatolette, ci raggiunse un proiettile di 149 prolungato, il quale cadde a pochissima distanza da noi e a qualche metro dalle mie spalle. Fortunatamente il proiettile incontrò un granito cosi duro, che non gli consenti di sfondare neppure un centimetro. Perciò noi tutti, come le scatolette, fummo avvolti da una specie di fitta cenere, [ma rimanemmo illesi, perchè] tutte le schegge si diressero verso l'alto e caddero a una decina di metri di distanza, causando la morte di due nostri commilitoni e il ferimento di parecchi altri. Ancora una volta interveniva nei miei confronti la protezione dall'Alto. Attraversato il vallone e raggiunte le pendici del Nad Logem, ci fermammo vicino alla nuova trincea che il nemico aveva costruita e fortificata: rimanemmo sino al 16 Agosto e ritornammo indietro "decimati" dopo 33 giorni d'inferno. I superstiti scendemmo alla vicina Perteole (Udine), in attesa che pervenissero rifornimenti e nuove truppe a sostituire i mancanti.

 

16. Il 18 Settembre

 

Appena questi furono giunti, il nostro Col. Thermes cav. Attilio, sardo, inoltrò la proposta d'inviare le sue truppe ad espugnare le posizioni nemiche presso quota 208, che, per la sua posizione strategica, era la zona più fortificata del Carso. Perciò il 18 Settembre ritornammo in trincea, e a me e ad altri tre soldati fu assegnato un semplice ricovero, adiacente ad un piccolo cocuzzolo riservato agli Ufficiali di artiglieria e coperto con due teli da tenda, col compito di osservare e precisare i loro tiri. Gli Austriaci con le loro batterie lo bombardavano ogni giorno, sicchè il nostro ricovero e la feritoia adiacente a quell'altura venivano di continuo [presi di mira e] molestati. Difatti, fin dal primo giorno ci arrivò la prima granata, la quale doveva essere di quelle incendiarie, dato che, colpito il ricovero, noi fummo bagnati da uno strano liquido, ma rimanemmo illesi. Però, 3 dei nostri fucili, che erano appoggiati in un angolo li vicino, rimasero spezzati e messi fuori uso. Ma, quando il Capitano fece la richiesta della sostituzione delle armi, il Colonnello voleva sottoporci a punizione, con la motivazione che, se le armi erano in nostro possesso, anche noi avremmo dovuto subir la stessa sorte... Alcuni giorni dopo, di sera, verso l'imbrunire, il nemico ci lanciò una grossa granata incendiaria, la quale per 5 minuti emanò un intenso fumo nero, che oscurò tutta la zona e ci fece subito pensare alla presenza di gas. Perciò, tutti, compresi gli Ufficiali, indossammo la maschera e accendemmo piccole fascine di legna e di paglia. Quindi aprimmo un nutrito fuoco di fucili e di mitraglie; e, dopo che lanciammo in alto dei razzi verso le nostre batterie in segno di allarme, aprirono il fuoco anche esse, come fecero gli avversari, che lasciarono a terra alcuni morti e feriti. L'attacco cessò dopo un'oretta.
 

17. Il 3 Ottobre: il sogno premonitore e la ferita alla testa

 

Come già detto, il nostro ricovero veniva preso di mira ogni giorno. La mattina del 3 Ottobre mi trovavo di turno a vigilare la feritoia, ed ero in piedi, stanco per la sorveglianza, quando, in una specie di dormiveglia, scorsi la nonna paterna (M. Caterina Peltrone), morta quando io avevo l' età di 4 anni, la quale, tutta piangente, si lacerava le lunghe trecce e distribuiva i capelli fra i parenti; inoltre ebbi l'impressione di trovarmi a S. Andrea per assistere a un interminabile funerale in cui c'era una grossa bara coperta da un drappo tricolore e sormontata da una corona di fiori, la quale si muoveva dalle Treffontane verso il Cimitero. Ripresomi di soprassalto, provai un forte tremolio, accompagnato da brividi di freddo, e pensai a una mia prossima fine. Infatti, dopo qualche minuto arrivò la prima granata, che scoppio nelle prossimità. Mi trovavo di vedetta, e [se mi fossi allontanato], sarei stato punito severamente per abbandono di sorveglianza; ma dati gli avvertimenti ricevuti, mi rifugiai presso il ricovero del Tenente, e nessuno ebbe rimostranze o rimproveri da farmi. II ricovero era gremito di soldati ed io mi accontentai di sdraiarmi all' aperto in trincea. Ma passato qualche minuto, ecco una seconda granata, che colpì in pieno il mio ricovero, mandandolo tutto per aria; ed una scheggetta vagante ("intelligente"), dopo una traiettoria di una ventina di metri, si diresse verso di me e, dopo avermi perforato l' elmetto, mi provocò una ferita, da cui fuorusciva sangue. Mi recai, perciò, al posto di medicazione. Ma in quel lasso di tempo incontrai il Capitano, il quale minacciandomi con la pistola in pugno, mi intimò di tornare indietro; ma poi, vistomi sanguinante, mi concesse il permesso. In medicheria mi praticarono la prima medicazione e mi bendarono la testa in attesa che mi portassero al reparto di Sanità, situato nella vicina Doberdò. Ma, poichè non c'erano mezzi di trasporto, pensai di recarmi a piedi. Nelle vicinanze del posto di medicazione ebbi la sorpresa di sentirmi apostrofare con tali parole: "Armogida, dove vai?". Dato uno sguardo intorno, riconobbi il caro amico e parente Serg. Magg. Vincenzino Peltrone, che non avevo più visto dal 24 maggio 1915, quando ci distaccammo a Catanzaro. Egli, venendo nella mia direzione, (presagendo la sua sorte), mi disse: "Beato te, che ti allontani da questo inferno!". E difatti, in seguito, a Bologna venni a sapere che una granata l'aveva dilaniato e, dopo 3 giorni di ricovero, aveva cessato di vivere.
 

18. Il mio calvario da un ospedale all'altro

 

A Doberdò (Gorizia), ove mi recai per sottopormi a visita medica, mi fu praticata un'antitetanica e subito, fatto salire su un'ambulanza, fui trasferito allo 056 di Scodavati, dove rimasi 2 giorni, e poi nella vicina Perteole (Udine), ove fui ricoverato allo 014. Da qui giorno 8 ottobre, con treno speciale, fui trasferito a Bologna, all'ospedale di riserva Masina, e il 18 al Carminiello di Napoli, in un ospedale della Croce Rossa, ove il vitto era buono, ma non era concesso neppure un giorno di convalescenza. Vidi di persona come un Pugliese, che aveva riportato una ferita simile alla mia, cominciasse a dar segni di pazzia; e pochi giorni dopo, passata la visita dell'VIII Commissione, fu mandato a casa per un anno di convalescenza, in attesa che venisse dichiarato "inabile". Perciò, anch'io avrei potuto simulare la stessa infermità, ma ebbi paura di danneggiare sia il Pugliese che me stesso. Il 4 Novembre fui inviato al Deposito di Catanzaro per 20 giorni di riposo, con licenza di uscita. Ma la sera stessa mi recai furtivamente a casa a riabbracciare i familiari e l'indomani mattina 5 novembre mi presentai in tempo per la visita medica, durante la quale i 20 giorni mi furono convertiti in "inabilità". Fortuna volle, infatti, che alcuni giorni dopo venne da Napoli l'VIII Commissione per la visita medica, e il Generale Medico, vedendo che la ferita non era ancora rimarginata, mi assegnò 3 mesi d'inabilità. Così venni trasferito a Catanzaro Lido, all'81^ Compagnia Presidiaria Inabili. Qui, qualche giorno dopo, la stessa Commissione si recò ad accertare le condizioni di salute dell'intera compagnia, sicchè fui sottoposto a nuova visita. E quando feci presente al Generale che da poco ero stato sottoposto alla stessa visita a Catanzaro città, ove mi avevano concesso 3 mesi d'inabilità, mi riconfermò ancora 3 mesi. I primi di Dicembre la Compagnia fu trasferita a Crotone, dove c'era il Consiglio di Leva per le reclute, e questo richiese un militare in grado di scrivere. La scelta cadde su di me, che vi prestai servizio per un mesetto circa, dando prova di tale efficienza, che fu inoltrata per me la richiesta di rimanervi come "effettivo". Ma prima che pervenisse la conferma, arrivò alla Compagnia l'ordine di rientrare al completo a Catanzaro Lido; sicchè rimasi col desiderio inappagato di potermi "rimboscare".
 

19. Si riparte per il fronte: 5 Marzo 1917 verso Aquileia

 

Rientrati a Lido, infatti, si vociferò presto di una nuova partenza per il fronte. Eravamo ben 250 militari, tutti inabili, storpi o feriti di recente, che ci eravamo illusi di essere dei fortunati, dicendoci che ci avrebbero fatto sostituire cucinieri e piantoni di magazzini chissà dove imboscati. La partenza fu protratta al 5 Marzo e, giunti in zona di operazione, ci condussero ad Aquileia (Lid.). Ma anzichè farci sostituire gl'imboscati, giorno 10 fummo attorniati da ufficiali e graduati del 140° Fanteria, ridotti a Compagnia e accompagnati in prima linea. Io fui assegnato alla Sezione pistole-mitragliatrici della Compagnia dello Stato Maggiore, e fino al 12 Aprile soffrii gravemente la fame che si avvertiva ovunque. Infatti, la pagnotta da 700 grammi fu ridotta a 400 ed era costituita di semplice riso e patate; e questo sempre che la salmeria fosse in grado di raggiungerci per portarci un mestolo di riso con qualche chicco di fagioli. Meno male, però, che non subimmo gravi attacchi o battaglie. Sera del 5 Maggio rientrammo a Perteole (comune censuario aggregato a Ruda nel 1928 n.d.r.) e vi rimanemmo fino a metà del mese. Poi ritornammo in trincea a presidiare quota 135, alla destra di Castagnevizza, anche questa nodo scabroso, e qui restammo fino al 18 Giugno, allorchè rientrammo a Perteole. Ricordo che dal 1° al 4 Giugno (X Battaglia dell’ Isonzo n.d.r.), sotto il sole cocente, il nemico tentò una grossa offensiva e ci martellò con pezzi di artiglieria di ogni calibro, soprattutto nelle retrovie, tanto che rimanemmo privi di qualsiasi rifornimento e vitto. Solamente il 4 ci arrivò una mezza ghirba di acqua, che i capi plotone ci distribuirono con grande parsimonia ("col cucchiaio"). Ma per la nostra tenace resistenza il nemico non fece alcun progresso, anche se ci inflisse sensibili perdite. Come ho detto, rientrammo a Perteole il 18 Giugno, e nelle mia squadra, oltre a mancare il Caporale e qualche altro, ch'eran rimasti uccisi, c'erano anche dei feriti. Sicchè io fui costretto ad accettare i galloni di Caporale e guidare la mia squadra.
 

20. Di nuovo in trincea

 

Ma verso la fine di Luglio tornammo nuovamente in trincea e restammo in linea sino alla fine di Agosto, questa volta verso Selo dove prendemmo parte a una grande offensiva, che da Monfalcone (Gor.) continuava fino alla Bainsizza, punto stabilito per sfondare verso Lubiana. Tuttavia, nonostante l' Italia abbia avuto il dominio in ogni campo: nel cielo, che si vide coperto di 400 nostri aerei, nel mare, da dove una nostra corazzata insieme ad altre navi situate a Monfalcone martellavano le fortificazioni nemiche e sulla terra, da dove sparavano le nostre batterie, lo sfondamento della Bainsizza fallì. Anche durante quella battaglia fui ferito alla testa; tuttavia, al posto di medicazione mi furono concessi solo 6 giorni di riposo in trincea, dato che le nostre forze erano insufficienti. Finita la medicazione, me ne andai in una galleria attigua alla medicheria, e da poco mi ero seduto - rivolto verso l'esterno - su una panca di legno insieme ad altri 3 feriti lievemente, quando su una collina di rimpetto a noi cadde una granata, e una piccola scheggia, rimbalzando indietro, nella sua traiettoria, scansò me e quello che mi stava affianco e si diresse contro il terzo ch'era appisolato, lo colpi alla testa e lo lasciò privo di vita. Condotto alla medicheria, il medico ordinò di levargli la piastrina di riconoscimento e di dargli sepoltura. Tutto questo, come non attribuirlo ad una continua protezione celeste? I pochi superstiti tornammo ancora a Perteole per ricevere i rincalzi; quindi ci recammo presso Casa Bonatti, alle pendici di Castagnevizza, ove di giorno eravamo impegnati in servizi di courvee e di notte ci ricoveravamo in rudimentali baracchini, formati da sacchetti di juta pieni di sabbia e coperti da lamiere di zinco.
 

 21. Fra il 13 e il 14 Settembre

 

La notte fra il 13 e il 14 Settembre il nemico incalzò le nostre retrovie con proiettili a granata e a strappo. Uno di questi cadde a terra inesploso: era un 120, il quale, dopo avere strisciato per terra decine di metri, venne a sfiorare le mie carni, perchè mi era posto a dormire all' estremità destra, a fianco del sacchetto. II proiettile sfondò il sacchetto, arrivò a qualche centimetro dalle mie natiche e miracolosamente si fermò, senza che io mi accorgessi di nulla prima di svegliarmi il mattino seguente. Immaginate il panico da cui fui assalito quando lo vidi, al pensiero che, se fosse esploso, avrebbe ucciso parecchi di noi o che, se avesse percorso ancora pochi centimetri avrebbe fatto in due tronconi il mio corpo. Usciti dal baracchino, scorgemmo, infatti, la lunga traccia di quell'ordigno "intelligente", che di sicuro fu fermato dall'Alto (...) A fine Settembre fummo spinti ancora in avanti, sempre a rincalzo, in una piccola dolina nelle vicinanze di Selo, e la mia squadra si sparse là intorno a racimolare rottami di ferro.
 

22. Il sogno del 3 Ottobre 1917

 

La notte del 3 Ottobre avevo fatto un brutto sogno: mi era parso di vedere un mare torbido e agitato, i cui alti cavalloni mi avvinghiavano sulla spiaggia, mi spingevano in alto mare e poi mi ricacciavano nuovamente sull' arenile. Ora, durante i1 giorno, sul cumulo di residui bellici notai un grosso proiettile privo di spoletta e ancora carico di pece e pallottole. Incurante del sogno fatto, lo afferrai e cominciai a sbatterlo contro un altro per scaricarlo, e continuai a vuotarlo, ignaro della carica rimasta alla culatta. All'improvviso si udì un forte scoppio che mi avvolse la faccia e il torace e m'imbrattò di pece, ma mi lasciò ancora una volta illeso. Eppure una ventina di cassette (di munizioni) che giacevano a una decina di metri divamparono diffondendo schegge dappertutto e costringendo tutti gli altri, compreso il Capitano, a cercar rifugio in una piccola galleria vicina. E qualche giorno dopo rientrammo a Perteole per il solito riposo.
 

23. Il 27 ottobre: la ritirata

 

Ma il 27 Ottobre, poichè il nemico aveva sferrato la sua grande offensiva a Caporetto, il Comandante ci condusse a Doberdò, sempre come rincalzi. A sera, però, fu fatta l' adunata di tutti i graduati, i quali ordinarono ai propri subalterni di lasciare ogni cosa, tranne il fucile, le munizioni, la vanghetta, il telo da tenda e la coperta, dal momento che dovevamo spostarci lontano. E così iniziammo la ritirata, varcammo l’Isonzo, e, sotto una fitta pioggia, lasciammo Scodavah, Cervignano (Ud.), S.Giorgio di Nogaro (Ud.) e Latisana (Ud.), dove restammo 3 giorni in attesa del nemico. Il primo Novembre fu un giorno molto duro: stanchi, affamati e privi di munizioni, in pochi minuti attraversammo le passerelle del Piave e cercammo di arginare l' impeto del nemico per due ore, finchè i genieri non furono in grado di minare e far saltare il lungo ponte ferroviario. Cosi ci ritirammo sull'altra sponda, lasciando morti e feriti e il 2° Battaglione Prigionieri, ed opponemmo resistenza per alcuni giorni. Poi continuammo la ritirata dirigendoci a S. Donà del Piave (Ve), ove restammo alcuni giorni. I pochi superstiti fummo trasferiti presso Romano Alto (Vic.), sulle pendici del Monte Grappa, ove ci trattenemmo fino a Natale. Ma quella sacra giornata la trascorremmo pedalando sulla neve, salendo per il monte Grappa e appiedando sull'Asolone, ove, prima di raggiungere la trincea, trascorremmo la nottata attendati sulla neve in cinque persone; ma, colpiti da una granata, solo io restai incolume: tre morirono, ed uno rimase ferito. Anche questo per me fu segno di protezione celeste. Si andò, quindi, in linea, su morti coperti da alta neve e sotto le sferzate della bora che spirava ogni giorno: sicchè si ritrovavano - congelati - militari, indumenti, pagnotte; e per assaggiare un sorso d'acqua, si doveva sciogliere un po' di neve nella gavetta. Di fronte ci trovavamo una Brigata di Austriaci e la nostra linea era sottoposta alla [continua osservazione] nemica che godeva di una posizione più alta. Talora ci ritrovavamo entrambi a stendere qualcosa al sole senza sparare; ma giorno 10 nov. la brigata austriaca fu sostituita da una ungara, e guai se ti vedevano sporgere un dito: diventava subito bersaglio. Perciò, il nostro Comando ci fornì tutti di occhiali e alpenstok.
 

24. La sera del 14 novembre: ferito di nuovo

 

La sera del 14 novembre poi il Comando ci imparti l'ordine di attaccare il nemico. Era già buffo, e procedevamo a rilento sotto la luce dei nostri razzi. Io avevo fatto una cinquantina di passi, quando fui colpito da una piccola scheggia vagante e, vedendomi perdere sangue, mi diressi verso il posto di medicazione e, augurandomi si trattasse di cosa di lieve entità, chiesi al Tenente medico di medicarmi e di concedermi qualche giorno di riposo, il tempo necessario solo per recarmi al Comando di Battaglione che per ben 3 volte aveva fatto la richiesta del mio trasferimento a Catanzaro perchè fossi incorporato come Caporale ausiliario, ma non aveva ricevuto risposta alcuna. II Tenente medico mi negò il riposo richiesto e mi consigliò di recarmi al reparto di Sanità a farmi fare l' antitetanica e chiedere l'uscita. Ma anche questo me lo negò, e mi mandò allo 056 di Cittadella (Padova). Da qui giorno 20 Novembre fui inoltrato a Roma con un treno speciale, dato che la mia ferita richiedeva altre cure. Fui tentato allora di simulare sintomi di pazzia; ma poi pensai che la via più sicura era quella di farmi trasferire a Catanzaro quale Carabiniere ausiliario. Difatti, con la testa tutta bendata, andai in cerca dell'Ufficio amministrativo situato verso Romano Alto, e qui incontrai il Maresciallo da cui dipendeva e a cui rinnovai la mia richiesta. E questi, dopo avermi fatto un solenne richiamo per l'insistenza mostrata, mi fece vestire a nuovo e mi propose di recarmi ad una quindicina di Km. di distanza per farmi saldare la "diaria" (che si aggirava sulle 30 lire). Ma io rifiutai, e col foglio di viaggio e di trasferimento tra le mani, mi recai per l'ultima volta a Bassano (Vicenza) e presi la tradotta che mi portò a Catanzaro.

 

NOTE:

1) Raffaele CUTULI, tenente del 141° Reggimento Fanteria (Brigata Catanzaro), nato il 30 Agosto 1888 a Monteleone (Vibo Valentia) da Vincenzo e Marcellino Pasqualina. Terminati gli studi liceali stava per iscriversi alla facoltà di medicina, quando venne richiamato alle armi per la guerra in Tripolitania. All’inizio della Grande Guerra comandò con valore la 10^ compagnia del 141° Rgt. F. conducendola più volte alla vittoria. Cadde sul Carso il 2 Novembre 1916 durante la IX Battaglia dell’Isonzo nel Vallone di Doberdò, durante uno  scontro con il nemico. Per il valore dimostrato venne insignito della Medaglia   d’Argento e della Croce di Guerra al Valor Militare con la seguente motivazione:  "Comandante di compagnia guidò il suo reparto all’ assalto di forte posizione avversaria, dando l’esempio di mirabile ardire e di spirito di sacrificio. Ferito mortalmente, rimase tra i suoi soldati, continuando ad incitarli e perseverare nella lotta, finchè spirò sul campo". Carso " Novembre 1916.

 

2) Così veniva chiamato l’attuale stadio "Ceravolo", fino a non molto tempo fa di proprietà del Ministero della Difesa.

3) La chiesa di S Rocco è quella che delimita l’attuale Piazza Roma.

4) L’ ex Convitto Rossi, posto accanto alla Chiesa del Carmine.

5) La Chiesa del Carmine, sita a Catanzaro nel rione omonimo, sorta sul luogo dove, secondo la leggenda, era stata edificata la prima chiesa di Catanzaro dedicata a Santa Maria di Cataro, dal fondatore della città il capitano bizantino Cataro.

6) Gli eventi si riferiscono al trasferimento della Brigata "Catanzaro" sull'Altopiano di Asiago per rafforzare lo schieramento italiano impegnato a contrastare la strafexpedition degli Austro-Ungarici.

7) I Granatieri di Sardegna.

8) Potrebbe riferirsi al Caporalmaggiore del 141° Domenico Ferranto nato a Dasà il 19 Agosto 1891 e morto il 14 Luglio 1916 sul Monte S Michele per ferite riportate in combattimento. (cfr Ministero della Guerra, Militari caduti nella Guerra Nazionale 1915-1918, Albo D’ Oro , Roma 1926). Nel libro di Felice Muscaglione "Eroi 1915-1918", ed Mapograf, Vibo Valentia 2004, lo stesso militare risulta nato a Dasà il 24 Marzo 1885 e morto per malattia il 30 Ottobre 1918 nell’ ospedale da campo n° 106.

9) Soldato del 141° Fanteria BARILLARO Domenico nato l’11 Gennaio 1892 a Oppido Mamertina, distretto militare di Reggio Calabria, morto il 14 Luglio 1916 sul Monte S Michele per ferite riportate in combattimento (cfr Ministero della Guerra, opera citata).

10) La festa del patrono S.Andrea si celebra ogni anno il 30 novembre. Essa era un tempo accompagnata dalla più importante fiera zonale. Essa cadeva in un periodo agricolo (oltre che liturgico) che segnava lo spartiacque fra l’anno vecchio e l’anno nuovo. Allora il grano era già stato seminato ("‘E sant’Andrìa\ o natu o siminàtu o ar’a sporia"), le castagne già infornate ("‘E tutti i Santi [1° nov.]\ castagni arrànti") e le ulive (a ritmo biennale, per la devastante forma di abbacchiatura in uso) erano eventualmente già in fase di raccolta; la natura entrava ormai in letargo e, il contadino, nell’apparente morir delle cose, viveva nella consapevolezza che la vita è tempo di attesa e di speranza, perché, "se il chicco di grano caduto nella terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto". Tanto più che subentravano i primi rigori invernali, e la famiglia era spesso costretta dalle intemperie naturali a stare a casa attorno al focolare o al braciere ("Cu’ eppa pana morìu, cu’ eppa fùacu campàu"). Perciò la festa di Sant’Andrea, primo discepolo di Cristo, arrivava gioiosamente coi riposanti suoni de’ ciaramìaI dI di de’ vovàri, cull'addùabbi de' luci, i jocarìaI dI di d’a fera er’i fùachi d'a prucessiùani: una processione imponente lungo tutto il percorso del paese con tanto afflusso di gente, anche dei paesi vicini, richiamata dalla importante "fiera" locale, che già da qualche settimana consentiva di fare gli acquisti più indispensabili, mancando allora quei supermarket interminabili in cui oggi, in ogni periodo dell’anno, si ritrova abbondantemente ogni cosa. Tutto il Pian Castello era un fitto viavai di gente, la quale passeggiava facendo gli auguri ai numerosi "Andrea" che incontrava ed osservando le "bancarelle" disposte su entrambi i lati, nelle quali si trovava un po’ di tutto.  (dal Dizionario degli Andreolesi del Prof Enrico Armogida).

11) E’ la data della VI battaglia dell’ Isonzo: l’ Esercito italiano attaccò e vinse gli Austro Ungarici sull’ intero fronte del campo trincerato di Gorizia: dal Sabotino, a Oslavia, al Podgora, al S Michele che era la zona più orientale e più ardua da conquistare. Qui la resistenza avversaria fu vinta dalle tre brigate che avevano Catanzaro come sede di comando in tempo di pace: Brescia (19° e 20° Rgt. F), Ferrara (47° e 48° Rgt. F.) e Catanzaro (141° e 142° Rgt. F.). La "Catanzaro" era stata formata a Marzo del 1915, mentre le altre due facevano parte dell’ Esercito fin dalla sua formazione dopo l’Unità d’Italia.

12) Sergente Vincenzo Peltrone del 141° Rgt. F., nato il 26 Agosto 1890 a Badolato, Distretto Militare di Catanzaro, morto il 25 Novembre 1916 nell’ ospedale da campo n° 058 per ferite riportate in combattimento.

13) Brigata Bari.

14) L'undicesima battaglia (agosto-settembre 1917) fu lo scontro più vasto combattuto fino ad allora sul fronte italiano. Il generale L. Cadorna lanciò all'offensiva cinquantuno divisioni che attraversarono l'Isonzo in più punti ma che si dovettero arrestare presso il monte San Gabriele. La disfatta di Caporetto (ottobre-novembre 1917), considerata da alcuni la dodicesima battaglia dell'Isonzo, vanificò poi tutte le conquiste di territorio in precedenza conseguite.

 
 
 

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